giovedì 10 marzo 2005

Martinelli, Riccardo, Uomo, natura, mondo. Il problema antropologico in filosofia.

Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 344, € 23,00

Recensione di Sara De Carlo - 10/03/2005

Antropologia

Nell’Edipo re di Sofocle, Edipo libera Tebe dall’enigma della Sfinge: alla domanda su quale fosse l’animale che cammina prima con quattro gambe, poi con due e infine con tre, egli risponde “l’uomo”. L’Occidente non si acconteterà di questa risposta e si porrà un secondo interrogativo, quello che torna nella Logica kantiana, “che cos’è l’uomo?”; sarà proprio il tentativo di sciogliere questo nodo a fondare la filosofia prima e l’antropologia poi. Se è vero che la compagine tra queste discipline non è mai chiaramente definita, è certo però che l’una e l’altra hanno a che fare col pensiero e la natura umana, con quell’essere - che è appunto l’uomo - che sempre si presenta come interrogante ed enigmatico. Nel suo denso e bel libro Martinelli si propone non solo di descrivere i punti di contatto che avvicinano antropologia e filosofia, ma anche gli spunti e le idee che entrambe attingono dal panorama delle scienze naturali.
Questo compito diventa tanto più difficile nel tempo presente, dal momento che “dire che cos’è l’uomo non significa più parlare di Dio o dell’anima, ma di un essere naturale e mutevole; non disporsi a individuare un’essenza, ma chiarire il significato di una possibilità da realizzare” (p. 7). A partire dall’età moderna, infatti, il precetto socratico gnothi se authòn non basta più; non basta più - di fronte a un mondo che impara a ridefinire i propri confini - indagare sé stessi, ma occorre scoprire l’altro, il diverso, l’estraneo. L’uomo è adesso “chiamato a comprendersi anzitutto nell’affollata dimensione dei diversi «spazi», geografici e storici, entro cui si definisce una pluralità di modi antropologici.” (p. 8)
L’autore usa come punto d’avvio della sua analisi le scoperte e le conquiste geografiche iniziate nel XV e XVI sec. L’apertura al nuovo mondo implica una percezione sempre maggiore delle differenti forme della cultura umana; le nuove terre offrono inedite epifanie dell’altro. Martinelli individua, come effetto primario della nuova concezione, una ridefinizione del tradizionale concetto di barbarie, basato “in origine sull’appartenenza al mondo greco-romano e poi, in aggiunta e in parziale coincidenza con ciò, sulla religione cristiana” (p. 16). Vengono citati, ad esempio, gli scritti di Montaigne nel saggio sui Cannibali, in cui sono presenti una fortissima condanna all’eurocentrismo e un marcato relativismo culturale: la percezione dello straniero come barbaro e selvaggio, egli afferma, non è altro che l’effetto della pretesa di assolutizzare il proprio punto di vista.
Di fronte all’affermazione dell’umanità degli amerindi (ufficialmente sancita nel 1537 dalla Bolla papale Sublimis Deus), si apre il serrato dibattito tra monogenisti e poligenisti: da un lato coloro che, in conformità col racconto biblico, individuano in Adamo ed Eva i progenitori dell’intera umanità e confutano gli oppositori rifacendosi alla tesi migratoria o a miti quali quello di Atlantide; dall’altro i sostenitori della teoria poligenista difendono un’origine da diversi progenitori. Il libro ripercorre in maniera puntuale la storia di questa querelle, e chiarifica il cammino attraverso il quale l’ipotesi monogenista, grazie soprattutto agli studi del naturalista francese Buffon (che nel ‘700 fonda la corrente cosiddetta «degenerativa»), è stata via via depurata da residui teologici e metafisici. Già a partire dal XVII secolo infatti la rappresentazione metafisica dell’uomo inizia a sbiadire, principalmente a seguito degli studi di fisiologia e di teoria del comportamento; si prepara così la strada all’antropologia moderna.
È interessante a questo punto l’analisi che Martinelli fa della proposta filosofica di Descartes: il fermarsi a dichiarare che il nucleo della filosofia cartesiana sia il dualismo è, secondo l’autore, riduttivo e semplicistico. Se andiamo a riprendere la nota immagine dell’arbor philosophiae, le cui radici sono la metafisica, il tronco la fisica, e i rami la medicina, la meccanica e la morale, non possiamo non pensare a un’immagine dell’uomo nella sua interezza. C’è sì meccanicismo, ma non materialismo: “Separare l’anima dal corpo significa consentire in linea di principio la creazione e l’immortalità mettendo così in salvo le radici dell’albero, la metafisica, da possibili conseguenze indesiderate dall’adozione non più procrastinabile di una fisiologia meccanicista” (p. 26).
Se già quindi a Descartes è possibile affidare un ruolo chiave per l’evoluzione dei moderni studi antropologici, c’è da dire che bisognerà aspettare la seconda metà del ‘700 perché l’antropologia entri a pieno titolo nel dibattito filosofico, incontrando la filosofia della storia. Si apre con Herder, Kant e Humboldt un acceso dibattito sul rapporto tra ragione, natura e storia. In Herder, accanito sostenitore del monogenismo, Martinelli ritrova un’attenzione profondissima per l’uomo, custode di linguaggio e sentimento; “la rivoluzione copernicana à la Herder consiste, del tutto consapevolmente, nell’identificazione dell’intera filosofia con l’antropologia” (p. 60). Natura e Umanità seguono in lui una medesima e armonica destinazione. Con Kant l’antropologia sposa una dimensione politica e pienamente pragmatica, a lei spetta il ruolo di individuare il posto dell’uomo nel mondo; nel filosofo di Königsberg infatti l’umanità è un compito aperto nell’orizzonte storico, l’uomo (animal rationabile) è costantemente chiamato a fare di sè un essere razionale e a rendersi degno del suo essere umano. Attenzione però, avverte l’autore, a non dimenticare che “per Kant la domanda sull’uomo non ha affatto un ruolo fondativo,” – come voleva Heidegger - “ma si assume invece un compito relativo al sapere che diviene possibile solo dopo la nuova fondazione critica, la quale avviene indipendentemente e per tutt’altra via” (p. 73). E pure una funzione pragmatica si riscontra poi nell’antropologia comparata di Wilhelm von Humboldt; questi sviluppa una serie di studi sul carattere, attingendo anche alle considerazioni olistico-comparative della morfologia goethiana.
Nella prima metà del XIX secolo, in piena età romantica, l’antropologia diventa una vera e propria moda. In questo panorama un ruolo decisivo va attribuito al diffondersi della Naturphilosophie di  Schelling, che muove dall’unità indistricabile di uomo e natura: “L’assunto della cooriginarietà di spirito e natura impone a Schelling di pensare a un’infinita «produttività» della natura, la quale si estrinseca in diverse «potenze»: la materia (caratterizzata da repulsione, attrazione e gravità), l’inorganico (magnetismo, elettricità, chimismo) e l’organico (riproduzione, irritabilità e sensibilità)” (p. 96).
Martinelli descrive poi il percorso dell’antropologia a cavallo tra idealismo e materialismo. In Hegel egli sottolinea un tornante assai diverso da quello tentato da Kant e Herder: l’uomo hegeliano, in quanto semplice passaggio la cui destinazione è nella ragione, non può più procrastinare il proprio destino, aspettando un futuro tanto radioso quanto remoto; egli è immediatamente chiamato alla lotta, dentro e fuori di sè. “Collocando l’antropologia in un ganglio dialetticamente decisivo, tra natura e spirito, facendo della libertà l’essenza dell’uomo, ma al tempo stesso rendendo anche le più naturali manifestazioni biologiche umane il teatro di una lotta che mira al risveglio e alla liberazione dello spirito, verso un compito che è sempre nuovamente necessario svolgere” (pp. 114-115). Proprio la filosofia hegeliana, “celebrante l’infinità dello spirito che pensa se stesso” (p. 117), sarà fortemente criticata da Feuerbach, il quale, a partire da L’essenza del cristianesimo, si propone di smascherare il grande autoinganno della filosofia: a suo giudizio, Dio non è che la proiezione ortogonale dell’uomo, è l’uomo ad aver creato Dio a sua immagine e somiglianza, non viceversa. Quindi la teologia non è che un’antropologia camuffata.
La concezione dell’uomo in Feuerbach attraversa tuttavia diverse fasi; spesso è stata violentemente attaccata dalla critica. Così se nel 1844, troviamo il ventisettenne Marx applaudire con fervore al Feuerbach de L’essenza del cristianesimo, riconoscendogli il merito di aver palesato l’essenza della filosofia hegeliana; più tardi nelle Tesi su Feuerbach gli imputerà di aver oscurato la dimensione sociale dell’essere umano. In Marx l’antropologia segue un lungo cammino: fin da subito l’uomo è definito come essere naturale, la cui natura si realizza nella storia; nella storia l’uomo opera e trasforma in modo irreversibile sè e il mondo. L’uomo è essere sociale, calato in una serie di rapporti socio-economici: “L’antropologia di Marx non rappresenta, nel quadro della critica, una questione come tante. Si tratta invece, com’è da più parti riconosciuto, di un problema decisivo, che ha impegnato lungamente gli interpreti, formando in vari paesi la materia di ricorrenti polemiche, la cui asprezza deriva in buona parte dalle implicazioni legate al problema di un’«umanizzazione» del socialismo reale” (p. 124).
Proprio nell’ ‘800 l’antropologia assume dignità di scienza vera e propria, istituzionalizzandosi e differenziandosi in due grandi filoni: da un lato l’antropologia fisica (antropometria) e dall’altro l’etnologia o antropologia culturale. La Francia è dominata dagli studi di Claude-Henri de Saint-Simon e dei suoi discepoli; questi sostanzialmente sostenevano un poligenismo positivista e la fissità invalicabile dei caratteri razziali. In Germania invece si sviluppano due grandi tradizioni, una legata alle scienze della natura e all’opera di Bastian e Virchow, ed un’altra legata alle scienze dello spirito e al nome di Waitz. Diversa poi la situazione in Inghilterra, dove, a seguito della Rivoluzione francese, si diffuse un atteggiamento fobico e conservatore nei confronti dell’antropologia, atteggiamento volto a preservare l’ortodossia biblica: “Si spiega così una situazione singolare: sotto la superficie dell’ufficiale monogenismo la maggior parte degli studiosi britannici pre-darwiniani è di fatto poligenista” (p. 146).
Punto di svolta in questo contesto sarà la coraggiosa opera darwiniana: “L’immagine dell’uomo dopo Darwin, semplicemente, non è più la stessa” (p. 149). La pubblicazione, nel 1859, de L’origine delle specie, e, dieci anni dopo, de L’origine dell’uomo, segna uno spartiacque nella storia dell’antropologia; l’uomo, secondo Darwin, non differisce dall’animale nel seguire le leggi dell’evoluzione. Martinelli espone minuziosamente il pensiero darwiniano, i punti di contatto e divergenza con le idee di Lamarck, i suoi effetti socio-politici (darwinismo sociale) e la ricezione che dell’evoluzionismo fecero Nietzsche e Freud; ciò che maggiormente colpisce nella ricostruzione dell’antropologia darwiniana è un doppio movimento, stridente e contraddittorio: “La ripugnanza per la condizione mirabile del selvaggio, in Darwin, fa tutt’uno con la sua straordinaria capacità di pensare l’uomo radicalmente come un essere naturale, non diverso da ogni altro primate, uccello, crostaceo o corallo meravigliosamente adatto al proprio ambiente” (p. 164).
Nel ‘900 si assiste alla cosiddetta svolta antropologica, in seguito al venir meno dell’acceso dibattito con l’antropologia scientifica darwiniana: “Si avverte ora, piuttosto, l’esigenza di riflettere sul problema dell’evoluzione della vita e della cultura umane in modo diverso, di inserire la tematica entro contesti più specificamente filosofici, nei quali possono trovare finalmente soluzione le tensioni circa l’idea di uomo derivanti dall’adozione di una prospettiva rigorosamente naturalistica” (p. 187). Questa strada si apre soprattutto grazie all’opera di Dilthey e Cassirer. Il primo riscopre il vivente a partire dal suo vissuto, come essere immediatamente ermeneutico; non più dunque un soggetto conoscente come quello kantiano, ma un individuo che, nella storia, è chiamato a comprendere. Allora antropologia e psicologia andranno di pari passo alla ricerca dell’Erlebnis. Il secondo, sulla scia del primo, ribattezza l’uomo come animal symbolicum, la cui identità si declina in forme quali il linguaggio, la religione, l’arte.
Intorno agli anni Venti si struttura l’antropologia filosofica, con Scheler, Plessner, cui più tardi seguirà Gehlen. L’ultimo capitolo del libro è dedicato alle narrazioni che dell’uomo ha fatto il XX secolo a partire dal dopoguerra, con l’umanesimo esistenzialista sartriano e la sua opposizione a Heidegger, l’antropologia strutturale di Lévi-Strauss, le proposte di Deleuze, Foucault, Deridda, Jonas, Habermas, l’antropologia interpretativa di Geertz, gli studi etologici di Lorenz, la teoria sistemica ecc.
Concludendo, il testo di Martinelli risulta contemporaneamente agile e minuzioso, è insomma un prezioso scritto che offre una visione d’insieme sugli autori e le strade che hanno avvicinato il nome della filosofia a quello dell’antropologia.

Indice

Prefazione
Le origini dell’antropologia
Ragione, natura, storia
Idealismo e materialismo
Il problema dell’evoluzione
La «svolta antropologica» in filosofia
Nuove immagini dell’uomo
Riferimenti bibliografici
Indice dei nomi

L'autore

Riccardo Martinelli è ricercatore al Dipartimento di filosofia dell’università di Trieste. Tra le sue pubblicazioni: Misurare l’anima. Filosofia e psicofisica da Kant a Carnap (Quolibet, 1999) e Musica e natura. Filosofie del suono(1790-1930) (Unicopli, 1999).

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