Milano, Feltrinelli, 2005, pp. 190, € 10,00, ISBN 88-07-81839-6.
Recensione di Luca Paltrinieri - 17/06/05
Storia della filosofia (contemporanea); Filosofia teoretica (poststrutturalismo, ermeneutica), Filosofia politica.
Composto di cinque saggi già pubblicati ed un’introduzione inedita, il volume di Natoli ripercorre alcuni momenti cruciali del pensiero di Foucault testimoniando un’attenzione costante, e a tratti una vera e propria sintonia, nei confronti del filosofo francese. Oggi sembra infatti impossibile, afferma Natoli, occuparsi di alcuni temi centrali della tradizione filosofica, come verità, soggettività, cura di sé, sottraendosi ad un vero e proprio effetto di campo prodotto dal pensiero di Foucault. Tornare oggi sull’opera di un autore i cui temi sono divenuti così influenti per un gran parte delle discipline afferenti alle cosiddette “scienze umane” significa riportare alla luce l’impianto teorico che regge alcune delle più note tesi foucaultiane, dal “grande internamento” alla morte dell’uomo, dalla “microfisica del potere” alla storia della sessualità. L’interesse del contributo di Natoli consiste in buona misura nel tentativo di esplicitare il “nesso tra l’argomentazione e il tema, ossia tra la forma teorica e il contenuto trattato”. Forse proprio su questo piano è rintracciabile un’unità del pensiero foucaultiano che, pur con i numerosi scarti, ripensamenti e profonde rotture che lo caratterizzano, si può descrivere nei termini di un’epistemologiastorica. Una definizione, quest’ultima, che ha il pregio di sottolineare l’attenzione costante del filosofo francese alle regole di produzione della verità (secondo la lezione dell’epistemologia di Bachelard e Canguilhem, rivolta alle condizioni ‘esterne’ di formazione della verità scientifica) e alla caratterizzazione che ne dà in senso storico, prendendo cioè congedo dall’idea aristotelica della verità come adeaquatio intellectus et rei per rivolgersi agli effetti di verità prodotti da strategie mutevoli e situate. Emerge insomma quell’evidente postura nietzschiana per la quale da una parte i discorsi vengono ricondotti all’interesse profondo e mutevole che li abita, mentre dall’altra la loro verità si dà non nella comunicazione con un ordine immutabile preesistente, non “per mimesi di un logo eterno”, ma “perché producono nel loro farsi effetti di verità”. (p. 46). Ecco perché studiare l’“evento” della ragione moderna, compito che Foucault assume “in negativo” scrivendo una storia della follia, significa rivolgersi non solo ad un ordine che renderebbe possibile il discorso, ma anche a quelle unità discorsive che, esorcizzando il discorso ragionevole dal pericolo della follia ed istituendo la ragione-legalità come comunanza intersoggettiva di regole, si “danno e forniscono ragione”. Ma ciò significa, scrive Natoli, che “non esiste un punto di vista costituente che non sia anche costituito, che non sia cioè implicato nel processo stesso di costituzione del senso” (p. 11). Così, se la filosofia di Cartesio è al tempo stesso un sintomo e un momento di organizzazione del nuovo ordo rationalis che si sta affermando, anche la follia continua a parlare della ragione senza esprimersi nel suo linguaggio: essa dà espressione alla ragione poiché nel parlare di se stessa mostra la razionalizzazione che sta a fondamento della sua esclusione. Più che il rovescio logico o l’opposto della ragione, la follia rappresenta lo sfondo stesso dell’impresa razionale, la trama e il contrappunto necessario di una ragione che è equilibrio provvisorio tra molteplici istanze conflittuali.
Nietzschiana è anche la prospettiva per la quale il nesso tra forme di sapere e pratiche di potere è studiato a partire dal filo conduttore del corpo: in Foucault, scrive Natoli, “il potere, obbiettiva il corpo nelle forme del sapere, al fine di produrre e manipolare i corpi stessi.” La vita stessa insomma, lungi dall’identificarsi in un principio primordiale e anteriore ai fenomeni di potere è riportata a quel gioco vitale in cui si struttura la potenza che incanala energia nei corpi. Il corpo disciplinato obbedisce ancora ad un principio di reciprocità: è agito dal potere e ne costituisce una modalità di espressione, e nel contempo è spazio attivo che sviluppa potere in quanto parte essenziale di un sistema complessivo coincidente con il suo effettivo esercizio. Proprio in quanto complesso di regole e attività, la disciplina “è il canone fondamentale di trasformazione del potere in sapere e del sapere in potere” (p. 78). Inteso come campo di positività entro il quale le scienze possono apparire, il sapere non esiste senza una pratica discorsiva definita che traduce e produce una situazione di potere, si può anzi dire che il sapere è la sintassi nella quale il potere definisce e mette in opera le sue strategie. Rapporto che non è tuttavia da intendersi in senso univoco: il dominio del sapere inaugurato dalla filosofia moderna con la trasformazione del pensiero in rappresentazione “è da intendere come dominio sul sapere ma anche tramite il sapere”. Infatti, se da una parte il potere delimita il campo di osservazione e di formazione di un sapere scientifico, dall’altra quest’ultimo rende visibile la vera natura dei corpi e le loro possibilità latenti autorizzando così una vera e propria tecnica di assoggettamento che riveste la forma della norma. La relazione speculare tra corpo-sapere-potere diventa allora il prisma attraverso il quale occorre comprendere prima il grande internamento nel quale vengono a coincidere l’ordine del potere e la ragione moderna, e poi la regolazione dei corpi della società disciplinare. Ma, in senso inverso, la circolarità tra sapere e potere può diventare un punto di vista privilegiato per cogliere nel non detto di un’opera il reticolo delle pratiche e delle tattiche politiche che sta prima di chi scrive e si riflette nella scrittura: per Natoli, ad esempio, l’incremento della potenza umana che Bacone assegna al destino della scienza è il riflesso delle pratiche di potere già iscritte nel discorso scientifico della sua epoca.
Questo schema è poi messo a frutto anche laddove l’autore non affronta direttamente il pensiero di Foucault ed è quindi possibile misurare la profondità di quella sintonia cui si alludeva in apertura. Nella prima appendice, Soggettivazione e oggettività. Appunti per un’interpretazione dell’antropologia occidentale, Natoli traccia a grandi linee una genealogia della ragione occidentale a partire dalle modificazioni dell’antropologia che l’hanno resa possibile. L’autore mostra così che la trasformazione del pensiero in rappresentazione tipica della modernità consiste propriamente nella disarticolazione dell’immagine secondo la quale l’uomo è sintesi di corpo e pensiero. Da luogo delle idee il pensiero diviene orizzonte della presenza, da cosa pensante l’anima diventa principio d’ordine della rappresentazione mentre, secondo una linea che va da Cartesio a Kant, corpo e mondo vengono progressivamente inclusi in ciò che li rappresenta. Alla scorporazione dell’anima corrisponde un doppio processo: da una parte l’anima come visio intellectualis sottostà sempre più alle istanze del discorso razionale, l’ordo rationis che fa essere il mondo, dall’altra la sua partecipazione all’immutabile si trasforma in oggettivazione di tutto ciò che è mutevole, ovvero in scienza. Se il soggetto moderno è ormai dissolto nella polivalenza delle sue funzioni razionali, l’individuo stesso viene oggettivato in una rete di saperi secondo un processo che Natoli descrive come un’esteriorizzazione della soggettività.
Probabilmente gli esiti più originali della riflessione di Natoli sono però contenuti nel terzo saggio, Linguaggio e discorso. L’enunciato e l’archivio in Foucault e nella seconda appendice, Tracce e segni, laddove egli tenta di integrare l’archeologia foucaultiana, e più generalmente il metodo della storiografia critica, con una approccio ermeneutico. Natoli insiste in primo luogo sulla bidimensionalità del linguaggio: da una parte insieme organizzato di strutture di comunicazione, universo di discorsi, dall’altra evento comunicativo. Al momento orizzontale, formale del linguaggio, si coniuga sempre quello verticale e stratificato dei diversi strati linguistici, e dalla collusione tra questi due momenti, se non dal vero e proprio scontro, si genera continuamente innovazione. Ma nessuna novità è mai totale (nessun gioco è incomprensibile, nessun linguaggio è intraducibile), dal momento che il linguaggio si dispone in un orizzonte originario di comprensibilità ed ogni segno è quindi recuperabile al senso, in quanto ospitato nell’apertura originaria della comunicazione. Ora, per Foucault, il discorso è lo spazio storico-logico che ordina un campo di significazione e stabilisce così una catena di segni significanti: in questo contesto il significato non è inteso come una totalità che precede il segno e lo rende possibile, esso è radicalmente relativizzato e consegnato all’aleatorietà dei discorsi. Il senso, a sua volta, non è comprensibile in quanto traccia di altro, ma riconducibile di volta in volta alla sintassi, alle leggi rispettive che istituiscono i discorsi. Le formazioni discorsive sono insomma eventi pre-determinanti il campo discorsivo del parlante, sebbene le sequenze di enunciati che le costituiscono rimangano radicalmente storiche. Ma questa radicale storicizzazione dell’ordine discorsivo comporta un rovesciamento dell’idea stessa di mondo storico: il discorso non restituisce la totalità storica ma è piuttosto il margine in forza del quale si apre un campo di discorsività che rappresenta un ordine costituito. Emerge così quella discontinuità dello sviluppo storico che svela nuovi oggetti e definisce le regole di verità di un’epoca. Mettendo in luce le discontinuità discorsive da un punto di vista formale e storico, Foucault le riporta sempre indietro, nel mondo vitale dei rapporti di forza che le reggono. Ma, ed è qui che si innesta la critica di Natoli, la discontinuità, per essere riconosciuta, deve rimandare ad un campo relazionale che non è uno spazio logico fisso e atemporale, ma uno spazio logico-storico, apertura interpretante e luogo generativo di senso. Nulla si dà al di fuori di questo orizzonte epocale: la dimensione di ciò che è storico può essere intesa solo a partire dalla storicità primaria, che è l’evenienza del linguaggio. L’epoca fornisce i presupposti che consentono l’elaborazione e la variazione dei metodi, per questo “la grande storiografia si radica in una precomprensione filosofica”. La presa d’atto del discontinuo si trasforma allora nel problema di autocomprensione dell’epoca: la comprensione del proprio linguaggio può avvenire solo chiarendo la temporalità di quell’evento che è linguaggio. Il ricorso all’ermeneutica, quel “filo conduttore verso il senso dell’epoca” che porta alla luce le giacenze di senso inerenti al linguaggio come accadimento storico, rende allora possibile la comprensione della storia nell’effettualità dell’epoca. In questo senso l’archeologia e la genealogia non sono invalidate, ma piuttosto ricondotte a quel circolo ermeneutico per cui il linguaggio deve sempre nominarsi come evento, precomprendersi.
Se il tentativo di fondo di Natoli, quello di mostrare le premesse metodologiche della riflessione foucaultiana, è quanto mai urgente, esso ci appare viziato da un presupposto “continuista” che mal si adatta, a nostro avviso, ad un percorso policentrico e mutevole come quello di Foucault, contrassegnato da momenti di riflessione ed autocritica che hanno comportato cambiamenti rilevanti delle sue posizioni di fondo. Ci sembra insomma che Natoli sia condotto a sua volta a quelle totalizzazioni retrospettive nelle quali il filosofo francese incorre più volte quando rintraccia aspetti dell’analitica del potere o della storia della soggettività in fasi precedenti del suo lavoro. Ciò non toglie nulla al valore esegetico e alla proposta teorica del lavoro di Natoli, ma rischia spesso di fuorviare il lettore facendo balenare parallelismi e accostamenti troppo facili.
Indice
Introduzione
Foucault e la genealogia della ragione moderna
Sapere e dominio. Disciplina dei corpi e costituzione delle discipline in Foucault
Linguaggio e discorso. L’enunciato e l’archivio in Foucault
Appendice
Soggettivazione e oggettività. Appunti per un’interpretazione dell’antropologia occidentale.
Tracce e segni
L'autore
Salvatore Natoli è attualmente professore di Filosofia Teoretica presso l’Università Statale di Milano. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: Parole della filosofia o dell’arte di meditare (Milano, 2004), Stare al mondo. Escursioni nel tempo presente (Milano, 2002), La felicità di questa vita (Milano, 2000).
2 commenti:
L'esigenza che il recensore a fine recensione manifestava, manifesta, era, è, indubbia. Essa è seguita anche da giusta osservazione su quel che davvero appare di inservibile della pubblicazione recensita e da giustissima perplessità circa l'involversi della interpretazione di S. Natoli su medesimi paradigmi culturali e registri semantici utilizzati da Focault, cui la pubblicazione "La verità in gioco Scritti su Focault", oltre a tutto quanto di reale offre alla riflessione, risulta alquanto velleitaria. La prudenza aiuta il recensore ad evitare ulteriore involuzione, col limitarsi ad opportuno distacco, segnato dal dire ciò che comunque oggettivamente si presenta equivocabile, ciò che "sembra" — e non per arbitrio!... Ma, appunto, c'è anche altro e di reale pure.
(...)
MAURO PASTORE
(...)
Il distacco promosso dal recensore ha sua completa ragion d'essere soltanto per ciascuna singola parte della pubblicazione recensita, che consiste in una raccolta con evidente idea di fondo unitaria diversamente non differentemente esplicitata rispetto a quanto prima era nelle singolarità ancora 'sciolte': sciolte anche nel senso di: affatto relative, invece assieme e legate da altro essendone trasvalutate acquistando un significato assoluto ma pur sempre assolutamente relativo...
Per capirne bisogna porre tutta l'attenzione adeguata a stesso titolo di pubblicazione, che contiene riferimento a un "gioco" del quale i singoli elementi del gioco stesso sono strumenti non mezzi e nel quale si presenta una ragion filosofica in più, in minima sufficienza anche nella sola somma delle parti già latenza. Certamente, prima di esser sottoposte a tal altra funzione, esse davvero segnavano il passo al kantismo del soggetto meditato attraverso neohegelismo di fondo, peraltro assai valido episodicamente provvisoriamente, cui stesso realizzatore (Natoli cioè) dava però poi interruzione, lasciandone emergere dal linguaggio filosofico una latente possibilità non ulteriore ma... 'alteriore' e non necessariamente 'anteriore'...! E ciò rappresentò scopo nuovo poi costituì altro risultato e non per itinerario intellettuale incoerente dato che si trattò alfine di una indagine su limiti razionali infine conclusasi per termine di stessa razionalità impegnata non per smentita — quel che Jaspers definì alla stregua di "corto circùito" ma facendone notare la giustezza, insomma di necessaria 'corta ragione', che è stata detta più efficacemente "pensare breve" (esempio filosofico ne forniva M. Sgalambro), concettualmente distinta dal cosiddetto "circolo ermeneutico", che ne è concettualità internamente istituitane ma altro ancora.
Si può affermare che la confinazione cui stesso Hegel aveva affidato i suoi esiti accademici non solo lavori universitari e che per Salvatore Natoli erano stati punto di riferimento, prima culturalmente ovvio poi politicamente obbligato (da ex hegelismo marxista insediatosi in istituzioni universitarie italiane), era in tal caso già in dissoluzione, per insostenibilità delle barriere che ne mantenevano i confini, dato che non proprio ovunque in Italia antimarxismi e non-marxismi e le affini politiche culturali erano finite ai margini oscuri e non ovunque vi dovette esser la contestazione antimarxista a distrugger direttamente. Certo questo caso non fu determinante da solo, ma neppure fu ineffettivo.
Dunque bisogna far considerazione di "dopo Hegel" non di ex e post hegelismi, per comprendere quale fosse, sia, il gioco istituito dalla pubblicazione recensita; cui perplessità recensoria non ne è inclusa, nonostante prudenza del recensore ne abbia lasciato qualcosa per esso non in esso.
Ancora adesso che siamo in anno 2019 considerare entro culture accademiche ed universitarie italiane, europee ed occidentali, un "dopo Hegel", non è cosa da trascurare bensì da valutare per accogliere; altrimenti letali anacronismi prevarrebbero per tante irrinunciabili istituzioni culturali e per tanti non faziosi movimenti civili e culturali in Occidente, in Europa, in Italia anche.
MAURO PASTORE
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