Cambridge (Mass.)-London, Harvard University Press, 2002, pp. xiii, 203
Recensione di Lorenzo Greco – 29/04/2005
Etica
L’obiettivo di Ethical Formation è di presentare una forma di razionalità pratica in etica che sia in grado di spiegare in che modo possa aversi un agente virtuoso capace di comportarsi in maniera eticamente corretta. Nella riflessione di Lovibond sono fondamentali le nozioni di carattere e di formazione del carattere attraverso un processo educativo. L’individuo moralmente equilibrato è colui che è giunto ad avere la giusta sensibilità nei confronti degli aspetti eticamente salienti della realtà, cioè la capacità di percepire le ragioni morali, e quindi di agire come deve a partire da esse. La prospettiva di Lovibond si offre pertanto come una forma di cognitivismo etico: chi ha sviluppato un carattere virtuoso è in grado di cogliere la rilevanza morale della realtà, poiché è in grado di conoscere le ragioni che essa presenta. Questa prospettiva è anche una forma di realismo morale, in quanto le ragioni morali sono concepite come oggettive e indipendenti dalla psicologia dei singoli individui. In questo senso, Lovibond rifiuta lo psicologismo di stampo neo-humeano perché l’etica, a suo avviso, non ha a che fare con i desideri particolari degli esseri umani, bensì con una razionalità pratica che permette a colui che la possiede di rispondere adeguatamente a una dimensione morale che appartiene alla realtà. Inoltre, la centralità che viene riconosciuta alla nozione di carattere pone questa prospettiva nell’alveo di quella tradizione di pensiero di stampo aristotelico nota come etica delle virtù. Lo scopo di Lovibond è quello di rivedere questa linea di pensiero sganciandola dai presupposti metafisici della concezione classica e “naturalizzandola” alla luce dei recenti sviluppi della filosofia morale.
Questa concezione della razionalità pratica come una forma di sensibilità morale ricorda da vicino le posizioni etiche di John McDowell – e con esse riflette una più generale impostazione di tipo wittgensteiniano che contraddistingue il pensiero di Lovibond sin dal suo primo libro, Realism and Imagination in Ethics. Come McDowell, anche Lovibond è convinta che la realtà si dia da subito come contraddistinta concettualmente, poiché a suo avviso non esiste alcuna posizione neutra da cui osservarla: essa si offre come uno “spazio delle ragioni” al cui interno colui che la sonda si trova immerso fin dal principio. Ciò porta Lovibond ad abbracciare come paradigma dell’indagine filosofica una forma di “quietismo”: qualsiasi indagine si voglia intraprendere non consisterà nell’attività di un osservatore che guarda qualcosa di esterno a lui, bensì nell’esercizio del suo potere naturale di riverberare in se stesso la razionalità di cui la realtà è permeata.
Il fatto che non sia possibile concepire una realtà “in sé” che precede la riflessione a cui la sottoponiamo – e il fatto che i soggetti che la pensano non lo facciano da un punto di vista esterno, ma siano a loro volta parte dell’oggetto che stanno cercando di descrivere – spiega la preferenza tributata da Lovibond a un’impostazione etica in cui non si opera una separazione netta tra la dimensione valutativa e quella descrittiva. In particolare, il suo rifiuto della pretesa di circoscrivere la dimensione valutativa come una sfera di indagine distinta la porta a mettere da parte l’idea che l’etica possa essere tradotta nei termini di una teoria morale organizzata attorno a un insieme di regole precise. Al contrario, il ragionamento pratico consiste in una forma di saggezza che l’agente virtuoso – il phronimos di aristotelica memoria – dimostra di possedere quando si trova a dover risolvere dei casi specifici, poiché è in grado di muoversi con sicurezza nella realtà eticamente densa in cui vive. Lovibond perora quindi una forma di particolarismo in etica: lo scopo della filosofia morale non è di delineare una teoria morale, ma di concentrarsi sul modo in cui è possibile educare un carattere eticamente esemplare, vale a dire di esaminare quei processi formativi attraverso i quali la nostra “seconda natura” – cioè la nostra dimensione di esseri umani dotati di un linguaggio, che partecipano a pratiche linguistiche e sociali condivise – può essere plasmata, così da conformarla a un modello di razionalità pratica che permette a coloro che giungono a padroneggiarla di esprimere un giudizio morale corretto nelle circostanze opportune.
Ciò che differenzia l’approccio all’etica delle virtù di Lovibond da quello classico è il modo in cui si rende conto della capacità dell’agente virtuoso di armonizzarsi con lo spazio delle ragioni. Lovibond rifiuta infatti una spiegazione di ciò in cui consiste lo sviluppo di un carattere moralmente eccellente che faccia appello a un fine inscritto ontologicamente nella natura umana, per riferirsi invece a un “naturalismo rilassato”, ossia a una concezione in cui gli esseri umani sono visti come esseri naturali la cui forma di vita è specificata (anche) dall’uso di segni e dallo scambio di ragioni. Gli esseri umani, in quanto creature caratterizzate tanto da una natura biologicamente determinata quanto da una seconda natura linguistica e sociale, si trovano “immersi in una cultura”, all’interno della quale si svolge quel passaggio del testimone che consiste nel tramandarsi da una generazione all’altra della razionalità pratica, di quel deposito di saggezza comune che consiste nel sapere “che cosa è una ragione per cosa”. L’etica delle virtù di Lovibond presenta dunque una storicizzazione della saggezza pratica che si delinea come una “teleologia sociale”, e concepisce l’educazione come lo strumento che permette agli individui di acquisire nel corso del tempo le capacità necessarie – vale a dire di foggiare la sensibilità morale – attraverso un processo di formazione che vede gli esseri umani come sempre collocati all’interno di un contesto culturale particolare.
Se nella prima parte del libro (Form) Lovibond indica la struttura e gli intenti della sua etica delle virtù, nella seconda parte (Teleology) affronta il problema del modo in cui di fatto l’educazione morale modella l’individuo. Specificamente, Lovibond esamina cosa significa per un individuo realizzarsi come un sé unitario e stabile. Questo processo consiste nel fare propri da parte dell’agente i valori della comunità, nell’interiorizzarli e quindi renderli parte della sua seconda natura, così che egli possa diventare a sua volta l’autore delle sue espressioni morali; non più qualcuno che ripete supinamente gli insegnamenti ricevuti, ma un individuo completo che parla in prima persona. In questo modo, un sé unitario si guadagna – come Lovibond sostiene riprendendo Nietzsche – “il diritto di fare promesse”, ossia diventa responsabile per quello che dice, ed è riconosciuto tale dagli altri appartenenti alla sua comunità.
Ora, è all’interno di questo quadro che Lovibond dialoga con tutta una serie di autori e di prospettive filosofiche – con Michel Foucault, Jacques Derrida e Jean-François Lyotard, con Isaiah Berlin e con vari esponenti del pensiero marxista e del pensiero femminista contemporanei – che da punti di vista differenti rappresentano una minaccia per la sua concezione dell’educazione morale e della razionalità pratica. L’accusa a cui Lovibond deve fare fronte è che la sua impostazione, lungi dallo spiegare in che modo si possa realizzare un sé unitario, responsabile e autonomo, dotato di un carattere virtuoso, non farebbe altro che promuovere una razionalità che ha la pretesa di offrirsi come universale, ma che in realtà corrisponde a una forma di controllo esercitata dalla società nei confronti degli individui. Come Lovibond sostiene nella terza parte (Counter-Teleology), il contrasto che si pone è tra l’esigenza di raffinare sempre di più l’educazione impartitaci all’interno della comunità a cui si appartiene, così da renderla sempre più conforme ai dettami di un ideale di razionalità pratica eccellente, e la protesta di coloro che accusano questo ideale di essere in realtà un tentativo di oppressione e di imposizione ai danni delle persone. In particolare, si pone la questione del modo in cui ci si deve mettere in rapporto con il “recalcitrante”, vale a dire di colui che rifiuta di adattarsi agli insegnamenti della comunità e con essi all’idea stessa che sia necessaria una nozione di ragione universale. Se infatti la possibilità di acquisire la giusta sensibilità per rispondere alle ragioni che la realtà ci offre è data solo dall’interno di una cultura, se non è possibile cioè sganciarci dall’ideale di razionalità pratica che essa ci presenta, in che modo siamo in grado di rispondere a colui che la mette in discussione? Come è possibile valutare l’alternativa che egli ci propone se gli strumenti che abbiamo sono espressione della comunità a cui si appartiene, e che cosa ci garantisce che questa alternativa non consista a sua volta in un differente ideale di razionalità universale, magari peggiore di quello che viene criticato?
Lovibond presenta la sua soluzione – che in realtà si rivela debole, data la sua impostazione, poiché, più che una soluzione, di fatto si tratta di una constatazione del problema – nelle ultime pagine del libro. Sebbene sia vero che la nostra seconda natura si realizza all’interno di una comunità particolare, a suo avviso ciò non significa che l’ideale di razionalità pratica che apprendiamo debba ridursi soltanto alla dimensione che viene offerta da quella comunità, ma può fare riferimento a un orizzonte più ampio che accolga al suo interno altre fonti di valore. Inoltre, il “recalcitrante” non può in effetti muovere le sue critiche senza riconoscere che egli stesso si è formato a partire dalla prospettiva valutativa di quella comunità che sta mettendo in discussione. Esiste pertanto un principio di “conservazione intellettuale” che va sempre presupposto e da cui appare difficile liberarsi. E tuttavia, secondo Lovibond è altrettanto difficile specificare questo principio con precisione, cosicché non è possibile avere la certezza di trovarsi in una posizione da cui poter esprimere un giudizio che possa dirsi certo su ciò che è giusto e su ciò che è sbagliato. E’ necessario adottare un atteggiamento di tipo fallibilista, poiché resta aperta la possibilità che si sia in errore; per questo motivo Lovibond finisce con il riconoscere valore all’atto della scelta in se stessa, cioè ammette che a volte non c’è altra soluzione che “azzardare” una certa azione, pur sapendo che a posteriori potrebbe rivelarsi sbagliata.
Indice
Preface
Acknowledgements
PART I. FORM
1. The Practical Reason View of Ethics
2. Practical Wisdom Scrutinized
3. Form, Formlessness, and Rule-Following
PART II. TELEOLOGY
4. Why Be “Serious”? Natural Basis of Our Interest
5. On Being the Author of a Moral Judgement
6. The “Intelligible Ground of the Heart”
PART III. COUNTER-TELEOLOGY
7. The Determinate Critique of Ethical Formation
8. The Violence of Reason?
9. Reason and Unreason: A Problematic Distinction
Index
L'autrice
Sabina Lovibond è Fellow e Tutor in Philosophy al Worcester College, Oxford. È autrice di Realism and Imagination in Ethics (1983).
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