Recensione di Simona Venezia - 01/06/2005
Filosofia teoretica (metafisica, ontologia), Etica
La sfida che questo testo propone è quella di affrontare uno dei nodi più ostici che animano il dibattito filosofico contemporaneo, interrogandosi sulla possibilità di una «via d’uscita» su cui tentare di orientarsi tra quelle che appaiono essere le due direzioni generali imperanti in tale dibattito: da un lato il relativismo dei valori – inteso come l’impossibilità di fornire un principio ordinatore al pensiero e alla realtà – e dall’altro l’assolutismo del fondamento – inteso come la legittimazione di un’assicurazione onnicomprensiva tramite presupposti incontrovertibili. Tertium non datur: o si rifiuta un fondamento a cui la ragione possa ricondurre la validità delle proprie indagini, o se ne cerca un altro – come può essere, ad esempio, quello appartenente all’ambito tecnico-scientifico –, che giustifichi in forme diverse la negazione dei vecchi principi. Non è un caso che il confronto con un autore come Nietzsche risulti in questo testo irrinunciabile, dal momento che è stato proprio Nietzsche a decretare, con l’avvento del nichilismo, l’insuperabile aut-aut tra queste due direttive fondamentali. Eppure entrambe queste vie sono destinate a interrompersi, la prima vittima di troppe incertezze, la seconda prigioniera di troppe certezze. Per siffatto motivo, il testo si interroga sulla validità di questo tertium, di questa zona lasciata quasi sempre non battuta dal pensiero, forse perché considerata spuria o incapace di indicare radicali cambiamenti. Lo scopo dell’autore è proprio quello di valorizzare questo elemento spurio, senza ergerlo a principio di verità inderogabile, ma leggendolo in una prospettiva che favorisca, contro la deriva del nichilismo, il confronto tra la filosofia e altri saperi. «Vie d’uscita» intese né come vie di fuga né come scorciatoie, dunque, ma come una terza via per il pensiero che non vuole interrompersi di fronte a una conclusione troppo spesso già insita nei suoi presupposti. Il titolo, infatti, è al tempo stesso un proposito e una provocazione, una domanda e una risposta: le vie d’uscita indicate da un’interrogazione filosofica di questo genere non pretendono di elaborare una facile soluzione alle problematiche che segnano l’era della tecnica, ma tentano di indicare una forma di “resistenza” alle tentazioni di onnipotenza che troppo spesso mettono in discussione la gestione della “sussistenza della vita a fronte dell’azione della coscienza”, nel momento in cui “oggi la vita non è più un presupposto indiscusso” (p. 7).
Nel tentativo di un confronto con questo nuovo stato di cose, il testo offre una raccolta di saggi che recano come filo conduttore l’interrogazione sulla possibilità dell’individuazione di un nuovo statuto dell’esistente, identificato nella dimensione dell’essere-alla-vita, dimensione che condivide con l’essere-nel-mondo heideggeriano l’essenza di apertura al mondo, ma con una valenza non circoscrivibile all’ambito meramente teoretico, in quanto definibile come punto di riferimento per il dialogo tra la filosofia e altri saperi. L’autore riprende Dilthey e la sua tesi secondo la quale per il pensiero “bisogna partire dalla vita” (p. 23): l’essere-alla-vita non può essere considerato alla stregua di una categoria filosofica che debba circoscrivere e dirigere l’analisi, ma come un’apertura necessaria per la filosofia che non intende tralasciare l’origine che la vita è sia nei confronti del pensiero che nei confronti della vita stessa. È questo il significato della priorità (e non del primato) della zoé sul bios, come antecedenza dell’istanza della nuda esistenza nei confronti di istanze biologiche che, pur nella loro essenzialità, non possono che essere successive rispetto al “presupposto biologico” e “al mero diritto ad esserci” rappresentato dalla zoé (p. 8). L’essere-alla-vita, infatti, è la possibilità di pensare l’esistente a partire dal fatto dell’esistere, e non dalle forme individuali in cui si concretizza l’esistenza di ogni singolo essere vivente. Quello che qui viene proposto è un principio ontologico, che però allo stesso tempo salvaguarda l’irriducibile unicità ontica del singolo nell’istanza di riconoscere nella zoé un vincolo ‘comunitario’, un’apertura necessaria nella sua generalità fuori da una prospettiva antropocentrica, pur non essendo un fondamento assoluto. Non è un caso che in questi saggi il confronto con Heidegger si giochi più che sull’attestazione di un’ontologia pura sulle ricadute ontiche di un’“ontologia minima” (pp. 17-18), su quella che può essere indicata come un’“ontologia della labilità” (p. 86), un sapere della finitezza che, basandosi sull’essere-alla-vita, riconosce il primo dei significati dell’essere non più nella sostanza, ma nel carattere di “evento” della vita stessa (p. 27). Il pensiero deve porsi come primo obiettivo quello della salvaguardia della zoé così come l’uomo stesso è chiamato a fare per se stesso. Lo statuto dell’essere-alla-vita, in quanto “tenacia che custodisce nel sapere la labilità del suo esserci” (p. 9), si rivela più che una categoria speculativa un principio di saggezza, un limite vincolante non soltanto per la filosofia, ma anche per altre forme di indagine, come quelle che si incontrano nel confronto con l’ambito del diritto, o con “le scienze della nuova umiltà”, così come vengono definite la bioetica, la biopolitica, la sociobiologia, l’ecologia. Troppo spesso la filosofia si erge a giudice dell’incompiutezza di queste scienze, con le quali, però, pur non essendo necessario condividere le conseguenze teoriche, è possibile intraprendere un percorso concomitante, basato proprio sull’essere-alla-vita, come uno statuto vincolante comune. L’attività della coscienza è capace di rendere visibile per il pensiero numerosi aspetti della vita, ma non può esaurirne tutta la totalità: da ciò emerge un limite per il discorso, un argine sia per la soggettività che per il pensiero. Il confronto con altri tipi di sapere, infatti, ha come scopo principale quello di connettere la filosofia a un limite che in qualche modi ne temperi l’autoreferenzialità e ne impedisca derive soggettivistiche.
All’interno di questa prospettiva acquista un nuovo significato il confronto con la natura, intesa non come “un principio di determinazione”, una fonte di emanazione ontologica, ma come il limite che più di ogni altro definisce le possibilità del pensiero, in quanto quell’“intima estraneità” che è propria di ogni uomo (p. 12). La natura viene così pensata non come un fondamento sotto una prospettiva sostanziale, ma come un vincolo sotto una prospettiva relazionale, quel limite che rende il sapere dell’uomo più vicino alla verità che cerca proprio nell’accettazione di questa marginalità. In riferimento a questa prospettiva, è possibile superare la tradizionale contrapposizione tra natura e storia insita nel dissidio tra homo natura e homo cultura, considerato che l’essere-alla-vita necessita di intendere la cultura come “endiadi di natura e storia, ma in questa endiadi natura prima ancora che storia” (p. 10).
Alla luce di queste osservazioni, il “programma stazionario metafisico” indicato dal sottotitolo significa l’appropriazione di quello che già si è, perché, nell’epoca della manipolazione genetica e dell’illimitata apoteosi delle soluzioni tecnologiche, rimanere all’interno dello spazio di tutela del proprio essere-alla-vita risulta di gran lunga più complicato del trascendere i propri limiti alterando artificialmente in maniera esasperata le connessioni biologiche di una specie. L’umiltà è molto più complessa e irraggiungibile dell’orgoglio soggettivistico, poiché, così come l’autore stesso ha scritto in un’altra sua opera: “Nessuno va oltre la sua ombra” (Il singolare tenace, I quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme 1993, p. 49), nessuno va oltre il limite che egli stesso è. L’autore gioca con la complessità semantica insita nel termine “stazionarietà”, che, di primo acchito, può apparire una regressione, un cedimento acritico al rassicurante mantenersi saldo della ragione strumentale, ma che, invece, risulta quanto di più ardito per lo statuto dell’uomo nell’epoca della tecnica. I procedimenti scientifici della tecnica sono caratterizzati principalmente da una sorta di “coazione a ripetere”, il cui meccanismo di causa-effetto può essere interrotto solo dall’interno, solo se si rimane ciò che si è. Per “stazionario”, infatti, non si intende qualcosa di immobile, di fisso e di certo nella propria autoreferenziale stabilità, ma una nuova idea di trascendenza considerata come “il fatto metafisico fondamentale” (p. 156), “il trascendere dal proprio trascendere” (p. 118), ovvero quanto di più mobile sia possibile pensare di fronte alle grandi problematiche della contemporaneità.
Anche a questo proposito, una delle tesi di fondo di questo contributo trae impulso dalla frase di Agostino scelta come esergo [Se volete costruire un grande edificio pensate prima con umiltà alle fondazioni (p. 7)]. Riproporre una domanda insidiosa per la filosofia come quella dell’origine rappresenta sicuramente una sfida per il pensiero, che però non pretende di affermare questo tipo di procedimento teoretico su qualsiasi altro, ma che tenta di indicare che, se non si parte della “fondazioni”, si rischia di perdere irrimediabilmente qualcosa di essenziale per la riflessione. La questione dell’origine è sicuramente un’interrogazione che suscita perplessità sia da parte di un pensiero scientifico che da parte di un pensiero storicista; ma, nel momento in cui essa non viene indagata da un punto di vista sostanzialistico, è possibile riuscire a indicare un principio di saggezza valido per tutti i saperi, che non può essere equivocato come l’affermazione di una verità superiore. Tentare di pensare l’origine significa riproporre alla ricerca filosofica problematiche che possono apparire pacifiche solo a un pensiero superficiale, che non riesce ad indagarle nella loro residua complessità. Questo diventa esplicito sia per la questione dell’identità che per quella della metafisica. Un pensiero che non vuole interrompersi deve tentare di elaborare un nuovo approccio per considerare l’identità, non più “risolvibile nell’autotrasparenza della coscienza” (p. 14), riconducibile alle prestazioni intellettuali dell’individuo, ma riconosciuta anch’essa nel suo “confinamento biologico così come le è dato” (p. 149). L’identità è caratterizzata da un carattere fortemente evolutivo perché essa è prima di tutto progettualità e non semplicemente un contenuto di facoltà. L’esperimento scientifico pretende di salvaguardare questo carattere originariamente evolutivo dell’individuo sottoponendolo a forzature ed esasperazioni, mentre l’approccio filosofico dimostra, che, in realtà, esso può essere tutelato solo se viene individuato nel suo mantenimento, inteso non come fissità in ciò che è già disponibile, ma come riposizionamento in “una forma di vita che resti nella sua autoriconoscibilità per noi” (p. 20). È questo il tentativo che persegue un diverso modo di intendere la metafisica, che risolve la filosofia prima in una filosofia seconda, un’ontologia della physis nella quale, come l’autore dimostra, è riconoscibile un approccio etico.
Pur affrontando tematiche per lo più teoretiche, infatti, questo testo può essere letto come un contributo al dibattito etico contemporaneo, anche perché, nel momento in cui l’etica non può più essere ridotta a una serie di prescrizioni normative o di regolamenti comportamentali, l’unico modo per interrogarne l’istanza più autentica, lontano dalle seduzioni distruttive del nichilismo, rimane quello di localizzare il pensiero in un discorso che tenti di superare il solipsismo aporetico della teoresi e riconoscere un terreno comune per il dialogo con quelle scienze che affrontano da difformi punti di vista la questione dell’essere-alla-vita. Da questa condizione scaturisce lo statuto di questo tipo di pensiero, definibile come un’odologia (pp. 66 e sgg.), un sapere del cammino che intende il sapere stesso come una localizzazione in ciò che è autentico, e non come l’appropriazione di conoscenze e di abilità particolari. Il “passo indietro” che deve compiere la filosofia implica una saggezza più compiuta dell’avventarsi acriticamente verso il tentativo di svincolarsi da ogni forma di ridimensionamento o confine. Il carattere principale di tale domanda è, infatti, quello di fondare sulla finitezza dei propri limiti la fecondità delle proprie possibilità.
Indice
A mo’ di introduzione: L’identità umana come programma stazionario metafisico
Dall’essere-nel-mondo all’essere-alla-vita
Ontologia dell’essere secondo
Ermeneutica e odologia: ermeneutica fenomenologia storicità
La volontà di potenza come volontà di forma. Il muro della finitezza: il corpo
Significato e fine della storia: il verdetto del nichilismo
Il diritto e la salvezza della vita: vita, natura, diritto
Giebt es auf Erden ein Maas? Es giebt Keines…
Che cos’è metafisica?
Storicità e ontologia
L'autore
Eugenio Mazzarella è Professore Ordinario di Filosofia Teoretica presso l’Università “Federico II” di Napoli e Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia di questa Università. Insigne studioso di Heidegger e di Nietzsche, ha curato molte delle edizioni italiane delle opere heideggeriane. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: Tecnica e metafisica. Saggio su Heidegger (Guida, Napoli 1980), Nietzsche e la storia. Storicità e ontologia della vita (Guida, Napoli, 1983), Ermeneutica dell’effettività. Prospettive ontiche dell’ontologia heideggeriana (Guida, Napoli 20022), Heidegger oggi (il Mulino, Bologna 1998). È inoltre intervenuto nel dibattito tra filosofia e teologia (Filosofia e teologia di fronte a Cristo, Cronopio, Napoli 1996; Pensare e credere. Tre scritti cristiani, Morcelliana, Brescia 1999), e in quello sulla bioetica (Sacralità e vita. Quale etica per la bioetica?, Guida, Napoli 1996). Editorialista del quotidiano «Il Mattino», è autore anche di alcune raccolte di poesie (Il singolare tenace, I Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme 1993; Un mondo ordinato, Palomar, Bari 1999; Opera media, il melangolo, Genova 2004).
Links
Pagina personale di Eugenio Mazzarella: www.filosofia.unina.it/mazzarella/
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