sabato 23 luglio 2005

Severino, Emanuele, Fondamento della contraddizione.

Milano, Adelphi, 2005, pp. 483, € 45,00, ISBN 88-459-1957-9.

Recensione di Stefano Monetti - 23/07/2005

Filosofia teoretica (ontologia)

Con questo volume, il quinto, prosegue presso l’editore Adelphi la pubblicazione degli scritti del filosofo Emanuele Severino. Qui sono raccolti saggi appartenenti ad anni diversi, tra i quali La metafisica classica e Aristotele (1956), di fondamentale importanza nella gestazione del pensiero di Severino, in quanto contiene la prima formulazione della sua ontologia (due anni dopo Severino pubblicherà quello che forse è il suo libro fondamentale: La struttura originaria). Severino propone un modello teorico forte e originale, attraverso il quale interpreta la tradizione filosofica. Questo modello ha un rapporto strettissimo ed esplicito con quello di Heidegger, sia nell’impostazione di fondo che nello stile di pensiero e scrittura: per entrambi il pensiero occidentale è vittima di un oblio fondamentale, che si conclude necessariamente nel nichilismo moderno. Compito del filosofo rimane dunque quello di decostruire i concetti dell’ontologia tradizionale, lasciando emergere ciò che è stato passato sotto silenzio. Un’operazione che innerva anche questi testi di Severino.

Nello scritto Fondamento della contraddizione (composto nel 2003-2004), Severino considera la concezione aristotelica della contraddizione, per verificare se essa sfugge al nichilismo caratteristico del pensiero occidentale. Questo saggio è interessante anche perché, costruito intorno a una tesi essenziale, è compenetrato da riflessioni eterogenee. Ad esempio, riferendosi ad altri suoi saggi precedenti come L’essenza del nichilismo, l’autore tematizza un molteplice empirico, ovvero la compresenza degli enti in un’apparizione trascendentale. Un passo: “In quanto destino della necessità, la verità è l’apparire dell’esser sé dell’essente in quanto tale (ossia di ogni essente); e cioè l’apparire del suo non esser l’altro da sé, ossia dell’impossibilità del suo divenir l’altro da sé, ossia del suo essere eterno. L’apparire dell’essente è l’apparire della totalità degli enti che appaiono […] Le parti sono un molteplice. L’apparire di una parte è la relazione dell’apparire trascendentale a una parte di tale totalità […] Ciò significa che esiste una molteplicità di queste relazioni. In questo senso, molteplice non è solo il contenuto che appare, ma anche il suo apparire” (p. 78). Un punto che potrebbe sembrare “deleuziano”, e invece il molteplice di Severino è un molteplice dell’identità dell’essente, e non del divenire e del simulacro come quello di Deleuze. Non è possibile che un ente divenga “l’altro da sé”: questa impossibilità è il suo essere e la sua eternità. Su questo punto emerge il tratto apparentemente paradossale dell’ontologia di Severino: la compresenza di molteplicità e identità nell’idea intuitivamente disorientante dell’eternità di tutti gli enti, vale a dire di ogni essente. L’Occidente ha creduto nella nascita e morte delle cose, ha pensato che le cose venissero e finissero nel nulla, e perciò che fossero nulla: è questo il nichilismo. In realtà, se le cose sono come sono, e dunque obbediscono a una necessità, non possono originarsi da un nulla, non possono preesistere ed essere raggiunte da una legge di creazione che le disporrebbe a venire al mondo nel modo in cui sono. L’ente esprime l’eterno destino del suo essere, questo significa nel passo citato: “L’apparire del suo non esser l’altro da sé, ossia dell’impossibilità del suo divenir l’altro da sé, ossia del suo essere eterno”. Qui è evidente la reciproca implicazione tra identità ed eternità: ogni cosa che esiste è eterna. L’ontologia di Severino rielabora quella di Parmenide: il divenire non esiste, è un’illusione, ciò che è deve essere eterno, perché sennò il tempo trasformerebbe l’essere in nulla. Tuttavia, contrariamente a Heidegger, Severino non postula una differenza ontologica: l’essere non va distinto dall’essente, essenti e perciò eterni sono gli enti. Ciò comporta, come si può comprendere, una critica dell’ipotesi creazionista e quindi della teologia.

Presentare un filosofo riassumendo la sua tesi fondamentale è certamente riduttivo, soprattutto in questo caso. Proviamo ora ad affrontare una questione forse laterale ma comunque degna di attenzione. Il pensiero di Severino può lasciare l’impressione di un’eccessiva potenza argomentativa, di un automatismo deduttivo quasi violento nella sua efficacia. Al di là dell’effettiva capacità logica del filosofo, straordinaria, forse esiste una ragione teorica di questa impressione: l’estromissione del soggetto. Non sembra esserci spazio per il soggetto finito in un’ontologia che infinitizza ogni ente affermandone l’eternità. A questo proposito sembra esemplare il passo di un’intervista comparsa sul “Corriere della Sera” del 4 agosto 1981: “Intervistatore: «Teme la morte?» Severino: «No». Intervistatore: «Eppure non posso sottrarmi all’impressione che il suo pensiero, nell’affermare l'indistruttibilità degli enti, riveli una forte reazione difensiva nei confronti della morte» Severino: «Se così fosse, vorrebbe solo dire che nella costituzione psichica dell’individuo Severino rimangono tracce di nichilismo [...] L’individuo Severino, in quanto ancora abitato dalla volontà di potenza, può cedere a tutte le debolezze cui si abbandonano gli immortali. Ma l’io Severino autentico, che come tutti sta da sempre aperto alla verità, e perciò è qualcosa di infinitamente più grande di Dio, non può avere paura della morte.»”. La strategia argomentativa utilizzata da Severino per sottrarsi alla critica dell’intervistatore è quella individuata criticamente dalla genealogia di Nietzsche: il filosofo sparisce dietro le cose, si nasconde proclamando la necessità del suo pensiero. Secondo Nietzsche dietro ogni filosofia si nasconde la volontà di potenza del filosofo, dietro una teoria apparentemente obiettiva si cela l’intenzione di un soggetto, il desiderio di un uomo che produce la filosofia fingendo di riferire in modo neutro la verità dell’essere. Così Platone creò le idee, e poi sostenne che esistevano da sempre, invitando gli altri a contemplarle. Possiamo considerare questa strategia come una mossa retorica, un metodo che conferisce alla dottrina filosofica un’illusoria solidità oggettiva. Da una prospettiva opposta però possiamo rintracciare in questo procedimento l’essenza della vera filosofia, e qui Severino incontra di nuovo Deleuze: quest’ultimo scrive che “il filosofo è colui che crea i concetti, lo deve a una facoltà di gusto simile a un «sapere» istintivo quasi animale: un fiat o un fatum che dà a ogni filosofo il diritto di accedere a certi problemi” (Deleuze – Guattari, Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 1996, pp. 69-70). Allora la filosofia non sarebbe il prodotto di un desiderio, ma il destino del filosofo chiamato a pensarla: la moralità del suo compito.

Indice

Fondamento della contraddizione
Primi scritti su Aristotele
Per un rinnovamento nella interpretazione della filosofia fichtiana
Appendice. Moritz Schlick, «Sul fondamento della conoscenza»

L'autore

Emanuele Severino (Brescia, 1929), filosofo e storico della filosofia, è Professore Ordinario di Filosofia Teoretica all’Università di Venezia. Tra le sue numerose opere ricordiamo: La struttura originaria (1958, 1981), Studi di filosofia della prassi (1962, 1984), Essenza del nichilismo (1972, 1982), Legge e caso (1979), Destino della necessità (1980), tutte pubblicate da Adelphi.

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