venerdì 16 settembre 2005

Marassi, Massimo, Metamorfosi della storia. Momus e Alberti.

Milano, Mimesis (collana “Morfologie”), 2004, pp. 157, € 14,00, ISBN 88-8483-207-1.

Nota di Piero Venturelli – 16/09/2005

Filosofia teoretica (filosofia della storia), Storia della filosofia (Rinascimento)

Il Rinascimento nella storiografia tradizionale
A lungo la storiografia ha creduto di poter ravvisare nel Rinascimento, specie nella sua prima fase, una monolitica età di fede nella ragione, di coraggiose e talvolta fierissime aspettative dell’uomo nella propria capacità di conoscere il mondo e di conquistarlo. In anni recenti sono venute alla luce ricostruzioni assai più composite e chiaroscurali, ma è pur vero che la dimensione prevalente – e forse più suggestiva – di questa importantissima stagione storico-culturale rimane irrefutabilmente quella “titanica” e “volontaristica”. E, in effetti, uno dei grandi obiettivi dell’uomo del tempo consiste nello scoprire i principi razionali che governano il mondo, con la ferma intenzione di padroneggiarlo: ecco, allora, quel diffuso confidare nella piena autonomia della ragione, quello spiccato ottimismo operoso, quella fiducia pressoché incrollabile nell’onnipotenza plasmatrice dell’intelletto e quei proclami intorno alla supremazia della vita attiva e alla centralità dei valori civili.
Non sono pochi gli autori vissuti nel XV secolo a considerare la ragione l’unico strumento in grado di favorire il progressivo addomesticamento degli istinti selvaggi dell’uomo e, dunque, di arginare violenza, miseria, malcostume e aspirazioni tiranniche. Scopi prioritari – e tutti ritenuti alla portata delle costituzionali capacità umane – diventano così l’instaurazione della legalità e di forme di convivenza più coerenti e “razionali” entro abitati prosperi, funzionali, sicuri, ordinati e belli. Ciò giustifica il non occasionale ricorso a dettagliati disegni di “città ideali”, rispondenti a una precisa ratio mathematica, ove ideale non è affatto sinonimo di utopico o di velleitario: ai teorizzatori di città ideali preme innanzitutto fondare le proprie considerazioni sull’indagine approfondita dell’uomo e della natura, nonché sullo studio rigoroso della tradizione; sullo sfondo riposa la piena accettazione di quella dimensione temporale e di quelle potenzialità di riforma insite nell’uomo che saranno fermamente condannate in molti scritti utopici dell’Età Moderna. Di conseguenza, le città ideali risultano progettate da uomini per la vita concreta e storica di società umane, e si mira a costruirle gradualmente in un futuro possibile.
Il Rinascimento nella storiografia odierna e la figura di Leon Battista Alberti
Come si è dianzi accennato, in risposta alle interpretazioni vulgate del Rinascimento, troppo “lineari” e talvolta semplicistiche, soprattutto negli ultimi decenni la storiografia è pervenuta a una serie di decisi ripensamenti critici e ha mutato in profondità la fisionomia di alcuni grandi personaggi consegnata dalla tradizione, arrivando perfino a mettere in dubbio che svariati intelletti dell’epoca confidassero veramente nell’illimitata capacità umana di sapere e di fruire delle cose naturali. Ormai è giudizio acquisito che nel Quattrocento non siano sconosciuti tanto un vero e proprio nichilismo “moderno” quanto chiare persistenze medioevali; ma quello che più interessa – e sorprende – è che le opere del tempo documentano l’esistenza di impostazioni, valori e atteggiamenti diversi, anche del tutto opposti fra di loro, nella medesima figura di “uomo di lettere”.
È in particolare nell’animo di Leon Battista Alberti che questo travaglio risulta così lacerante ed estremo da lasciare sconcertati gli interpreti: mentre negli scritti più conosciuti fa sue e approfondisce tesi specificamente “umanistiche”, altrove non esita a deridere la presunzione antropocentrica dei mortali. In molte pagine delle Intercenales, del Theogenius e del Momus, l’autore viene a dubitare dell’onnipotenza della ragione umana, finendo sovente per reputarla nemica giurata dell’equilibrio e della bellezza naturali. È, quest’ultimo, un Alberti disincantato, talora sarcastico e furioso, o anche atro nichilista, che affianca, screzia e problematizza il suo versante più noto, quello “ottimistico”, caratterizzato dalla conversazione colta e distesa, dalla pedagogia “laica” e dalla “razionalissima” legislazione d’arte. “Personaggio davvero poliedrico, incontenibile, praticamente senza precedenti nella storia della cultura e delle idee”, interlocutore “sempre piacevole, pacato, serenamente solare, paterno, ricco di buon senso”, Alberti “introietta tuttavia a sorpresa, tutte le più cupe componenti d’inquietudine dell’uomo Moderno: ed eccolo notturno, malinconico, pessimista, scettico, ironico, quando non addirittura cinicamente corrosivo” (Dezzi Bardeschi 2000: 9).
L’Alberti “umbratile” e pessimista
Se – come si è visto – gli ultimi studi hanno consentito di mettere in maggior risalto l’ambivalenza del Rinascimento, l’indagine accurata del pensiero e degli scritti albertiani – diversi dei quali riscoperti solo di recente (cfr. Garin 1964) – ha provocato una revisione radicale delle interpretazioni critiche. Malgrado, per certi aspetti, il nostro autore si dimostri ben inserito nel contesto sociale e culturale del tempo, il giudizio sulla sua singolarissima opera è ormai unanime: “Solitaria ed eccezionale” (Martelli 1980: 119). In alcuni suoi testi è presente un tutt’altro che flebile senso dell’incipiente crisi dell’Umanesimo; più volte si deridono le concezioni antropocentriche della creatura: l’uomo, in realtà, sarebbe ben lungi dal rappresentare veramente la misura e il fine dell’universo, quindi non potrebbe in alcun modo ambire a essere l’autonomo artefice del proprio destino. Non di rado Alberti si compiace nel cogliere in fallo la ragione e nello sbugiardarne la baldanza, giungendo persino a ribaltare la canonica posizione umanistico-rinascimentale e accusando la facoltà razionale di costituire il principale elemento perturbatore dell’ordine naturale. Un pessimismo di frequente cosmico, quello albertiano, che non esita a censurare tutte le costruzioni filosofiche, tacciate di inconsistenza e sterilità, e a giudicare boriosi quanto grotteschi i discorsi dei sedicenti saggi.
Negli scritti meno “riposati” di Alberti, la disillusione talora fa capolino, tal altra trionfa, un senso smagato della vita lede l’ordito tipicamente umanistico che contraddistingue molte delle sue opere più conosciute. La creatura è dichiarata impotente dinanzi alla vanità delle cose; a volte si ritiene che l’esercizio della ragione faccia perdere di vista i limiti delle umane possibilità e costringa i mortali a un rapporto inautentico con la natura, le cose e i propri simili.
Sorprendente è, quindi, la molteplicità di Alberti: le tendenze “umbratili” del suo spirito caratterizzano una parte per nulla marginale della produzione letteraria, e di tanto in tanto arrivano al punto di confutare clamorosamente la fondatezza di qualunque progettualità morale e politica. Il ricorso alle caustiche armi dell’ironia e dell’umorismo consente all’autore di mettere alla berlina le sue stesse mire didascaliche, affatto evidenti altrove; all’apologia della vita attiva e delle arti egli giunge a contrapporre le attrattive e le delizie dell’esistenza ritirata o – addirittura – dell’accattonaggio (cfr., in particolare, Garin 1975).   
Umorismo e filosofia nel Momus
Il volume di Massimo Marassi focalizza lo sguardo sul Momus, testo allegorico che “tocca spesso corde profonde” (Garin 1961: 97) e che è senza dubbio l’opera più complessa, inquietante ed enigmatica che Alberti abbia scritto, se non già “una delle più strane opere narrative di tutti i tempi” (Grayson 1987: 461). La ricca e acuta indagine dello studioso comprova tutto ciò e ha inoltre il merito sia di sottoporre all’attenzione degli specialisti di Alberti temi e punti di vista finora trascurati sia di offrire contributi significativi allo studio della metafora e della filosofia della storia.
Nel Momus, scritto intorno al 1447, è possibile riscontrare in forma quintessenziale il versante “notturno” e nichilista di Alberti, che qui rovescia parodicamente l’etica stoica e sottopone ogni cosa al giogo del Fato (cfr. Bacchelli-D’Ascia 2003: in particolare xliv e lxxi): il cosmo è rappresentato come un autentico campo di battaglia dove incontrano la morte tutte le illusioni e vengono smascherati l’impotenza della ragione e il perpetuo disordine del reale; incompreso e vulnerabile, l’uomo assiste al tragico scorno delle proprie iniziative, abbandonato al suo funesto destino senza poter contare su credibili prospettive di riscatto, se non quella – dagli esiti, però, molto parziali – di dotarsi di mille personae, da indossare secondo le circostanze, e quella – estrema e paradossale – di far propria l’erraria disciplina.
A fronte delle varie concezioni che in quegli anni salutano nell’uomo il miracolo dell’universo e il libero creatore di sé stesso, nel formidabile theatrum mundi del Momus, al contrario, viene impietosamente esibita la costituzionale debolezza dell’individuo e l’inemendabile tragicità dell’esistenza. Risulta impossibile distinguere il cielo dalla terra; la tirannia del Fato e la volubilità della Fortuna precipitano l’intero universo nella più assoluta desolazione, costringendo l’individuo a mascherarsi per attenuare quell’angoscia e quella inadeguatezza a cui solo la morte è in grado di porre termine.
Autorevoli studi recenti (cfr. in primis Cardini 1993) mettono in rilievo come, nel Momus, Alberti ambisca a formulare, in chiave umoristica e disincantata, un giudizio complessivo sul suo tempo, e più in generale sulla vicenda umana nella storia. Elevatosi al di sopra della contingenza e con uno strumento formidabile a disposizione, il risus, egli sembra intenzionato a impegnarsi in una dolorosa ma salutare opera di smascheramento delle ipocrisie di cui si ammanterebbero gli uomini di tutti i tempi per accettarsi e farsi accettare dalla comunità di appartenenza. Alberti va sostituendo a ogni approccio confortante, improntato a vacuo e astratto idealismo, uno sguardo lucido che giammai anela ad avanzare rimedi decisivi da opporre alla tragicità dell’esistenza, ma che la osserva dal di dentro con disgusto e pena. Amaro eppure necessario, questo riso nella sofferenza è rivolto a denudare la realtà, nella più piena e “irresponsabile” libertà d’azione concessagli da Alberti. E le allegorie che egli sapientemente introduce, concernendo tout court la condizione dell’uomo, rivelano il notevole spessore filosofico di questo disorientante romanzo umoristico.
Sostanza e figura, realtà e apparenza
Mentre la prima parte dell’opera di Marassi è specificamente incentrata sui testi albertiani, la seconda raccoglie innumerevoli spunti emersi dalla lettura del Momus con l’obiettivo di prendere in esame le questioni della struttura metamorfica della realtà e della validità del sapere metaforico, e nella certezza che riflettere sulla storia non significhi attenersi “obbligatoriamente alle disposizioni di settori scientifici diversi, quando la posta in gioco non è più unicamente lo statuto di una disciplina, bensì la comprensione delle res gestae in cui si vive e opera. Alberti, con il suo ingegno multiforme, fu uno dei grandi testimoni di questa sofferta consapevolezza, spinta ai limiti dell’impossibile, eppure sempre credibile” (p. 11).
Interrogandosi sul ruolo che la figura esercita rispetto alla determinazione dell’idea di storia, Marassi ha modo di affrontare, nel corso della sua indagine, alcuni intricati nodi tematici e concettuali. Innanzitutto, ritiene che “la narrazione metaforica delle vicende di Momo rappresenti lo stratagemma retorico che consente ad Alberti di esprimere in una forma composta, letterariamente perfetta, una realtà che è invece oscura, pervasa dall’ombra del dolore e del male” (p. 27). In secondo luogo, è sua convinzione che in questo singolarissimo romanzo allegorico si aspiri a dire qualcosa di nuovo, resinauditae, a dispetto dell’esplicito accoglimento del motto terenziano nihil dictum quin prius dictum, fatto proprio da Alberti anche nello scritto giovanile De commodis litterarum atque incommodis.
Lo studioso sottolinea che il Momus “si regge su un’ontologia dell’apparire che diffonde i suoi effetti in tutti gli ambiti ed è riconoscibile come concezione fisica del mondo, come dottrina morale e politica” (p. 70). In questa opera, infatti, l’ironia del discorso riposa “sull’assottigliarsi della distanza tra la realtà delle gesta descritte e le apparenze via via assunte dai personaggi. La storia come favola di Momo si regge proprio nella sua pretesa di far coincidere totalmente la sua identità con ognuna delle metamorfosi rappresentate, sul presupposto che ogni volta la sostanza del personaggio e il racconto che ne viene redatto possano integralmente trapassare nella forma assunta in quel momento” (p. 86).
Quando è in gioco la rappresentazione della continuità del tempo che costituisce la storia, questa coincidenza fra realtà e apparenza risalta ancora di più, e implica l’intersezione fra di loro dei motivi ideali, degli approcci e dei valori qualificanti dei due corpora che compongono l’intera produzione albertiana: “Il continuo si rivela come reale nell’apparenza dell’istante”, perché “è solo nell’apparire, che quindi non esclude l’illusione, il simulacro e la finzione, che si manifesta ogni sostanza e derivatamente il principio d’identità che logicamente la vorrebbe fermare nel tempo. In contrasto con il comprensibile desiderio di ogni soggetto di poter durare immutabile nel tempo, di sottrarsi alla consumazione degli istanti, la figura – nella sproporzione rispetto all’infinito che la delimita – rammenta incessantemente la mutevolezza e la fugacità” (ibid.). Secondo l’Alberti del Momus, pertanto, si può attingere la sostanza unicamente grazie alla forma principe dell’impermanenza, in quanto non esiste un’identità invariabile nella realtà che l’uomo sia in grado esprimere con i caratteri propri dell’eternità; ogni sua rappresentazione è costretta a passare attraverso la figura, deve subire un’accidentale concrezione in immagine.
Nella favola allegorica, lo strapotere della Fortuna fa sì che il tempo muti di continuo e sia definibile come apparente manifestarsi della Necessità; in questo modo, la trama del racconto resta dominata dalla coscienza di non poter rappresentare l’ideale se non attraverso la figura e le sue mutevoli apparenze. Come rileva Marassi, proprio “perché abituato a pensare in termini nel complesso visivi, Alberti è convinto che l’apparenza esteriore dell’architettura e della pittura rappresenti non la realtà ma la natura teorica della cosa, cosicché risulta naturale accettare la distinzione tra le cose come devono essere e le cose come sono, tra la natura teorica e la realtà, tanto che questo modo di esprimersi diviene una forma mentis che ritiene assoluti i rapporti di proporzionalità trascritti dalla perspectiva, in cui l’apparire rappresenta il reale” (pp. 86-87).
Poesia, filosofia, storia
Nel Momus, i caratteri più specifici e “rari” rinvenibili nelle creature vengono a incarnare quasi segni del divino e l’uomo sembra in grado di dare espressione adeguata a queste singolarità soltanto “narrandole” attraverso la storia. In un mondo di cui l’esperienza testimonia l’ineliminabile instabilità, Alberti reputa necessario non disgiungere poesia, filosofia e storia; superando le distinzioni canoniche fissate dalla Poetica aristotelica, costruisce poeticamente la narrazione storica, “perché solo così può valere universalmente come la filosofia e servire a ben guidare la condotta e la ragione; per questo motivo gli eventi sono raccontati e resi comprensibili, esposti con grande equilibrio, fondendo gli aspetti letterari, filosofici e cognitivi, senza i quali la storia sarebbe risultata una semplice favola” (p. 93).
Ma, al medesimo tempo, Alberti testimonia un’ambivalenza nei confronti della storia: “La trama degli eventi narrati cancella infatti ogni traccia profetica, provvidenziale e finalistica tipica della christianitas antica e medievale e dall’altra evidenzia tuttavia l’importanza della narrazione nel salvaguardare la memoria degli accadimenti” (p. 76). Ed è nelle pagine più fantasiose e immaginarie del Momus che emerge l’insegnamento di uomini e dèi: “In quanto rappresentazioni ideali di passioni e temperamenti”, essi “fanno la ‘propria’ storia” e contribuiscono così a “eliminare ogni concezione eteronoma della storia e con questa anche l’influsso di un Dio provvidente, con le relative idee di finalità, svolgimento e razionalità” (p. 78).
In questa prospettiva, allora, qual è il ruolo della Fortuna? Essa si dimostra un fattore intrinseco del racconto: “Gli stessi eventi storici possono apparire leggibili tramite questa idea di Fortuna unicamente ritornando speculativamente sul loro accadere, interpretabili come piegati e informati dalla Fortuna solo in seconda battuta, ad opera esclusivamente della riflessione, e non direttamente riconducibili a una comune causa efficiente o finale del loro divenire” (ibid.). In tal modo, risultano superati sia l’insegnamento scolastico che l’idea tradizionale della storia come fonte di esperienza.
Accanto a tutto ciò, Marassi richiama l’attenzione sul fatto che Alberti non pare interessato a prendere partito né per il filone greco né per quello latino della narrazione storica, in quanto “non desidera individuare il rinvenimento degli universali nella filosofia o nella storia, non si propone il conseguimento di alcun fine morale” (pp. 92-93). Onde, nel Momus, la sapiente combinazione “a mosaico” di quei due quadri di riferimento generali sembra rendere possibile una conciliazione tra fedeltà agli antichi (imitatio) e sviluppo di cultura nuova (inventio).
Liberazione all’interno del tragico?
Su questo terreno, il libro di Marassi intende “verificare quanto i contrasti della violenta parodia del Momus siano la testimonianza di un singolare modo di fare ‘esperienza della storia’ che riprende i concetti cardine di ogni narrazione storica: dalla contrapposizione epocale virtù-fortuna alla nozione di tempo, dall’armonia come ideale all’occasione che domina ogni esperienza degli eventi, dal desiderio umano di far persistere le proprie tracce all’odissea dello spirito tra le tortuosità della memoria e dell’oblio” (pp. 26-27). Dunque, se nel romanzo allegorico gli eventi sono sempre uniti a simboli e il racconto prende la forma di un “geroglifico di segni destinati a un’interpretazione infinita”, la “filosofia della storia che ne deriva si rivela solo come questa inesauribile e faticosa arte combinatoria di un alfabeto interminabile giocato su una scacchiera progettata da altri, l’unica però che l’uomo possa esercitare con i materiali e i frammenti di cui dispone” (p. 96).
Esaminate la configurazione del racconto e le rocambolesche disavventure occorse al dio del biasimo, lo studioso ritiene di dover attribuire importanza nodale al contenuto delle tabellae, il “testamento” di Momo letto da Giove alla fine del romanzo, giacché sembrano rivolte a descrivere la struttura del divenire del nuovo mondo, illuminando il genere umano sulla via capace di condurre alla liberazione all’interno del tragico. A parere di Marassi, la duplicità del percorso di Momo mette in risalto “la necessaria esperienza di liberazione a cui affida se stesso e con il suo testamento l’intera umanità. Un’impossibile liberazione dalla tragedia e al suo posto una liberazione che deve compiersi all’interno del tragico: questi contrasti non componibili sono il segno di una radicale tragicità” (p. 66). Sennonché, proprio mentre progetta un mondo nuovo, Momo rimane paradossalmente imprigionato in quello vecchio: con la sua disgrazia finale, egli viene a esemplificare la tendenza di tutte le cose all’annientamento. A un tempo autore e vittima di un destino eterno, secondo Marassi come già per altri interpreti (cfr. Boschetto 1993: 46-50 e Martelli 1998: 107-109), l’eccentrica divinità minore sembra per certi aspetti assumere le sembianze di Prometeo e di Cristo, anch’esse figure redentrici e condannate. E non è da tacere la dimostrazione di fierezza offerta da Momo: nonostante il dominio indiscusso e universale del Fato, la radicalità del male e l’assenza di autentici misteri da svelare, continua coraggiosamente a vivere e patire, non disdegnando di apprendere grazie all’esperienza e accettando che le proprie intenzioni siano messe via via alla “prova”.

Indice

Introduzione
MOMO O DELL’ESPERIENZA DELLA STORIA
L’armonia della costruzione e le arguzie del racconto
L’eredità della dottrina politica sulla virtù e sulla fortuna
La condotta dei singoli e l’identità di Momo
La storia e il teatro della vita
L’esperienza della storia
METAMORFOSI E METAFORA
Il frammento e l’intero
La metaforica storica
La verità metaforica
L’essenza del nichilismo e il primato del linguaggio
“Achille è un leone”: convinzione, sapere o fondazione?
La metafora assoluta
La storia e la sua narrazione
Indice dei nomi

Bibliografia

BACCHELLI-D’ASCIA 2003: F. Bacchelli, L. D’Ascia, “‘Delusione’ e ‘invenzione’ nelle ‘Intercenali’ di Leon Battista Alberti”, intr. a L.B. Alberti, Intercenales, Bologna 2003, pp. XXIII-XCIX.
BOSCHETTO 1993: L. Boschetto, “Ricerche sul Theogenius e sul Momus di Leon Battista Alberti”, «Rinascimento», vol. 33, 1993, pp. 3-52.
CARDINI 1993: R. Cardini, “Alberti o della nascita dell’umorismo moderno. I”, «Schede umanistiche», n.s., 1993, n. 1, pp. 31-85.
DEZZI BARDESCHI 2000: M. Dezzi Bardeschi, “Le belle maschere di Battista”, La fatica del costruire. Tempo e materia nel pensiero di Leon Battista Alberti, Milano 2000, pp. 9-10.
GARIN 1961: E. Garin, “Interpretazioni del Rinascimento”, in Medioevo e Rinascimento. Studi e ricerche, Bari 1961², pp. 93-98.
GARIN 1964: E. Garin, “Venticinque intercenali inedite e sconosciute di Leon Battista Alberti”, «Belfagor», 1964, n. 4, pp. 377-389.
GARIN 1975: E. Garin, “Studi su Leon Battista Alberti”, in Rinascite e rivoluzioni. Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo, Roma-Bari 1975, pp. 133-196.
GRAYSON 1987: C. Grayson, Recensione a L.B. Alberti, Momo o del principe, Genova 1986, «Giornale critico della letteratura italiana», 1987, fasc. 527, pp. 459-463.
MARTELLI 1980: M. Martelli, “I Medici e le Lettere”, in C. Vasoli (a cura di), Idee, istituzioni, scienza ed arti nella Firenze dei Medici, Firenze 1980, pp. 113-140.
MARTELLI 1998: M. Martelli, “Minima in Momo libello adnotanda”, «Albertiana», vol. 1, 1998, pp. 105-119 (la seconda parte dell’art. è nel vol. 2, 1999, pp. 21-36).

L'autore

Massimo Marassi insegna Filosofia della storia presso l’Università Cattolica di Milano. Autore di diversi saggi e articoli, ha scritto Ermeneutica della differenza. Saggio su Heidegger (Milano 1990) ed Ermeneutica (Milano 1994). Ha curato e tradotto J.B. Lotz, Esperienza trascendentale (Milano 1993) e F.D.E. Schleiermacher, Ermeneutica (Milano 1996). Sua è la curatela di due libri di E. Grassi: Viaggio ed errare e Retorica come filosofia (entrambi Napoli 1999).

Links

Vita di Alberti e cenni sulle opere (in italiano): http://www.cronologia.it/storia/tabello/corr10.htm
Videofruizione di alcuni testi albertiani (in italiano): http://www.liberliber.it/biblioteca/a/alberti#alto
Bibliografia recente su Alberti, notizie su pubblicazioni e convegni a lui dedicati, indirizzi elettronici di studiosi albertiani, links tematici (in francese): http://ourworld.compuserve.com/homepages/mpaoli
Pagine della “Fondazione Centro Studi Leon Battista Alberti”, con sede a Mantova (in italiano): http://www.fondazioneleonbattistaalberti.it/

mercoledì 14 settembre 2005

Gobry, Ivan, Vocabolario greco della filosofia.

Trad. it. di Tiziana Villani, Milano, Bruno Mondadori, 2004, pp. 243, € 16,00, ISBN 88-424-9181-0.
[Ed. or.: Le vocabulaire grec de la philosophie, Ellipses, Paris 2000.]

Recensione di Massimo Pulpito – 14/09/2005

Storia della filosofia (antica), Strumenti

La filosofia è sorta nel momento in cui gli antichi “sapienti”, che si interrogavano sulla natura del cosmo e sulle leggi del pensiero, hanno cominciato a convertire e allargare il significato di termini di uso comune. Il termine greco hyle, ad esempio, utilizzato dai filosofi per indicare la “materia”, in origine designava il legno, gli alberi, la foresta, la legna da ardere. Esso dunque si prestava a indicare il carattere indifferenziato del sostrato materiale delle cose. Physis, la “natura”, è il prodotto della concettualizzazione del più comune phyomai, “nasco” (concetto presente anche nel corrispondente termine latino). Per non parlare dell’idea platonica, dall’originario significato visivo, esteso poi alle forme eidetiche, appunto come oggetto di “visione” intellettuale. Col tempo si venne a creare, così, un lessico tecnico della filosofia, divenuto sempre più standardizzato con il crescere delle discussioni tra le diverse scuole, tanto che oggi sarebbe inimmaginabile accostarsi alla filosofia greca senza prestare attenzione a questo notevole edificio terminologico. Un edificio che sarebbe stato consegnato con leggere modifiche alla filosofia medioevale e cristiana e da questa a quella moderna.

L’intento meritorio del testo di Ivan Gobry, curato nell’edizione italiana da Tiziana Villani, è quello di utilizzare questo lessico come chiave di lettura del pensiero antico. Servirsi insomma delle parole dei filosofi, organizzate non per ordine tematico, ma in quello rigorosamente alfabetico, per descrivere la filosofia greca. Un’operazione di un certo interesse per gli specialisti, e senza dubbio utile anche (e forse soprattutto) per i semplici appassionati.

Tra i trecentosettanta termini, nel vocabolario troviamo naturalmente quelli immancabili come apeiron, arche, atomos, dialektike, dynamis, doxa, eidos, hypostasis, kategoria, logos, nous, ousia, stoicheia, symbebekos. Vi sono tuttavia anche alcune assenze di rilievo (si pensi, ad esempio, a exaiphnes, apokatastasis e hyparchein).

Sebbene, come si è detto, il testo compia un’operazione utile sia agli specialisti che ai cultori della materia, il taglio sembra però prediligere questi ultimi. Ne è traccia l’ordine alfabetico, che non fa riferimento alle lettere iniziali dei vocaboli in carattere greco (che pure sono riportati) ma alle iniziali delle parole traslitterate, presentate come voci del lessico. Ne derivano così esiti infelici come physis prima di pistis oppure chronos prima di daimon, per non parlare degli stravolgimenti dovuti alla conversione dello spirito aspro in h-. Ciò è aggravato, poi, da alcune distrazioni nella traslitterazione e da occasionali refusi.

Il vero problema del testo è però rappresentato da quella che si potrebbe chiamare “deriva dossografica”. Per ragioni di sintesi (e anche questo può essere addebitato al taglio non specialistico), la descrizione dei vocaboli tende a ridursi spesso in un elenco di citazioni, a volte sconnesso, senza un evidente ordine logico o quantomeno cronologico, a scapito di una presentazione più discorsiva, al contrario di ciò che avviene generalmente nei lessici filosofici.

Oltre a ciò, la necessità di sintetizzare e riportare i contenuti essenziali delle dottrine dei filosofi menzionati, comporta in alcuni casi vere e proprie forzature ermeneutiche, o si espone al rischio di banalizzarne il pensiero (un caso fra tutti: la distinzione tra essere e non-essere di Parmenide ricondotta senza ragione a quella tra verità e opinione, quando, com’è noto, quella distinzione rientra nell’ambito del discorso sulla verità, mentre all’opinione attiene la confusione tra essere e non-essere). Questo può forse prestarsi a un uso più leggero della storia della filosofia, adatto a coloro che sono mossi da interessi teoretici e ricercano nel passato il suggello erudito alle proprie idee (è una pratica diffusa nella filosofia continentale – e non solo – del Novecento). Ma segna una distanza incolmabile dal lavoro degli storici che invece si sforzano di rendere più articolate e fedeli le visioni dei filosofi antichi, opponendosi a facili etichettature manualistiche, oltre che alle insidie dell’anacronismo.

L'autore

Ivan Gobry è professore emerito all’Università di Reims. È autore di importanti opere sulla filosofia tardo-antica e medioevale.

Links

Quaderno di Filosofia antica dell’Università di Milano: http://users.unimi.it/~antica/homepage.htm

lunedì 12 settembre 2005

Filosofia della comunicazione, a cura di Claudia Bianchi e Nicla Vassallo.

Roma-Bari, Laterza (Manuali), 2005, pp. xiv+177, ISBN - 88-420-7650-3.

Recensione di Nicola Balata – 12/09/2005

Filosofia della comunicazione

1. La domanda e le sue articolazioni.

L’intenzione fondamentale di questo volume collettaneo dedicato alla “filosofia della comunicazione” è quella – per usare le parole delle sue curatrici – di “capire se il termine ‘comunicazione’ ha un senso o più sensi, e se sì perché”; in altre parole, “di comprendere che cosa deve essere la comunicazione per essere realmente tale, così come di comprendere perché comunichiamo e perché dobbiamo, se dobbiamo, comunicare” (p. xii).

Quelli che vengono indagati sono gli strumenti “essenziali” di cui si serve la filosofia per pensare il fenomeno della comunicazione, inteso “nella sua manifestazione prevalentemente linguistica in quanto l’unica propria solo agli esseri umani” (ibid.). A tal fine, è proprio alle scienze del linguaggio che si rivolge l’attenzione della filosofia, e più precisamente, a discipline come la sintassi, la semantica, la pragmatica, la semiotica, l’ermeneutica e la retorica, o ancora all’epistemologia (p. xiii).

Quella affrontata in questo testo è una questione di natura eminentemente filosofica, che tuttavia riceve – a scanso di ogni equivoco – una riformulazione molto ben definita, e perfino “tecnica”, qual è quella di una nuda ma rigorosa “analisi concettuale” del termine nelle sue diverse sfaccettature ed implicazioni (p. xii).

A essere indagata è così anzitutto la “forma della comunicazione”, ovvero l’insieme delle “regole sintattiche” che, per sé prese, sono “in certa misura indipendenti dall’informazione lessicale”, ovvero dalla conoscenza dei significati delle parole” (p. 3). Vi si dedica Andrea Moro nel saggio di apertura, nel quale viene illustrata e discussa, con riferimento ai risultati della ricerca nel campo delle neuroscienze, la premessa della concezione chomskyana del linguaggio, secondo la quale “il linguaggio umano, e in particolare la sintassi, non [è] un fenomeno di natura convenzionale ma [ha] una guida biologicamente determinata” (p. 9).

Si rivolge poi l’attenzione alla comunicazione dal punto di vista del significato che essa veicola, sulla base dell’“assunto che vi sia un legame strettissimo fra linguaggio, pensiero e comunicazione, da un lato, e conoscenza e comprensione, dall’altro” (p. 18), come si legge all’inizio del saggio di Eva Picardi sulla semantica.

Si analizzano quindi i “meccanismi”, le “strategie”, i “complessi sistemi di aspettative”, che non solo “rendono possibile la comunicazione” (p. 43), ma mostrano anche come essa, contrariamente a quanto vuole una concezione consolidata, sia caratterizzata da una “pluralità di dimensioni”, e obbligano il filosofo a fare i conti “con la psicologia, le scienze cognitive e i modelli di rappresentazione e di elaborazione dell’informazione” (p. 44): ne discute Claudia Bianchi nel saggio dedicato alla pragmatica.

A chiarire il significato della comunicazione come forma particolare di “relazione sociale”, capace di “significazione” o di “senso”, si dedica Ugo Volli nel saggio dedicato alla semiotica, “disciplina dei segni” che ha alle sue spalle ormai una “lunga tradizione.” (pp. 68-69).

Sulle ragioni per le quali ogni “gesto comunicativo” sia nel contempo sempre una “richiesta” di senso, e rechi ogni volta con sé una domanda particolare di “interpretazione”, si ferma Maurizio Ferraris nelle pagine dedicate all’ermeneutica, che si chiudono peraltro con uno “smascheramento” della celebre affermazione di Nietzsche, circa l’impossibilità di affermare l’esistenza dei “fatti”, oltre la totalità delle interpretazioni (pp. 109-110).

Frans H. van Eemeren e Peter Houtlosser affrontano, nei termini propri della riflessione contemporanea, la questione antichissima di cosa renda possibile un’argomentazione  “persuasiva”, cercando peraltro di mostrare come “una riflessione matura sull’argomento non può fare a meno di un approccio dialettico e della filosofia critica che lo sottende” (p. 111).

Una serrata riflessione sulle condizioni che fanno sì che la comunicazione venga considerata come “una fonte privilegiata” di conoscenza (p. 135), è infine quella che viene svolta nel saggio di Nicla Vassallo sull’epistemologia, con il quale si chiude il volume.

2. L’etica presupposta.

Questa pluralità di voci e di piani di analisi costituisce senza dubbio la ricchezza e anche la complessità del testo. Va detto che si tratta di un libro straordinariamente denso di implicazioni e rimandi, che investono ambiti disciplinari talora anche molto lontani da quelli presentati o esplicitamente citati. È un libro in questo senso “difficile”, che spesso, per necessità, procede per definizioni e formulazioni categoriche (ma che in effetti non giovano a restituire alla filosofia la sua immagine di sapere “povero”, “che non sa”, che procede per interrogazioni, e sempre con tensione dialogica e critica) e che anche per questa ragione va letto con attenzione.

Al lettore – soprattutto quello inesperto di cose filosofiche – si consiglia quindi una lettura meditata, guidata finché possibile da uno sforzo personale di “riformulazione concreta”, capace di attingere proprio a quegli ambiti disciplinari – l’antropologia, la sociologia, l’economia, la psicanalisi, insomma le scienze umane e la storia, in tutta la loro concretezza e pluralità e ricchezza di analisi – che, con scelta consapevole, sono stati fin dall’inizio spinti ai margini del discorso svolto in queste pagine.

Il lettore è invitato a non incorrere nell’errore in cui  pure non di rado si incorre, soprattutto quando ci si imbatte in testi di sintesi com’è il presente, che consiste nello scambiare l’insieme degli “strumenti”, degli “attrezzi” concettuali e metodologici di cui una disciplina si serve, con il suo stesso concreto operare: essendo evidente infatti che questo e quelli non sono la stessa cosa.

Credo sia qui il rischio insidioso che si nasconde fra le pagine di questo “manuale”. E credo che esso sia una diretta conseguenza di quella sorta di “manchevolezza” o “parzialità”, per altro “voluta”, che caratterizza l’impianto generale del testo, e verso la quale le curatrici molto opportunamente richiamano l’attenzione del lettore fin dalla prefazione al testo; dove si legge: “Le discipline che crediamo essenziali per comprendere che cos’è la comunicazione sono sintassi, semantica, pragmatica, semiotica, ermeneutica ed epistemologia. Quale disciplina manca? Salta subito all’occhio: manca l’etica e manca volutamente, non perché l’etica della comunicazione non sia necessaria, ma perché è nostra convinzione che [queste discipline] siano capaci di mostrarci, anzitutto singolarmente e poi anche nel loro complesso, che cosa deve essere la comunicazione e, quindi, anche che cos’è la buona (o la cattiva) comunicazione” (p. xiii).

Si tratta di una osservazione pertinente, ed utile soprattutto ricordare come la natura delle domande filosofiche – così come è il nostro caso qui – investa sempre il piano dell’etica, investa cioè e ponga in questione la dimensione essenziale di quel soggetto che chiamiamo “uomo”, nel suo essere un soggetto libero (ed è solo per un soggetto libero, si potrebbe ripetere kantianamente, che ha senso interrogarsi dal punto di vista dell’etica).

Resta la perplessità circa la scelta di limitare il campo di osservazione essenziale del filosofo all’ambito esclusivo delle “scienze del linguaggio”, e per conseguenza di affidare per intero al lettore il compito più gravoso, cioè riformulare per proprio conto la domanda sulla natura della comunicazione “nel suo complesso”, e cioè da un punto di vista “etico” – ma perché allora non anche “politico”, e “storico”, nella accezione più filosofica che vorremo riconoscere a questi termini?

Fra i temi che, da questo punto di vista, avrebbero certo meritato una maggiore attenzione, il tema delle tecniche (a cui si fa un rapidissimo cenno nella prefazione), occupa un posto privilegiato.

3. Il contributo delle neuroscienze.

Un’ultima considerazione riguarda il saggio di Andrea Moro, in particolare l’interessante trattazione che l’autore dedica ai risultati della ricerca nel campo delle neuroscienze, sottolineando l’importanza che questi risultati hanno dal punto di vista dell’assunto fondamentale della teoria del linguaggio di Chomsky, e cioè “di quella prospettiva di indagine che a partire dalla metà del secolo scorso ha cambiato radicalmente la nostra concezione del linguaggio” (p. 3). La conseguenza principale di questo richiamo ai dati della ricerca empirica è quella di poter mostrare appunto la plausibilità dell’ipotesi circa la natura “non convenzionale” del linguaggio umano: “Per chi si occupa di comunicazione, questo dato di fatto diventa decisivo: è come se l’architettura delle lingue naturali avesse dei limiti massimi entro i quali potersi muovere” (p. 10). Appare pertanto “ragionevole assumere la posizione che appare oggi più aderente ai dati empirici: qualunque sia la funzione che ha il linguaggio, qualunque sia l’esperienza che sta alla base dell’apprendimento del linguaggio da parte di un bambino, qualunque sia la storia evolutiva di questo tratto della natura umana, esistono limiti biologicamente determinati entro i quali la struttura deve e può svilupparsi” (p. 15).

Questa ipotesi e l’argomentazione che la sorregge sono affascinanti, tanto più se si pensa alla possibilità di integrarle con un’ipotesi in certa misura complementare, qual è quella avanzata e discussa, con il contributo di studiosi di diversa formazione (ricordo fra tutti l’interessante saggio di Jean-Pierre Changeux, autore di fondamentali testi di sintesi nel campo delle scienze neurologiche, fra cui il ben noto L’uomo neuronale, edito in Italia da Feltrinelli), nell’interessante volume, curato ormai quasi una ventina d’anni da Derrick De Kerchkove, The Alphabet and the Brain. The lateralization of writing. Secondo l’ipotesi di De Kerchkove, si dovrebbe poter dimostrare che l’interazione con l’ambiente e con le diverse forme di educazione e pratiche pedagogiche, e in particolare con le diverse “tecniche” che queste pratiche privilegiano (si pensi al lento e capillare processo di alfabetizzazione, cui il bambino è sottomesso per un periodo lunghissimo, che si protrae per tutta l’infanzia e la giovinezza), gioca un ruolo determinante nella “formazione” dell’architettura neuronale di ciascun individuo. Detto in altri termini, esse porterebbero con sé forme mentali, strutture e modi di pensiero e di percezione della realtà, fra loro sostanzialmente differenti.

Indice

Prefazione, di Claudia Bianchi e Nicla Vassallo
Combinare espressioni: sintassi, di Andrea Moro
Afferrare pensieri: semantica, di Eva Picardi
Capire e farsi capire: pragmatica, di Claudia Bianchi
Analizzare testi: semiotica, di Ugo Volli
Interpretare discorsi: ermeneutica, di Maurizio Ferraris
Persuadere: retorica, di Frans H. van Eemeren e Peter Houtlosser
Conoscere attraverso parole: epistemologia, di Nicla Vassallo
Bibliografia
Gli autori
Indice dei nomi

Bibliografia

AA.VV., “The Alphabet and the Brain. The lateralization of writing”, a cura di Derrick de Kerckhove, Berlino, Springer Verlag, 1988, XVI, 455 p.
Jean-Pierre Changeux, “L’uomo neuronale”, Milano, Feltrinelli, 1983, 364 p.
Carlo Sini, “Etica della scrittura”, Milano, Il Saggiatore [La cultura], 1992, 227 p.
Raffaele Simone, “La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo”, GLF Editori Laterza, [Economica Laterza], 2003, [Seconda edizione], XVI, 152 p.

Gli autori

Claudia Bianchi, insegna Epistemologia e Teorie della comunicazione presso la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano.

Frans H. Eemeren, insegna Analisi del discorso, Teoria dell’argomentazione e Retorica all’Università di Amsterdam.

Maurizio Ferrarsi, insegna Filosofia teoretica nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino.

Peter Houtlousser, è Lecturer al Dipartimento di Analisi del discorso, Teoria dell’argomentazione e Retorica all’Università di Amsterdam.

Andrea Moro, insegna Linguistica generale all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano.

Eva Picardi, insegna Filosofia del Linguaggio presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Bologna.

Nicla Vassallo, insegna Epistemologia presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano.

Ugo Volli, insegna Semiotica del Testo all’Università di Torino

Costa, Pietro, Cittadinanza.

Roma-Bari, Laterza (Biblioteca Universale), 2005, pp. 162, € 10,00, ISBN 88-420-7587-6.

Recensione di Giovanni Damele – 12/09/2005

Filosofia del diritto

Come testimonia la radice etimologica del termine (civitas), la cittadinanza affonda le proprie radici nell’appartenenza a una città, la polis greca e la Roma repubblicana, intesa come istituzione pubblica fondamentale. Per quanto il concetto di cittadinanza del mondo antico sia distante non solo da quello medievale, imperniato sulla solidarietà delle corporazioni, ma anche da quello moderno formatosi con la rivoluzione francese, esso ha avuto grande influenza nell’ambito della cultura politica occidentale. In particolare, sono state fondamentali la concezione del “cittadino” come colui che partecipa “alle funzioni di giudice e alle cariche”, secondo la definizione data da Aristotele nel libro terzo della Politica, destinata ad avere una forte influenza su tutta la cultura politica occidentale, e l’idea, propria della cittadinanza romana, che allo status di cittadinanza fossero inerenti dei diritti. Nel diritto romano, infatti, la cittadinanza si caratterizzava anzitutto come una forma di tutela giuridica, della quale lo straniero (peregrinus) era del tutto privo, che assicurava, di fronte ai magistrati e ai funzionari, il riconoscimento di una serie di diritti e di garanzie. Uno status, di tradizione repubblicana ma ereditato dall’impero, testimoniato dai celebri passi degli Atti degli Apostoli nei quali Paolo di Tarso rivendica di fronte al magistrato la propria dignità di “civis romanus”.

È comunque con la Rivoluzione francese che “nasce” la cittadinanza moderna, nel senso in cui la intendiamo ancora oggi, ridefinita alla luce di altri concetti come quelli di Stato, libertà, diritti, eguaglianza e nazione. La parola stessa cittadino (citoyen) divenne il simbolo dell’eguaglianza di tutti di fronte alla legge. Il nuovo rapporto di cittadinanza che si creò non era più, come in epoca medievale, quello tra il cittadino e la città, ma quello tra il cittadino e lo Stato nazionale, completando una traiettoria che aveva avuto inizio con l’affermazione dell’assolutismo. Jean Bodin aveva infatti già ricondotto, nei Six livres de la république (1576), la cittadinanza al rapporto di sudditanza diretta nei confronti del sovrano, pur senza abolire del tutto il ruolo delle “appartenenze” alle piccole patrie cittadine. La “nazione”, composta dall’insieme dei sudditi sottoposti al monarca, con la rivoluzione si trasformò così nel corpo sovrano formato dai cittadini, delineato da Emmanuel-Joseph Sieyès nel suo pamphlet rivoluzionario Che cos’è il Terzo Stato?, nel quale ai “privilegiati” che, pretendendo di sottrarsi all’eguale sottomissione alla legge, costituivano un “corpo estraneo”, era contrapposta la “nazione”, identificata con il Terzo stato. Il Terzo stato è tutto, diceva Sieyès, perché “comprende in sé tutto quel che occorre per formare una nazione completa”, per questo, agli Stati generali, sono contrapposti “venti milioni di cittadini” contro “duecentomila individui” privilegiati. I “cittadini” erano, perciò, sia il soggetto collettivo che muoveva il processo rivoluzionario sia l’oggetto della “dichiarazione dei diritti” che di quel processo era l’evento centrale.

Già nella sezione seconda della costituzione del 1791, dedicata alle “assemblee primarie” e alla “nomina degli elettori” dell’ “Assemblea nazionale legislativa”, sorgeva tuttavia una delle questioni centrali della cittadinanza: la questione del censo. Contro le esclusioni in base al censo e allo “stato di domesticità, cioè di lavoratore salariato” dallo status di “cittadino attivo”, Robespierre pronunciò il celebre discorso del 20 aprile 1791, passato alla storia come il discorso del decreto “sul marco d’argento”, riprendendo la concezione rousseauiana della volontà generale per affermare il diritto di piena cittadinanza di tutti gli uomini “nati e domiciliati” in Francia. Già nel giugno 1790, del resto, Marat aveva redatto e pubblicato su «L'ami du peuple», una supplica in nome di “18 milioni di sfortunati”, nella quale alla contrapposizione tra poveri, esclusi dalla cittadinanza attiva, e ricchi si sovrapponeva la contrapposizione fra il popolo e un governo considerato troppo moderato, fra gli “amici” e i “nemici” della Rivoluzione.

D’altra parte, la Rivoluzione non riuscì a dare adeguata risposta neanche al problema dell’estensione dei diritti di cittadinanza alle donne, benché le prime voci favorevoli ad essa si levassero dalle file rivoluzionarie. A Parigi, Olympe de Gouges, collegando, come in seguito faranno anche le suffragiste americane, le rivendicazioni per l’emancipazione giuridica femminile a quelle per l’emancipazione dei neri (condotte da circoli rivoluzionari come la “Société des amis des noirs”), presentò alla Convenzione una Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, contenente la richiesta di estendere alle cittadine il diritto di voto. Negli stessi decenni in Inghilterra, Mary Wollstonecraft pubblicò la Rivendicazione dei diritti della donna, nella quale prendeva posizione a favore dell’equiparazione giuridica tra i due sessi e contro i modelli educativi in epoca illuminista, che riservavano ai soli maschi l’educazione “razionale”, relegando le donne in una condizione di dipendenza non solo giuridica. Com'è noto, queste voci rimasero sostanzialmente inascoltate, tanto che le donne non raggiunsero una reale parità giuridica, rimanendo in una situazione di sostanziale dipendenza in seguito legittimata dal codice civile napoleonico, che sancì l’incapacità politica delle donne. Nonostante non siano mancate già nei primi decenni dell’Ottocento critiche nei confronti di un sistema giuridico penalizzante per le donne, si pensi alle presa di posizione di Charles Fourier, fu soprattutto a partire dalla seconda metà del XIX secolo che la lotta per i diritti e contro la discriminazione politica, giuridica e sociale delle donne acquistò vigore, soprattutto in ambito anglosassone, richiamandosi al fondamentale principio di eguaglianza del cittadino di fronte alla legge. Condotta da gruppi di donne raccolti intorno a redazioni di giornali femministi, come l’ «Englishwoman’s Journal», fondato a Londra, nel 1859, la rivendicazione per una piena cittadinanza venne condivisa da John Stuart Mill, che presentò nel 1866 una prima petizione per il diritto di voto alle donne e scrisse nel 1869 il saggio The Subjection of  Women (La servitù della donna). Nonostante ciò, e nonostante qualche parziale successo soprattutto nell’ambito dell’emancipazione giuridica, le donne ottennero il diritto di voto nei principali paesi occidentali soltanto a partire dai primi decenni del XX secolo. In Italia solo dopo la seconda guerra mondiale.

D'altro canto, nel corso dell’Ottocento, due sono state le principali “questioni”, accomunate nell’opposizione all’”individualismo” della tradizione illuministica e rivoluzionaria, alla luce delle quali è stato rimodellato il discorso sulla cittadinanza: la “questione sociale” e la “questione nazionale”. La prima, originata dalla rivoluzione industriale, ha avuto il suo fulcro nella ricerca della risoluzione dei problemi della disuguaglianza e del conflitto sociale e nell’estensione dei diritti di cittadinanza attiva alle classi subalterne. La seconda, che faceva essenzialmente riferimento ai tentativi, soprattutto tedeschi e italiani, di raggiungere l’unità politica della nazione, ha dato origine a nuove concezioni della cittadinanza anch’esse alternative al “modello francese” e focalizzate sull’appartenenza, su basi naturali e culturali (come quelle di unità etnica, linguistica o religiosa) all’entità collettiva della nazione. Soprattutto a causa della centralità assunta nel XIX secolo dalla “questione nazionale”, si è così giunti a una graduale identificazione tra nazionalità e cittadinanza, che ha spostato il perno del discorso sulla cittadinanza dai diritti soggettivi all’appartenenza collettiva. A quest’ultima è stata attribuita infatti un’importanza sempre maggiore, testimoniata dall’enfatizzazione dell’”impegno patriottico” come compito essenziale del cittadino. E proprio in polemica con l’identificazione della nazione con una comunità etnica, Ernest Renan, nella celebre conferenza pronunciata alla Sorbona l’11 marzo 1882, riprendeva la concezione volontaristica, di ascendenza rivoluzionaria, della cittadinanza, con l'intento di togliere importanza ai dati oggettivi della lingua, della religione e della razza, che “dividono” e contrappongono una nazione alle altre, per attribuirne alla scelta volontaria e consensuale di una collettività “costruita da sentimento dei sacrifici compiuti” e confermata attraverso un “plebiscito quotidiano”. Ma sarà proprio il problema dell'identificazione tra razza e cittadinanza una delle questioni fondamentali, e più tragiche, del XX secolo, durante il quale il concetto verrà declinato in chiave totalitaria, privandolo gradualmente dello status di garanzia posta a salvaguardia dei diritti individuali.

Costa riprende, compendiandola in una più agile pubblicazione, la storia del concetto già diffusamente indagata nelle sue pubblicazioni precedenti, giungendo agli ultimi sviluppi: dalla cittadinanza costituzionale alla cittadinanza europea.

Indice

Introduzione.
1. Il concetto di ‘cittadinanza’
2. Il momento della città
3. La cittadinanza come sudditanza
4. Il soggetto-di-diritti e il paradigma giusnaturalistico
5. La cittadinanza rivoluzionaria
6. Modelli ottocenteschi: l’ordine degli individui
7. Modelli ottocenteschi: lo Stato-nazione
8. Modelli ottocenteschi: la società solidale
9. La lotta per i diritti
10. La lotta contro i diritti
11. La cittadinanza totalitaria
12. Dalla ‘cittadinanza costituzionale’ alla ‘cittadinanza europea’

L'autore

Pietro Costa si è laureato in Giurisprudenza nell'Università di Firenze e ha insegnato Storia del diritto nelle Università di Macerata e Salerno. Storico del pensiero giuridico-politico, attualmente è ordinario di Storia del diritto nella Facoltà di Giurisprudenza di Firenze. Fa parte della redazione della rivista "Quaderni fiorentini per la storia della cultura giuridica moderna". Dopo essersi occupato della cultura giuridica medievale e della teoria dello Stato e del diritto nell'età moderna e contemporanea, ha concentrato le sue ricerche soprattutto sulla storia dell'idea di cittadinanza, pubblicando tra il 1999 e 2000, in quattro volumi, Civitas. Storia della cittandinanza in Europa (Laterza). È autore, tra l'altro, di Lo Stato immaginario. Metafore e paradigmi nella cultura giuridica italiana, (Milano, Giuffrè, 1986), La cittadinanza: un tentativo di ricostruzione 'archeologica', (in D. Zolo, La cittadinanza. Apppartenenza, identità, diritti, Roma-Bari, Laterza, 1994) e Alle origini dei diritti sociali: Arbeitender Staat e tradizione solidaristica, (in G.Gozzi, a cura di, Democrazia, diritti, costituzione. I fondamenti costituzionali delle democrazie contemporanee, Il Mulino, Bologna, 1997).

domenica 11 settembre 2005

Fourier, Charles, Il nuovo mondo industriale e societario.

Milano, Rizzoli, 2005, pp. 443, € 11,00, ISBN 88-17-00505-3.
[Ed. or.: Le Nouveau Monde industriel et sociétaire, ou Invention du procédé d'industrie attrayante et combinée, distribuée en séries passionnées (1829), Anthropos, Paris 1966.]

Recensione di Salvatore Stefanelli – 11/09/2005

Filosofia politica (socialismo)

“Un sordo dolore li affligge / eppure non sanno il perché. / Il mondo l’ignora, li sfugge; / per loro speranza non c’è.[…] Quand’ecco che un suono distante / percuote la loro apatia. / È il piffero di un musicante, / di strana suadente malia. […] Le storie che canta e che suona / dissolvono tutti i timori. / Fiducia e speranza ridona: / la gioia fiorisce nei cuori. (M. Ende, Il pifferaio magico, Milano 1994, pp. 23-25). Al termine della lettura del Nuovo Mondo di Fourier, a mio avviso s’innesca un procedimento associativo che richiama l’imago del leggendario personaggio medievale che con le melodie del suo flauto, prima, libera Hamelin dal flagello dei topi e, poi, porta via con sé, ammaliandoli, centotrenta bambini verso una destinazione outopica certamente, eutopica non è dato sapere. Trovare rimandi e addentellati fra la leggenda medievale, fonte inesauribile di ispirazione, e le storie di “pifferai”, absit iniuria verbis, che periodicamente compaiono sulla scena del mondo dà la misura dell’interesse che suscitano queste grandiose, e a volte bizzarre, idee utopiche e teorie psicologiche che vanno considerate non come curiose specie di una fauna esotica, bensì come facenti parte di un mondo più vasto. Purtroppo la forza di una utopia è tale da impressionare e costringere a pronunciare un vade retro non solo da parte della maggioranza della gente comune, ma anche da parte di chi in fondo può essere considerato un epigono di quelle idee.

Le disquisizioni di Fourier sull’amore aperto a ogni rapporto, sulla pedagogia, sul metodo di produzione sono state variamente interpretate con l’esito di ostracizzare questo autore da parte non solo dell’ambito borghese e confessionale, ma anche da parte di coloro che potrebbero essere ben definiti “compagni in itinere” dell’utopista francese. Si possono citare alcuni nomi illustri che hanno, a muso duro o con ironia, fatto divenire il pensiero fourieriano un emblema in negativo del concetto di utopia. Da Proudhon, padre riconosciuto dell'Anarchia, francamente non ci si aspetterebbe una affermazione del tipo: “Se si dimostra che il fourierismo è immorale […] questa non potrà essere considerata persecuzione, ma legittima difesa” (P.J. Proudhon, La Pornocratie, citato in D. Guérin, Essai sur la Révolution Sexuelle, Paris 1969, p. 252). Era dunque un pericolo pubblico, un “caissier en délire” come Flaubert definiva Fourier? Per Dühring non c’erano dubbi in merito: infatti affermava che nel nome di Fourier e in tutto il fourierismo solo la prima sillaba (in francese, fou = pazzo) dice qualcosa di vero. Contro questo disprezzo manifestato dall’economista tedesco si leverà a difesa di Fourier, indirettamente, Engels quando pungolato da Liebknecht, che gli scriveva: “Devi deciderti a mettere apposto Dühring” e confortato dall’appoggio di Marx che, a sua volta, nei confronti di Dühring chiedeva “una critica senza alcun riguardo”, si mise al lavoro e scrisse l’Anti-Dühring. Tuttavia, da parte dei numi tutelari del socialismo scientifico, il socialista utopista francese fu apprezzato più che altro come “uno dei più grandi satirici di tutti i tempi”, per il modo in cui attaccava la miseria morale e materiale del mondo borghese.

Quasi a riabilitazione del pensiero e della proposta filosofica fourieriana, giunge nei Classici del pensiero della BUR la prima traduzione italiana, in edizione integrale, de Il nuovo mondo industriale e societario, e per questo va rivolto un plauso a Laura Tundo del “Centro Interdipartimentale di Ricerca sull’Utopia” dell’Università di Lecce (per la magistrale introduzione) e a Maria Sarti (per la scrupolosa e chiara traduzione) che ci offrono la possibilità di poter apprezzare questo documento che, nella migliore tradizione dei Thomas More, Tommaso Campanella e Francis Bacon, introduce la più straordinaria “utopia” scritta negli ultimi due secoli.

Ciò che differenzia Fourier dai classici utopisti e dai rivoluzionari di qualsiasi estrazione è l’intento non di cambiare né tantomeno di fustigare le inclinazioni proprie della natura umana, bensì di specificarle e comprenderle in modo tale da assecondarle per trarne il meglio. Analizzando con cura le “passioni” umane, se ne può sfruttare tutta la loro positività ai fini della nascita dell’Armonia generale nell’umanità: “Un modello di società in cui le passioni di tutti possano essere soddisfatte, anzi in cui la soddisfazione delle passioni altrui garantisce la soddisfazione delle proprie” (I. Calvino, Saggi 1945-1985, Milano 1995, p. 274). L’utopista di Besançon si inventa la parabola “Le quattro mele” per dirci che la storia ha subito l’influsso di questo frutto: le prime due mele, quelle di Adamo ed Elena di Troia sono quelle guaste; mentre le sane sono rappresentate da Newton e proprio da Fourier. Infatti, mentre all’accademico matematico inglese va ascritta la scoperta della legge dell’attrazione universale, l’autodidatta commesso viaggiatore francese ci comunica di aver scoperto la legge dell’attrazione passionale. Nella comunità da lui auspicata, i rapporti tra maschi e femmine e l’interazione tra gli esseri umani e la realtà sono giustificati tramite la “attrazione appassionata, l’impulso fornito dalla natura, anteriormente alla riflessione e persistente, malgrado l’opposizione della ragione, del dovere, dei pregiudizi, ecc.” (p. 87). La forza motrice delle istituzioni proposte da Fourier sono le “passioni”, che egli considera come date e non da modificare in alcun modo, perché la sua dottrina è “la sola teoria conforme al desiderio della natura, ai presumibili piani di Dio, il quale, lo ripeto, sarebbe un meccanico inesperto, se avesse creato le nostre passioni, per ostacolare quelle dei deboli, a vantaggio dei più forti, secondo il metodo civilizzato e barbaro” (p. 93).

Il cuore dell’utopia fourieriana è dunque nella teoria delle passioni e nella sua applicazione ai fini dello sviluppo della “falange di Serie passionali”. Forse una delle più notevoli caratteristiche di questa utopia è la sostituzione di "un equivalente morale alla guerra" molto prima che William James inventasse la frase. Una delle principali funzioni della falange è la costituzione di eserciti destinati alla produzione, mentre la "civilizzazione" li costituisce allo scopo di distruggere (L. Mumford, Storia dell’utopia, Bologna, 1969, p. 78). Pur utilizzando questa immagine militaresca, va detto che quella che nel sistema sociale proposto nel Nuovo mondo potrebbe apparire come la morte del soggetto, si rivela essere invece l’esaltazione dell’individuo, il solo tentativo coerente per riconciliare i due estremi della natura umana: indole sociale e irriducibile individualità. Facendo leva su due delle passioni più caratteristiche dell’uomo quali l’amore per la ricchezza e la predilezione per i piaceri che, tra l’altro, sono proprio quelle da sempre più soggette a repressione da parte di pochi nei confronti del restante contesto sociale, Fourier consiglia di modificare gli ambiti del lavoro e dei rapporti sessuali. La ricetta perché il lavoro non sia visto come una condanna, bensì come un valore, trova i suoi ingredienti nel delicato equilibrio basato sul contenimento della cupidigia individuale assorbendola negli interessi collettivi dell’intera falange (cooperazione) e sulla limitazione degli interessi collettivi di ogni serie della falange diluendoli mediante gli interessi individuali in molte altre serie (emulazione). In buona sostanza, “il regime delle Serie passionali è un meccanismo che è permeato di giustizia, e che trasforma in sete di giustizia il presunto vizio chiamato sete dell’oro” (p. 292). Sempre a proposito del lavoro, l’utopista francese, forse in questo esaudito dall’odierna legislazione sull’occupazione che soddisfa in pieno la passione detta Farfallante, cioè il desiderio di alternare le occupazioni e le compagnie, ritiene che sarebbe oltremodo tedioso eseguire sempre lo stesso lavoro e consiglia brevi turni lavorativi per non cadere nella noia, estrema mobilità da un gruppo all’altro e frequenti passaggi a funzioni differenti.

Per quanto concerne le passioni e l’organizzazione dei rapporti sessuali, Fourier condanna, dal punto di vista dei rapporti interpersonali, il predominio maschile sulla donna e, dal punto di vista delle istituzioni, disapprova la famiglia monogamica. Anche sul piano sessuale, dunque, la regola prima sarà offerta dalla legge dell’attrazione passionale, che in particolar modo deve servire a portare a una completa emancipazione del sesso femminile. Fourier diede un'esposizione articolata delle sue tesi su quest'ultima questione in Le Nouveau Monde amoureux, opera che collocata nel suo contesto storico si rivelò come una macchina da guerra puntata contro le contraddizioni di una società (la Civiltà) regolata solo in apparenza dal principio della monogamia (Code Civil de 1804, livre I, titre V), mentre in realtà era attraversata da una poligamia serpeggiante con le sue fatali conseguenze (si veda il significativo trattatelo postumo Hiérarchie du cocuage, tr. it. Tavola analitica dei cornuti, Milano 2005). Anche nel caso della liberazione sessuale, quello che potrebbe sembrare un banale prodromo a orgie si rivela invece nelle mani di Fourier come un calcolo ragionato per una ottimizzazione del gioco delle passioni quale antitesi dei drammi borghesi provocati da “tous ces champions de morale, qui sont d'ordinaire plus dépravés en secret que les francs libertins et se livrent cafardement aux adultères et fornications, stupres et autres goûts inconstitutionnels, tout en déclamant contre ceux qui avouent quelque papillonnage bien moins blâmable que le cynisme secret des moralistes” (Le Nouveau monde amoureux, Dijon 1998, p. 431).

Nel progetto fourieriano, “l’isola che non c’è” si materializza nel “Falansterio” (Phalanstère è un neologismo fourieriano composto dalla radice phalan(ge) e dal suffisso derivato da (mona)stère) che viene proposto come un modello di organizzazione non solo della residenza ma dell’intera concezione dell’abitare, alternativo alla città. Questa unità insediativa ha un senso se viene considerata non come un tipo di alloggio, bensì come un terreno di coltura in cui gli iniziali spazi destinati alla vita dei singoli subiranno una mutazione evolvendosi e moltiplicandosi in spazi destinati alla vita collettiva. In pratica un insediamento del genere ha in sé la caratteristica di portare a una teoricamente illimitata proliferazione dei centri sul territorio mediante uno stretto contatto con la natura, soppiantando la discriminatoria scissione tra centro e periferia delle città. I falansterii, una volta inoculati nella società civilizzata, si moltiplicheranno svuotandola e disintegrandola dall'interno, eliminando la necessità dello Stato, delle banche, della concorrenza, delle guerre, dei conflitti di classe. Infatti, Fourier prevede che dopo i primi anni “una falange instaurerà molte nuove relazioni sociali e Serie passionali, che non potrebbe organizzare all’inizio. Di conseguenza gli edifici originari saranno già molto inadeguati […]. Allora, si ricostruiranno tutti i falansteri del globo terrestre” (p. 150). A fronte di tutta questa sua connotazione avveniristica, pur dopo tentativi di realizzazione più o meno riusciti (l’ultima esperienza fourierista è stata quella del “Familistère” creato da Jean-Baptiste Godin a Guise, in Francia), il termine falansterio è rimasto solo a indicare proprio quegli enormi monotoni fabbricati popolari delle periferie urbane, simbolo del livellamento collettivo della nostra civiltà, insomma tutto l’opposto del mondo multicolore e multiforme immaginato da Fourier.

Studiando con attenzione l’idée exemplaire del falansterio, questo piccolo sistema planetario ruotante attorno al sole delle passioni, si può riconoscere in Fourier un vero socialista “scientifico” ante litteram, tutt’altro rispetto all’accusa di “non scientifico” con la quale l’egemonia marxista l’ha messo all’indice. La proposta di una civiltà antirepressiva, da parte di Fourier non ha nulla a che spartire con uno scatenamento di impulsi vitali, di spontaneismi confusi, come ritenevano quelli del Sessantotto parigino; al contrario basta scorrere lo schema che riassume la composizione della falange di prova per avere una testimonianza spettacolare della precisione delle regole di composizione “sociologica” del gruppo che include persone di tutte le classi, di tutte le età e di tutti i caratteri. Fourier, ai fini della riuscita del suo esperimento sociale, dimostra come sia necessaria conoscenza e precisione, una complessa organizzazione, spirito classificatorio e programmi dettagliati, pertanto non sarebbe affatto una forzatura paragonare macroscopicamente il falansterio a una capsula di Petri, cioè quel contenitore da laboratorio che consente allo sperimentatore di seguire lo sviluppo della coltura e al contempo di preservarla da interazioni con l’ambiente circostante. A ulteriore riprova di quanto particolare sia il modello di utopia fourieriana, proprio per il metodo sperimentale applicato alla scienza sociale, Calvino sottolinea nell’opera di Fourier “l'alleanza del meraviglioso con l'aritmetica”, suggerendo che il falansterio ricorda un gigantesco ordinateur, un sistema cibernetico di regolazione produzione-bisogni, un sistema di elaborazione per rendere organico il perfetto assortimento delle Serie.

Indice

Introduzione
Prefazione

PRINCIPI
Sezione Prima: Analisi dell'attrazione appassionata
Sezione Seconda: Ordinamento della falange di prova

APPLICAZIONE
Sezione Terza: Educazione armoniana
Sezione Quarta: Meccanismo e armonie dell’attrazione
Sezione Quinta: Dell’equilibrio generale delle passioni

CONTROPROVA
Sezione Sesta: Analisi della civiltà
Sezione Settima: Sintesi generale del movimento
Nota conclusiva: Sulla cateratta intellettuale

L'autore

Charles Marie François Fourier (1772–1835), utopista francese critico nei confronti dell’ordine sociale borghese. La sua prima opera Théorie des quatre mouvements et des destinées générales fu pubblicata nel 1808. Nelle opere successive sviluppò l’idea che le passioni naturali dell’uomo, se accortamente indirizzate, potranno portare ad una Armonia sociale.

Links

I seguenti indirizzi rinviano a siti il cui contenuto ha come tema l'Utopia:
http://users.erols.com/jonwill/utopialist.htm
www.unile.it/ateneo/dipartimenti_ricerca/centri_interdipartimentali/centro_utopia.as

www.lingue.unibo.it/utopia/
www.utoronto.ca/utopia/

Cocco, Enzo, Etica ed estetica del Giardino.

Milano, Guerini e Associati (Kepos, 10), 2005, pp. 240, € 19,50, ISBN 88-8335-448-6.

Recensione di Fabio Fraccaroli – 11/09/2005

Estetica, Storia della filosofia (Illuminismo)

La metafora, un tempo viva, del giardino ha perso per noi la sua affascinante attendibilità? O forse, se ci è dato illuderci, proprio perché figli della città di Prometeo non più riconoscendo i diversi volti della natura, al contrario, il giardino, nelle sue varie espressioni può ancora misteriosamente sedurci e diventare valore-ideale da ripensare? Entro queste interrogativi si muove il saggio Etica ed estetica del giardino. Oltre che metafora, Cocco ci invita a pensare come “metaspazzi” le forme e i modi in cui l’uomo si confronta, quasi in dialogo, con la natura, creando geometrici parterre (teoretici) o confortevoli boschetti (in finzione). Inteso anche in tal modo il giardino può essere quindi “luogo […] in cui lo spirito si oggettiva e l’oggetto si spiritualizza”, caricandosi appunto “di valenze metaforiche e ‘ideali’” (p. 12). Per delineare l’evolversi di tale, quasi estinto, ideale si indagano “alcuni momenti” della storia del giardino “e precisamente quelli della cultura francese del XVIII secolo e del primo ottocento durante i quali s’afferma una vera e propria ‘istituzionalizzazione’ e ‘consacrazione’ della figura del giardino” (p. 14). Se sotto l’influenza libertaria di Shaftesbury, pensatori illuminati consegnarono la viva metafora del giardino al nascente romanticismo, è attraverso la dissacrante interpretazione di Baudelaire, passeggiatore dandy, che tale utopistica ipotesi, insulso parco cittadino, vuota idea da annientare entro il prevaricante spazio urbano. Volendo riconoscere nella figura del geniale giardiniere Lancelot Brown detto “Capability” un nume tutelare per la progettazione del giardino-paesaggistico, è soprattutto attraverso la diffusione dei testi del Shaftesbury che prende piede l’ideale di un giardino in cui, secondo i dettami di Bacone e le visoni del Paradise lost miltoniano, “le parti concorrono al tutto e l’irregolarità serve l’armonia” (p. 45), dove quindi non si nasconde sotto cartesiano rigore di norma, il necessario prevalere della libera naturalezza. Se dietro questa rivoluzione copernicana in verde si ritrovano, da un punto di vista primariamente estetico, “le tre regole fondamentali del giardinaggio britannico, […] cioè la creazione di contrasti, l’allestimento della sorpresa, il nascondimento dei confini” (p. 21) innegabilmente la filosofia, grazie appunto a Shaftesbury, riscopre il piacere dello speculare sulla natura nella natura. Rinasce in chiave moderna, speculando sui giardini nei giardini, il mito del pensatore-passeggiatore, anche se non necessariamente solitario. Cocco sceglie di parlare non solo di estetica ma anche di etica, perché come tutte le rivoluzioni anche quella della nuova moda liberale del giardino all’inglese non potrebbe essere compresa se non la si osservasse su più piani. In essa si intrecciano non solo nuove regole estetiche sul come costruire dei parchi, ma anche animate discussioni etiche sul come intendere il ruolo dell’uomo nella natura. In quest’ottica etico-estetica, indirettamente si potrebbe dimostrare, negli autori analizzati, non tanto la volontà di dominio conoscitivo, ma piuttosto l’incuriosito ascolto e una antispeculativa cura verso le cangianti forme della natura. Così, i personaggi de I moralisti di Shaftesbury, testo imitato dal giovane Diderot, elogiando la moda del parco paesaggistico colgono nei loro dialoghi la “concordia discordante della natura” (p. 46), affrontando con socratico scetticismo antidogmatico temi scomodi per l’epoca. Palemone, Filocle e Teocle, dando voce alla topofilia del loro creatore, ispirati dalle occasioni che i luoghi in cui passeggiano gli suggeriscono, discutono apertamente di cattivo o di buono ateismo, della virtù dell’autonomia fra morale e religione, o altrimenti di Dio. Le scomode parole di Shaftesbury, velatamente rivoluzionarie, se pur nella loro bonaria ingenuità, accenderanno la miccia a una bomba che presto o tardi scoppierà dando luogo alla cultura (borghese) laica, passando prima però fra le mani di pensatori che ne sapranno cogliere altri ben più radicali aspetti, nella rigida Francia assolutista. Cocco sceglie di seguire le nuove idee che si esprimono nelle fiorenti descrizioni dei giardini, in tre cruciali pensatori della Francia illuminista. Malgrado, per ragioni di spazio, non ci è dato entrare nei dettagli sul come Diderot, Rousseau e Voltaire portino verso altre angolature i dettami de I moralisti, ci piace semplicemente accennare ad alcune immagini di giardini che gli autori considerati tratteggiano. Diderot spirito libertino è mostrato da Cocco attraverso due complementari creazioni di architettura vegetali nei suoi scritti. Si può scorgere l’importanza che Diderot assegna ai giardini quando descrive, ne La promenade du sceptique, tre strade che conducono a tre viali dove Cleobulo dialoga con Aristo. Non a caso quindi, Denis-Cleobulo si muove a suo agio fra due spazi particolari dove propriamente si mette in scena la sua filosofia. In tale scritto, Diderot immagina per il suo alter ego un enclos che, secondo le sue stesse parole, “non è bosco, né prato, né giardino, ma un insieme di tutto” (p. 85). Inoltre costruisce, entro la sua finzione, tre vie che conducono a tre viali a tema (della religione-viale delle spine, della mondanità–viale dei fiori, della filosofia–viale dei castagni) che servono a guidare la conversazione nel dialogo. Per non voler dar troppo adito all’evidente propagarsi della spirito laico, fingiamo di non notare come qui la religione sia solo una tappa, la prima, per arrivare a questioni ben più importanti, come quelle riguardanti la mondanità o la filosofia. Comunque sia, dall’analisi di Cocco si ottiene l’immagine del filosofo enciclopedista felicemente a suo agio fra la necessaria intimità privata di un giardino tutto per sé e l’altrettanto importante cordialità di chi, per far carriera pubblica, sa offrire luoghi eleganti ove accogliere e ammaliare. Di tutt’altro tipo sono invece i giardini narrati dal Voltaire. Con argute allegoriche immagini di giardini romanesque ha scelto di illustrare i suoi contes philosophiques, scritti contro l’ottimismo quasi ideologico della società del tempo. In sintesi, nelle pagine di Voltaire, si contrappongono i due antitetici significati dell’archetipo giardino dell’Eden. Nel primo gruppo si potrebbero includere i paradisi terrestri della perduta (giovanile e ingenua) illusione, siano essi nella Babilonia felix di Zadig o nella aspra Westafalia del Candide. Nel secondo gruppo andrebbero compresi invece quelli dell’utopia irraggiungibile-irrealizzabile, come l’Eldorado, sempre nel Candide. Comunque, la ricerca di una giusta felicità nell’“instabile equilibrio fra ottimismo e pessimismo” (p. 175), che Voltaire cerca d’insegnare con i suoi racconti esemplari, ha forse – come giustamente argomenta Cocco – un solo auspicabile luogo d’arrivo, il piccolo giardino di Propontide. In questo ultimo rifugio, al termine della sua rocambolesca micro-odissea, Candide, con toni epicurei ma senza becero egoismo, indica alla sfortunata brigata che l’ha accompagnato nelle varie disavventure, l’unico rimedio possibile a ogni sciagurato vivere: “Il faut cultiver notre jardin”. Questo è pertanto il giardino dell’equilibrio fra illusione e disincanto, l’unico che merita d’essere lavorato. Dove “lavorare il giardino significa, allora, impegnarsi nella diffusione di una filosofia che […] si preoccupi non tanto dell’essenza ma dell’esistenza, non del cielo ma della storia, non della sorte dell’anima nell’al di là, ma del progresso civile dell’umanità” (p. 184). Coltivare assieme e senza presunzione il nostro giardino proprio “come aveva già indicato Zoroastro, nella cui religione, ricorda Voltaire, troviamo la parola ‘giardino’ per indicare la ricompensa dei giusti” (ibid.). Se nella pace delle proprie Delices presso Fernet vicino Ginevra, Voltaire pensava per il suo Candide a un giardino di Propontide come giardino Zoroastro, più a nord lo sfiduciato Rousseau, nell’ultimo esilio di Ermenonville, rimuginava forse sui suoi parchi, come l’idillio robinsoniano vissuto a l’île Saint-Pierre sul lago di Bienne, luoghi di contemplazione, fuga dal mondo e non semplici scenari per i protagonisti dei suoi libri. Di tutt’altro tipo sono in effetti i giardini che nutrono l’immaginario dell’autore dell’Emilio; Cocco ne individua due, fra gli altri, in grado di dar prova di tutta la sensibilità roussoviana. Il più complesso è il giardino di Julie, l’eroina della Nouvelle Heloise. Rousseau ritiene che anche un giardino possa insegnare con il suo stesso modo di darsi, fra naturalezza e artificio. Infatti “quella di Julie è una arte che tiene conto della natura, si ispira ad alla sua semplicità, guarda a essa come modello da imitare. Si allontana perciò da ogni forma di invenzione arbitraria, e ciò avvicina il suo giardino a quello paesaggistico o all’inglese” (p. 131). Attraverso tale approccio mimetico - “artificializzazione della natura e […] naturalizzazione dell’artificio” (p. 133) - il giardino della Nouvelle Heloise è opera in cui “la mano del giardiniere c’è, ma non si vede” (p. 132). È insomma, altro piano in questa complessa stratigrafia, “il giardino della madre-giardiniera”, enceinte “madre che porta con sé il seme d’una nuova vita” (p. 127). Madre che, secondo questa metafora, meglio d’ogni altro essere sa ritornare alla sua innata naturalezza, ritrovandola in sé. Oltre questo primo hortus conclusus tutto femminile, s’apre, nella mitologia roussouviana, un altro giardino più vasto e perciò più difficile da apprendere.“Il giardino, costruito all’interno della città per arginare la sua decadenza, viene abbandonato per una uscita nella natura, la quale ridiventa a questo punto, l’ altro e l’ altrove della città” (p. 141). Per Jean-Jacques botanico promenaur, la natura tutta si fa giardino da contemplare. Tale immaginativo espediente, l’aprirsi a un’estesa rêverie botanique nel paesaggio come giardino, che certo ha un valore anche terapeutico, Jean-Jacques lo inscrive entro una dimensione anzitutto estetica, quasi dimentico di etiche risposte ai mali del vivere (sociale). Il promenaur solitario, nella natura percepita come giardino, cercherà una “‘ricreazione degli occhi’ che nella sfortuna ‘repose, amuse, distrait l’esprit et suspend le sentiment des peines‘” (p. 148).

Nella seconda parte di Etica ed estetica del giardino si cerca d’integrare una discutibile tesi di Schlegel sulla poetica dei giardini. Nel suo Die Kunstlehre il critico tedesco aveva “sostenuto che l’arte dei giardini non sarebbe mai nata senza un precedente perfezionamento della pittura, e che, quindi, i veri maestri ed educatori dei giardini sono stati i pittori” (p. 191). Rivolgendo l’attenzione in particolare ai lavori di Hugo, Poe e Baudelaire, Cocco vuole piuttosto dimostrare che “spesso l’idea del giardino ha influenzato la pittura e le arti in genere” (ibid.); così i tre poeti scelti possono provare che “la ‘raccolta esteticità’ dei giardini [è spesso] servita da modello, da pre-testo, per definire” (p. 190) lo statuto e il sapere della (loro) poesia. Poe maestro della creazione fantastica, non sorprende, seppe inventare un universo che comprende la leggendaria opera di un landscape gardener, l’altrettanto fittizio Mr. Ellison. Incrinando il senso delle finzioni che per i philosophes illuministi dovevano servire da specchio al reale, Poe preferì raccontare, in due distinti novelle, la carriera del giovane Ellison, artista con buona dote, che scopre, a suo dire, l’arte delle arti come giardinaggio (su scala paesaggistica). Se con il Dominio di Arnheim si traccia, appunto, la biografia artistica di Ellison, nel Landor's Cottage, pendant al primo racconto, per dar prova della veracità della sua finzione, Poe immagina il resoconto di un incantato viaggiatore realmente arrivato nella naturale quanto inquietante coreografia creata (probabilmente) dallo stesso Ellison. È attraverso questo doppia finzione che lo scrittore americano riesce a trovare spazio entro la sua opera per riflettere sull’arte del landscape gardening. Però sul significato di questo gioco di finzioni che si intrecciano ci sentiamo di dissentire parzialmente dall’interpretazione di Cocco. Senza dubbio è vero che i due racconti sembrano sostenere che “l’arte vera non può essere [...] adaequatio al mondo circostante, né riproduzione pura e semplice di quanto è in natura […], bensì processo severo e rigoroso, che conduce oltre il mondo della sensibilità” (p. 204), suggerendo una architettura del paesaggio, che è “sublimazione della natura fisica” (ibid.). Quindi può sembrare giusto concludere che in Poe la “configurazione di giardini diventa alla fine, metafora di un’arte che non è mimesis – riflesso sbiadito della natura – ma artificio, […] inventio, dunque fictio, arabesco che nel proprio fondo, custodisce-disvela una tensione erratica […] verso la verità, l’armonia, la bellezza” (p. 208). Però, interpretato in tal modo, forse sfugge la sottile ironia di Poe. Leggendo le opere di un demiurgo (quasi) onnipotente che con grande “artificiosa regolarità rende i paesaggi […] innaturali e, perciò mostruosi” (p. 207), viene da chiedersi se nelle intenzioni dell’autore che le ha scritte ci fosse primariamente la volontà di farci desiderare tali spazi immaginifici o piuttosto, al contrario, si giocasse proprio sull’attrazione-repulsione verso queste artificiosissime creazioni. Diavolerie mostruose che, non senza ironia, ci attraggono e ci respingono mettendo in questione di fatto ciò che è vero e ciò che vorremmo (come vero). Poe beffardo provocateur, in grado di rimettere in gioco la sottile demarcazione che istituiamo fra naturale e artificiale, vero e fittizio, bello e grottesco, non solo quindi indiscutibile maestro della fantasia soprannaturale come lo vedeva l’estetismo di Baudelaire e di cui Cocco si fa interprete. Sulla lettura di Baudelaire si conclude Etica ed estetica del giardino. Il poeta parigino è qui simbolo della morte dell’ideale del giardino presente nei pensatori illuministi. Il cantore dei fiori del male non può accontentarsi di una mistificatoria elegia del presente, poiché, come lui stesso dichiara, aspira a un’Ars poetica in cui “l’orribile, espresso artisticamente, divenga bellezza, e [in cui] il dolore ritmato e cadenzato riempia lo spirito d’una gioia calma” (p. 218). Poesia che non vuole rappresentare il vero come bello, ma semmai dire la verità sul come stanno le cose, anche se questo significa anzitutto venire a patti con l’orrore del presente. Tale grave compito può passare anche attraverso la negazione della natura e delle sue romantiche bellezze. “Lontani discendenti del passeggiatore solitario descritto da Rousseau”, i poeti del moderno come Baudelaire o come Leopardi, a cui forse il poeta dei Fleurs s’ispira, non temono di ammettere che “viaggiatori labirintici, hanno bandito dai loro itinerari quotidiani la natura” (p. 221). Piaccia o non piaccia, essa non abita più i luoghi che essi abitano. È oramai l’invadente città la loro unica, vera seconda natura. Per questo, senza imbellettarne il cadavere, il poeta moderno deve tutt’al più scegliere di onorare quei i luoghi dove si stanno svolgendo le dignitose esequie alla estinta natura. Solo in quest’ottica si può cogliere come appare l’idea di giardino a Baudelaire: parco pubblico, urbano monumento funebre alla libera natura. “La città accoglie in sé il giardino-natura, ma più che mantenerlo nella sua propria diversità, lo nega, lo riduce a ‘spazio metropolitano’. Ne infetta e corrompe l’originaria idea. Ne distrugge l’alterità” (p. 223). Quindi solo la realtà, ai più impercettibile, di ciò che è diventato l’ideale del giardino, può entrare nella disincantata coscienza del poeta, solo in tal senso il giardino deve essere ritratto, ora che non ha proprio più nulla nemmeno del naturalistico.

Indice

Introduzione

ETICA E FILOSOFIA DEL GIARDINO NELL’ETÀ DEI LUMI
I. La filosofia del Genius Loci – I moralisti di Shaftesbury
II. Il viale dei castagni – Diderot e la “philosophie locale”
III. Rousseau e il giardino di Julie
IV. Voltaire e il giardino della filosofia

I GIARDINI E LA POESIA 
V. Le solitudini di Versailles – Hugo e Poe
VI. Il passo del flâneur – I giardini pubblici e il sapere della poesia
Indice dei nomi

L'autore

Enzo Cocco è docente di Etica sociale e dell'ambiente presso l’Università di Salerno. Interessato alle valenze filosofiche di alcune metafore della cultura europea, ha studiato il viaggio come "figura" di possibili percorsi della ragione, e su questo argomento ha pubblicato alcuni saggi e i volumi, tra i quali Figure di viaggio e crisi del soggetto (Nuove Edizioni Tempi Moderni, 1990), Viaggio e metafisica (Guerini e Associati, 1996). Ha dedicato studi anche alla storia del giardino, inteso come natura modellata dall’uomo e specchio di una cultura, di una visione del mondo. Su questo tema ha pubblicato vari articoli, nei quali giardino e paesaggio appaiono "luoghi dell’estetica e dell’etica". Per la collana "Kepos" (Guerini e Associati) ha curato, tradotto e introdotto il volume di Rousseau Lettere sulla botanica (1994).