Recensione di Fabio Fraccaroli – 11/09/2005
Estetica, Storia della filosofia (Illuminismo)
La metafora, un tempo viva, del giardino ha perso per noi la sua affascinante attendibilità? O forse, se ci è dato illuderci, proprio perché figli della città di Prometeo non più riconoscendo i diversi volti della natura, al contrario, il giardino, nelle sue varie espressioni può ancora misteriosamente sedurci e diventare valore-ideale da ripensare? Entro queste interrogativi si muove il saggio Etica ed estetica del giardino. Oltre che metafora, Cocco ci invita a pensare come “metaspazzi” le forme e i modi in cui l’uomo si confronta, quasi in dialogo, con la natura, creando geometrici parterre (teoretici) o confortevoli boschetti (in finzione). Inteso anche in tal modo il giardino può essere quindi “luogo […] in cui lo spirito si oggettiva e l’oggetto si spiritualizza”, caricandosi appunto “di valenze metaforiche e ‘ideali’” (p. 12). Per delineare l’evolversi di tale, quasi estinto, ideale si indagano “alcuni momenti” della storia del giardino “e precisamente quelli della cultura francese del XVIII secolo e del primo ottocento durante i quali s’afferma una vera e propria ‘istituzionalizzazione’ e ‘consacrazione’ della figura del giardino” (p. 14). Se sotto l’influenza libertaria di Shaftesbury, pensatori illuminati consegnarono la viva metafora del giardino al nascente romanticismo, è attraverso la dissacrante interpretazione di Baudelaire, passeggiatore dandy, che tale utopistica ipotesi, insulso parco cittadino, vuota idea da annientare entro il prevaricante spazio urbano. Volendo riconoscere nella figura del geniale giardiniere Lancelot Brown detto “Capability” un nume tutelare per la progettazione del giardino-paesaggistico, è soprattutto attraverso la diffusione dei testi del Shaftesbury che prende piede l’ideale di un giardino in cui, secondo i dettami di Bacone e le visoni del Paradise lost miltoniano, “le parti concorrono al tutto e l’irregolarità serve l’armonia” (p. 45), dove quindi non si nasconde sotto cartesiano rigore di norma, il necessario prevalere della libera naturalezza. Se dietro questa rivoluzione copernicana in verde si ritrovano, da un punto di vista primariamente estetico, “le tre regole fondamentali del giardinaggio britannico, […] cioè la creazione di contrasti, l’allestimento della sorpresa, il nascondimento dei confini” (p. 21) innegabilmente la filosofia, grazie appunto a Shaftesbury, riscopre il piacere dello speculare sulla natura nella natura. Rinasce in chiave moderna, speculando sui giardini nei giardini, il mito del pensatore-passeggiatore, anche se non necessariamente solitario. Cocco sceglie di parlare non solo di estetica ma anche di etica, perché come tutte le rivoluzioni anche quella della nuova moda liberale del giardino all’inglese non potrebbe essere compresa se non la si osservasse su più piani. In essa si intrecciano non solo nuove regole estetiche sul come costruire dei parchi, ma anche animate discussioni etiche sul come intendere il ruolo dell’uomo nella natura. In quest’ottica etico-estetica, indirettamente si potrebbe dimostrare, negli autori analizzati, non tanto la volontà di dominio conoscitivo, ma piuttosto l’incuriosito ascolto e una antispeculativa cura verso le cangianti forme della natura. Così, i personaggi de I moralisti di Shaftesbury, testo imitato dal giovane Diderot, elogiando la moda del parco paesaggistico colgono nei loro dialoghi la “concordia discordante della natura” (p. 46), affrontando con socratico scetticismo antidogmatico temi scomodi per l’epoca. Palemone, Filocle e Teocle, dando voce alla topofilia del loro creatore, ispirati dalle occasioni che i luoghi in cui passeggiano gli suggeriscono, discutono apertamente di cattivo o di buono ateismo, della virtù dell’autonomia fra morale e religione, o altrimenti di Dio. Le scomode parole di Shaftesbury, velatamente rivoluzionarie, se pur nella loro bonaria ingenuità, accenderanno la miccia a una bomba che presto o tardi scoppierà dando luogo alla cultura (borghese) laica, passando prima però fra le mani di pensatori che ne sapranno cogliere altri ben più radicali aspetti, nella rigida Francia assolutista. Cocco sceglie di seguire le nuove idee che si esprimono nelle fiorenti descrizioni dei giardini, in tre cruciali pensatori della Francia illuminista. Malgrado, per ragioni di spazio, non ci è dato entrare nei dettagli sul come Diderot, Rousseau e Voltaire portino verso altre angolature i dettami de I moralisti, ci piace semplicemente accennare ad alcune immagini di giardini che gli autori considerati tratteggiano. Diderot spirito libertino è mostrato da Cocco attraverso due complementari creazioni di architettura vegetali nei suoi scritti. Si può scorgere l’importanza che Diderot assegna ai giardini quando descrive, ne La promenade du sceptique, tre strade che conducono a tre viali dove Cleobulo dialoga con Aristo. Non a caso quindi, Denis-Cleobulo si muove a suo agio fra due spazi particolari dove propriamente si mette in scena la sua filosofia. In tale scritto, Diderot immagina per il suo alter ego un enclos che, secondo le sue stesse parole, “non è bosco, né prato, né giardino, ma un insieme di tutto” (p. 85). Inoltre costruisce, entro la sua finzione, tre vie che conducono a tre viali a tema (della religione-viale delle spine, della mondanità–viale dei fiori, della filosofia–viale dei castagni) che servono a guidare la conversazione nel dialogo. Per non voler dar troppo adito all’evidente propagarsi della spirito laico, fingiamo di non notare come qui la religione sia solo una tappa, la prima, per arrivare a questioni ben più importanti, come quelle riguardanti la mondanità o la filosofia. Comunque sia, dall’analisi di Cocco si ottiene l’immagine del filosofo enciclopedista felicemente a suo agio fra la necessaria intimità privata di un giardino tutto per sé e l’altrettanto importante cordialità di chi, per far carriera pubblica, sa offrire luoghi eleganti ove accogliere e ammaliare. Di tutt’altro tipo sono invece i giardini narrati dal Voltaire. Con argute allegoriche immagini di giardini romanesque ha scelto di illustrare i suoi contes philosophiques, scritti contro l’ottimismo quasi ideologico della società del tempo. In sintesi, nelle pagine di Voltaire, si contrappongono i due antitetici significati dell’archetipo giardino dell’Eden. Nel primo gruppo si potrebbero includere i paradisi terrestri della perduta (giovanile e ingenua) illusione, siano essi nella Babilonia felix di Zadig o nella aspra Westafalia del Candide. Nel secondo gruppo andrebbero compresi invece quelli dell’utopia irraggiungibile-irrealizzabile, come l’Eldorado, sempre nel Candide. Comunque, la ricerca di una giusta felicità nell’“instabile equilibrio fra ottimismo e pessimismo” (p. 175), che Voltaire cerca d’insegnare con i suoi racconti esemplari, ha forse – come giustamente argomenta Cocco – un solo auspicabile luogo d’arrivo, il piccolo giardino di Propontide. In questo ultimo rifugio, al termine della sua rocambolesca micro-odissea, Candide, con toni epicurei ma senza becero egoismo, indica alla sfortunata brigata che l’ha accompagnato nelle varie disavventure, l’unico rimedio possibile a ogni sciagurato vivere: “Il faut cultiver notre jardin”. Questo è pertanto il giardino dell’equilibrio fra illusione e disincanto, l’unico che merita d’essere lavorato. Dove “lavorare il giardino significa, allora, impegnarsi nella diffusione di una filosofia che […] si preoccupi non tanto dell’essenza ma dell’esistenza, non del cielo ma della storia, non della sorte dell’anima nell’al di là, ma del progresso civile dell’umanità” (p. 184). Coltivare assieme e senza presunzione il nostro giardino proprio “come aveva già indicato Zoroastro, nella cui religione, ricorda Voltaire, troviamo la parola ‘giardino’ per indicare la ricompensa dei giusti” (ibid.). Se nella pace delle proprie Delices presso Fernet vicino Ginevra, Voltaire pensava per il suo Candide a un giardino di Propontide come giardino Zoroastro, più a nord lo sfiduciato Rousseau, nell’ultimo esilio di Ermenonville, rimuginava forse sui suoi parchi, come l’idillio robinsoniano vissuto a l’île Saint-Pierre sul lago di Bienne, luoghi di contemplazione, fuga dal mondo e non semplici scenari per i protagonisti dei suoi libri. Di tutt’altro tipo sono in effetti i giardini che nutrono l’immaginario dell’autore dell’Emilio; Cocco ne individua due, fra gli altri, in grado di dar prova di tutta la sensibilità roussoviana. Il più complesso è il giardino di Julie, l’eroina della Nouvelle Heloise. Rousseau ritiene che anche un giardino possa insegnare con il suo stesso modo di darsi, fra naturalezza e artificio. Infatti “quella di Julie è una arte che tiene conto della natura, si ispira ad alla sua semplicità, guarda a essa come modello da imitare. Si allontana perciò da ogni forma di invenzione arbitraria, e ciò avvicina il suo giardino a quello paesaggistico o all’inglese” (p. 131). Attraverso tale approccio mimetico - “artificializzazione della natura e […] naturalizzazione dell’artificio” (p. 133) - il giardino della Nouvelle Heloise è opera in cui “la mano del giardiniere c’è, ma non si vede” (p. 132). È insomma, altro piano in questa complessa stratigrafia, “il giardino della madre-giardiniera”, enceinte “madre che porta con sé il seme d’una nuova vita” (p. 127). Madre che, secondo questa metafora, meglio d’ogni altro essere sa ritornare alla sua innata naturalezza, ritrovandola in sé. Oltre questo primo hortus conclusus tutto femminile, s’apre, nella mitologia roussouviana, un altro giardino più vasto e perciò più difficile da apprendere.“Il giardino, costruito all’interno della città per arginare la sua decadenza, viene abbandonato per una uscita nella natura, la quale ridiventa a questo punto, l’ altro e l’ altrove della città” (p. 141). Per Jean-Jacques botanico promenaur, la natura tutta si fa giardino da contemplare. Tale immaginativo espediente, l’aprirsi a un’estesa rêverie botanique nel paesaggio come giardino, che certo ha un valore anche terapeutico, Jean-Jacques lo inscrive entro una dimensione anzitutto estetica, quasi dimentico di etiche risposte ai mali del vivere (sociale). Il promenaur solitario, nella natura percepita come giardino, cercherà una “‘ricreazione degli occhi’ che nella sfortuna ‘repose, amuse, distrait l’esprit et suspend le sentiment des peines‘” (p. 148).
Nella seconda parte di Etica ed estetica del giardino si cerca d’integrare una discutibile tesi di Schlegel sulla poetica dei giardini. Nel suo Die Kunstlehre il critico tedesco aveva “sostenuto che l’arte dei giardini non sarebbe mai nata senza un precedente perfezionamento della pittura, e che, quindi, i veri maestri ed educatori dei giardini sono stati i pittori” (p. 191). Rivolgendo l’attenzione in particolare ai lavori di Hugo, Poe e Baudelaire, Cocco vuole piuttosto dimostrare che “spesso l’idea del giardino ha influenzato la pittura e le arti in genere” (ibid.); così i tre poeti scelti possono provare che “la ‘raccolta esteticità’ dei giardini [è spesso] servita da modello, da pre-testo, per definire” (p. 190) lo statuto e il sapere della (loro) poesia. Poe maestro della creazione fantastica, non sorprende, seppe inventare un universo che comprende la leggendaria opera di un landscape gardener, l’altrettanto fittizio Mr. Ellison. Incrinando il senso delle finzioni che per i philosophes illuministi dovevano servire da specchio al reale, Poe preferì raccontare, in due distinti novelle, la carriera del giovane Ellison, artista con buona dote, che scopre, a suo dire, l’arte delle arti come giardinaggio (su scala paesaggistica). Se con il Dominio di Arnheim si traccia, appunto, la biografia artistica di Ellison, nel Landor's Cottage, pendant al primo racconto, per dar prova della veracità della sua finzione, Poe immagina il resoconto di un incantato viaggiatore realmente arrivato nella naturale quanto inquietante coreografia creata (probabilmente) dallo stesso Ellison. È attraverso questo doppia finzione che lo scrittore americano riesce a trovare spazio entro la sua opera per riflettere sull’arte del landscape gardening. Però sul significato di questo gioco di finzioni che si intrecciano ci sentiamo di dissentire parzialmente dall’interpretazione di Cocco. Senza dubbio è vero che i due racconti sembrano sostenere che “l’arte vera non può essere [...] adaequatio al mondo circostante, né riproduzione pura e semplice di quanto è in natura […], bensì processo severo e rigoroso, che conduce oltre il mondo della sensibilità” (p. 204), suggerendo una architettura del paesaggio, che è “sublimazione della natura fisica” (ibid.). Quindi può sembrare giusto concludere che in Poe la “configurazione di giardini diventa alla fine, metafora di un’arte che non è mimesis – riflesso sbiadito della natura – ma artificio, […] inventio, dunque fictio, arabesco che nel proprio fondo, custodisce-disvela una tensione erratica […] verso la verità, l’armonia, la bellezza” (p. 208). Però, interpretato in tal modo, forse sfugge la sottile ironia di Poe. Leggendo le opere di un demiurgo (quasi) onnipotente che con grande “artificiosa regolarità rende i paesaggi […] innaturali e, perciò mostruosi” (p. 207), viene da chiedersi se nelle intenzioni dell’autore che le ha scritte ci fosse primariamente la volontà di farci desiderare tali spazi immaginifici o piuttosto, al contrario, si giocasse proprio sull’attrazione-repulsione verso queste artificiosissime creazioni. Diavolerie mostruose che, non senza ironia, ci attraggono e ci respingono mettendo in questione di fatto ciò che è vero e ciò che vorremmo (come vero). Poe beffardo provocateur, in grado di rimettere in gioco la sottile demarcazione che istituiamo fra naturale e artificiale, vero e fittizio, bello e grottesco, non solo quindi indiscutibile maestro della fantasia soprannaturale come lo vedeva l’estetismo di Baudelaire e di cui Cocco si fa interprete. Sulla lettura di Baudelaire si conclude Etica ed estetica del giardino. Il poeta parigino è qui simbolo della morte dell’ideale del giardino presente nei pensatori illuministi. Il cantore dei fiori del male non può accontentarsi di una mistificatoria elegia del presente, poiché, come lui stesso dichiara, aspira a un’Ars poetica in cui “l’orribile, espresso artisticamente, divenga bellezza, e [in cui] il dolore ritmato e cadenzato riempia lo spirito d’una gioia calma” (p. 218). Poesia che non vuole rappresentare il vero come bello, ma semmai dire la verità sul come stanno le cose, anche se questo significa anzitutto venire a patti con l’orrore del presente. Tale grave compito può passare anche attraverso la negazione della natura e delle sue romantiche bellezze. “Lontani discendenti del passeggiatore solitario descritto da Rousseau”, i poeti del moderno come Baudelaire o come Leopardi, a cui forse il poeta dei Fleurs s’ispira, non temono di ammettere che “viaggiatori labirintici, hanno bandito dai loro itinerari quotidiani la natura” (p. 221). Piaccia o non piaccia, essa non abita più i luoghi che essi abitano. È oramai l’invadente città la loro unica, vera seconda natura. Per questo, senza imbellettarne il cadavere, il poeta moderno deve tutt’al più scegliere di onorare quei i luoghi dove si stanno svolgendo le dignitose esequie alla estinta natura. Solo in quest’ottica si può cogliere come appare l’idea di giardino a Baudelaire: parco pubblico, urbano monumento funebre alla libera natura. “La città accoglie in sé il giardino-natura, ma più che mantenerlo nella sua propria diversità, lo nega, lo riduce a ‘spazio metropolitano’. Ne infetta e corrompe l’originaria idea. Ne distrugge l’alterità” (p. 223). Quindi solo la realtà, ai più impercettibile, di ciò che è diventato l’ideale del giardino, può entrare nella disincantata coscienza del poeta, solo in tal senso il giardino deve essere ritratto, ora che non ha proprio più nulla nemmeno del naturalistico.
Indice
Introduzione
ETICA E FILOSOFIA DEL GIARDINO NELL’ETÀ DEI LUMI
I. La filosofia del Genius Loci – I moralisti di Shaftesbury
II. Il viale dei castagni – Diderot e la “philosophie locale”
III. Rousseau e il giardino di Julie
IV. Voltaire e il giardino della filosofia
I GIARDINI E LA POESIA
V. Le solitudini di Versailles – Hugo e Poe
VI. Il passo del flâneur – I giardini pubblici e il sapere della poesia
Indice dei nomi
L'autore
Enzo Cocco è docente di Etica sociale e dell'ambiente presso l’Università di Salerno. Interessato alle valenze filosofiche di alcune metafore della cultura europea, ha studiato il viaggio come "figura" di possibili percorsi della ragione, e su questo argomento ha pubblicato alcuni saggi e i volumi, tra i quali Figure di viaggio e crisi del soggetto (Nuove Edizioni Tempi Moderni, 1990), Viaggio e metafisica (Guerini e Associati, 1996). Ha dedicato studi anche alla storia del giardino, inteso come natura modellata dall’uomo e specchio di una cultura, di una visione del mondo. Su questo tema ha pubblicato vari articoli, nei quali giardino e paesaggio appaiono "luoghi dell’estetica e dell’etica". Per la collana "Kepos" (Guerini e Associati) ha curato, tradotto e introdotto il volume di Rousseau Lettere sulla botanica (1994).
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