Recensione di Fabio Lelli – 10/04/2005
Filosofia teoretica (ermeneutica, nichilismo), Filosofia della religione, Antropologia (mito), Filosofia politica (tolleranza)
"Ipotesi sulla religiosità moderna", recita il sottotitolo, mettendo già in gioco i due temi principali di questa complessa argomentazione: la "religiosità" e il "moderno". A Leghissa non interessa essere assolutamente esaustivo, ma concentrarsi su certi autori cruciali per poter seguire un proprio percorso argomentativo.
Se intendiamo l'ambito della "religione" come quello nel quale si dà una forma alla dialettica finito-infinito, e il moderno come quell'epoca nella quale l'uomo pensa di essersi garantito una propria autonomia e un proprio domino sul mondo fondati sulla razionalità, il primo, e inevitabile passo, è il confronto con Cartesio. È l'autore delle Meditationes, infatti, che affronta esplicitamente la sfida della costruzione di una epistemologia che possa essere indipendente da ogni elemento esterno al lumen naturale di ogni essere umano. La sua soluzione, come noto, non consiste certo nel negare l'esistenza di una infinità superiore, ma bensì nel ritagliargli un ruolo che gli impedisca di turbare il nostro potere conoscitivo. Si tratta della famosa metafora del "Dio orologiaio", che dopo aver stabilito le leggi di natura, non interviene più nel mondo, e rimane puro garante del suo funzionamento meccanico. L'esito è quello di rendere l'uomo, anche e fondamentalmente nella sua corporeità, capace di fondarsi su sé stesso. Un rovesciamento dei termini ben noto, ma del quale Leghissa sottolinea la valenza religiosa, che esploderà esplicitamente solo con Nietzsche. Il nuovo vangelo nietzscheano, la sua danza e il suo riso, sono la richiesta di una presa di responsabilità per la strategia di Cartesio, per i suoi esiti, che non erano ancora stati indagati. Cartesio stesso occulta quanto impegnativa fosse la sua soluzione, e quanto lasciasse aperta la questione dell'infinità. Su questo punto Leghissa si rifà alla terminologia psicanalitica: il ruolo di Dio viene, per così dire, "reso inconscio" in Cartesio. Se anche si doveva trattare di un parricidio, è stato un parricidio mancato. La "morte di Dio", se la si vuole accettare con piena consapevolezza, consiste per Nietzsche nel riempire quello spazio del "religioso" con una nuova religiosità; la religiosità di divenire noi stessi, noi "finiti", degli dei. Questo significa ripartire dalla propria finitezza, salutare con gioia la propria infondatezza, e cancellare la possibilità di una fondazione ultima.
Non è questa la strada intrapresa invece da una certa modernità, che ha minimizzato il tema, separando l'inattingibilità della verità dal mondo della vita vissuta, un affascinante problema accademico senza particolari ricadute. Ma l'infinità, come segno dell'incomprensibilità del non razionalmente dominabile, ancora sopravvive, e si aggira nelle nostre vite e nelle nostre filosofie come una richiesta di senso in attingibile, come un "fantasma" (secondo una felice espressione dell'autore) frutto del nostro incosciente parricidio.
Derrida si è invece preso carico della distanza finito-infinito, e del gioco che essa crea. E la consapevolezza di questa è un atto dovuto, una "giustizia" da compiere per evitare la "violenza" conoscitiva di riappropriarsi di ciò di cui non ci si può appropriare. È in Derrida che questa responsabilità di riconoscere l'alterità assoluta rivela la sua paradossalità. Come si può dare questa "giustizia", se il solo modo di farlo è usare la "violenza", e cioè i mezzi conoscitivi della modernità? E cioè, come trattare questa alterità, se il nostro metodo di trattazione è nato sulla rimozione dell'alterità? Si tratta di un'aporia che si incarna anche nell'agire, nell'impossibilità di una legge che, per fondarsi, per fondarsi storicamente, deve operare violenza, la violenza che vuole proibire. La decostruzione è questa abissale consapevolezza, ed è quindi l'unico modo per rendere giustizia, per essere completamente responsabili. La decostruzione non sfugge al proprio ambito concettuale metafisico moderno, perché questo è dato dalla sua storia e dalla sua memoria, ed astrarsi da questi fattori significherebbe crearsi un paradiso di pura concettualità disincarnata. È solo possibile, dalla nostra posizione a fortiori storicamente determinata, educare ad una pausa e ad un ascolto, e non evocare la costruzione di un mezzo di comprensione "puramente altro", capace di "dare giustizia", sganciato completamente dalla sue ostruzioni storiche.
Viene alla mente il confronto di Derrida con Levinas nel bellissimo "Violenza e metafisica", ed è infatti Levinas il terzo autore chiave del testo. Levinas vorrebbe accogliere l'alterità con un mezzo "altro", con un prevalere dell'etica rispetto alla conoscenza. Il conoscere è necessariamente violenza, perché deve incasellare e ridurre ogni alterità a ciò che si può maneggiare concettualemente. L'annuncio dell'altro è il suo volto, una presa di responsabilità immediata e senza filtri. Per Levinas il modello di questo pensiero proviene proprio dalla riconosciuta impossibilità di concettualizzare il divino in Cartesio. Ma si tratta pur sempre di un pensiero, nota Leghissa, e Levinas non si interroga sulla sua provenienza storica, che invece in lui vive, sia come studioso che come uomo. Ci si sta riferendo ad una certa comprensione dell'ebraismo, contrapposto alla "grecità", al conoscere come "metafisica della luce". Ma l'ebraismo è esso stesso determinato storicamente, e leggerlo, come hanno fatto Levinas e Hermann Cohen prima di lui (si tratta di un legame tracciato da Leghissa in modo estremamente affascinante) come culmine di un pensiero "altro", depurato dalle sua determinazioni storiche, considerate accessorie, significa operare un inglobamento, un tradimento verso quello stesso obiettivo di accoglienza.
Quelle origini storiche, quella memoria e quella "eredità" sono insomma assolutamente da non cancellare, pena il rischio di un annullamento dei propri fini di "accoglienza". Le diverse storie e narrazioni che ci precedono, e le nostre stesse vite, sono quel tessuto che deve essere semmai digerito, ma non riletto o relativizzato in base ad un qualche schema di filosofia della storia. Estremamente significative sono, su questo punto, le pagine che Leghissa dedica a Troeltsch e a Overbeck, due autori che si sono confrontati con l'analisi storico-scientifica della religione cristiana. Entriamo in pieno tema "secolarizzazione", dove questa impegnativa parola esprime un qualche tipo di risoluzione dei rapporti fra modernità e religione. In Troelsch lo studio scientifico porta ad una consapevolezza della contingenza del cristianesimo, ma, da credente, Troelsch rifonda l'assolutezza del cristianesimo nell'importanza che esso da all'interiorità personale, un aspetto tutto spirituale che è ciò che dovrebbe essere l'esperienza del religioso nella modernità ormai aliena da altre narrazioni fondative. Overbeck, dal canto suo, riconosce che l'elemento esoterico e monastico del cristianesimo è stato man mano corroso, durante il percorso compiuto dal cristianesimo e dalla Chiesa nella via dell'avvicinamento alla realtà e alla concettualità, nonostante la sua essenzialità storica. Insomma, se lotta c'è stata, fra modernità e cristianesimo, sembra verla vinta la modernità. Ma la situazione non è così semplice: la Kultur del cristianesimo permane, e mantiene una forte importanza spirituale la meditiatio mortis propria del cristianesimo, come un atto di rispetto per la finitezza dell'uomo.
Gli ultimi due quadri del testo sono per Vattimo e Blumenberg. Nella ontologia debole di Vattimo, il riconoscimento della storicità e anche del legame biografico personale di ogni narrazione, non diventa un aspetto accessorio, ma è considerato invece fondante e cifra specifica del conoscere umano. Si tratta di una ridefinizione del "vero", non di un esito scettico. Significa quindi concepire la verità come plurale, e non separabile dalle proprie interpretazioni. Come sottolinea Leghissa, questa prospettiva filosofica ha anche motivazioni etiche, e non solo perché il comprendere si libera così della sua violenta oggettivazione dell'altro, ma anche perché in tal modo non possono sussistere argomentazioni a giustificare una qualche violenza pratica. Vattimo intende la secolarizzazione non come il passaggio dello spazio fondativo dalla religione alla filosofia, ma come l'assenza riconosciuta della possibilità di assoluta fondazione, e quindi una vera praticabilità dell'ospitalità sia per lo "straniero", che per il pensiero del mito (cioè la nemesi sia del dogma religioso che della spiegazione filosofica, come vedremo tra poco). Il cristianesimo viene così vissuto e superato come esperienza personale, poiché le esperienze religiose possono essere solo esperienze vissute. La "discesa" dall'assolutezza è annunciata, secondo Vattimo, dalla stessa kenosis cristiana, il divenire uomo di Dio, come suo "indebolimento".
Blumenberg intende invece contrastare ogni teoria della secolarizzazione, perché queste tenderebbero a sminuire l'importante cesura segnata dal moderno: la capacità dell'uomo di vivere nella sua propria finitezza attraverso la conoscenza e la previsione. Si tratta di un processo di "autoaffermazione", ma soprattutto di "rioccupazione" (Umbesetzung): le aspettative umane cui la religione e il mito rispondevano (quindi Blumenberg dispone anche di una precisa antropologia) sono ora soddisfatte dal sistema concettuale della modernità che è un novus rispetto al pensiero cristiano (e prima ancora mitico) che lo precedeva.
L'antropologia di Blumenberg individua l'essenza dell'umanità nella non-immediatezza del contattato col mondo, a causa dell'assenza di controllo sulle condizioni della realtà: per sfuggire alla mancanza di senso, l'uomo usa la metafora e la narrazione per porre una distanza di sicurezza. Il mito non è che uno di questi mezzi, che è tuttavia diversissimo dal dogma religioso. La sua l'ineliminabile complicatezza e la non non-onnipotenza dei suoi attori, non gli permettono di fondare una fede, né tanto meno una istituzione. È per questo che il passaggio al monoteismo, al Dio onnipotente e vero, e poi alla sua chiesa, chiede l'annullamento del mito, che non può reclamare per sé alcuna verità assoluta. La proposta di Blumenberg si risolve in una lode al politeismo, poiché privo della hybris propria della teologia o della scienza, e quindi capace di "accoglienza" verso altri miti e altre narrazioni di fondazione. È quindi possibile difendere una autoaffermazione che non si traduca necessariamente in violenza.
Leghissa è però critico verso questa posizione, in particolar modo per il suo richiamo alla cesura del moderno: se si passa attraverso una teoria della secolarizzazione, si ha già a disposizione una teoria dei rapporti di filiazione e di convivenza fra moderno e mito, mentre davanti ad una dichiarata differenza irriducibile, occorre mostrare come possa operare questa "religione moderna", e dove si situino i suoi confini di ospitalità e quindi di tolleranza.
Il testo di Leghissa richiede un grande impegno per il lettore, sia per lo sviluppo dell'argomentazione che per il suo linguaggio, che in certi passaggi si fa forse più arduo del necessario. Si tratta di uno studio teoretico profondo e finemente argomentato, su di un tema di primaria importanza, e che mostra quanto la teoresi sia carica anche di valenze pratico-politiche. Diversi gli accenni in questo senso di Leghissa, anche se poco più che accennati. Si meriterebbe uno studio a parte. Speriamo che l'autore prosegua in questa direzione.
Indice
Introduzione
L'infinità di Cartesio e il divenire inconscio di Dio
Decostruzione e giustizia
Gerusalemme non è una polis
Il moderno e l'ospitalità verso il mito
Postfazione di Gianni Vattimo
L'autore
Giovanni Leghissa insegna Filosofia della cultura presso l'Università di Trieste ed è redattore di aut aut. È stato Visiting Professor all'Istituto di Filosofia di Vienna, e ha collaborato con l'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli. Ha al suo attivo diverse pubblicazioni di filosofia contemporanea rivolte in particolar modo alla fenomenologia. È stato curatore italiano di opere di Derrida, di Blumenberg e di Husserl.
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