Recensione di Raffaela Strina – 13/10/2005
Filosofia politica
Polifonica. Prendendo a prestito un termine del linguaggio musicale, così si potrebbe definire la raccolta di saggi che Simona Forti ha curato sul tema del totalitarismo, e non solo per la pluralità di voci a confronto, ma per la varietà di categorie, approcci analitici, obiettivi. Composti in epoche differenti (dagli anni ’40 ai giorni d’oggi), da autori appartenenti a indirizzi e con interessi diversi, i dieci saggi offrono una panoramica delle modulazioni “filosofiche” che il tema del totalitarismo ha subìto nel tempo, tracciando un percorso in evoluzione: dal totalitarismo come fenomeno politico situato in una precisa costellazione storica, al rinvenimento delle caratteristiche fondamentali di un evento che riplasma la nostra percezione del passato, al contempo influendo sui nostri orientamenti al futuro. Si tratta di un’indagine specificamente filosofica, che, a differenza dei tanti approcci storico–politici, è rivolta all’elaborazione di una categoria concettuale inserita in un orizzonte più ampio, rispetto alla particolarità dell’esperienza nazifascista e comunista, un orizzonte che spazia dall’etica all’antropologia, dall’epistemologia all’onotologia.
A un primo livello analitico risulta centrale il rapporto tra concreti regimi totalitari e istituzioni liberal–democratiche, nella cui insufficienza è in prima istanza rintracciata l’origine del totalitarismo. Edmund Aron nel 1944 identifica la peculiarità dei regimi totalitari nel fatto di rappresentare per un’umanità senza dei e senza miti, tanto incredula di fronte al messaggio religioso tradizionale quanto scettica nei confronti delle istituzioni umane, una forma di religione secolarizzata che promette una redenzione intramondana, realizzabile non in un aldilà futuro ma costruendo un’umanità rinnovata. L’avvento di tale deformata religione senza dio è il sintomo di una malattia che affonda le sue radici nella crisi di legittimazione dei principi politico–morali delle democrazie e nella conseguente stanchezza nei confronti dell’anonimato delle loro istituzioni.
A venticinque anni di distanza, Claude Lefort ricollegherà analogamente il fenomeno totalitario alle pecche della democrazia. La società tradizionale sino alla Rivoluzione francese si autorappresentava come un’unità organica identificantesi col corpo del re, immagine del corpo di Cristo. Con l’avvento della democrazia e la “distruzione” simbolica del corpo del re, si assiste alla frammentazione del corpo sociale nelle singole unità individuali, e al venir meno dell’identificazione di stato e società. La democrazia è, infatti, il regno del popolo sovrano, ma anche della “radicale indeterminatezza” (p. 122) di una società priva di corpo. Il totalitarismo risponde alla vertigine di fronte a tale frammentarietà, re–istituendo l’unità sociale perduta; ma il corpo sociale totalitario, campo di tensione tra una prospettiva organicistica (la società come Popolo Uno, identificato col partito e col suo leader) e meccanicista (la società come immenso automa, composto da microorganizzazioni che svolgono la funzione di ingranaggi per il funzionamento del tutto), ma comunque sempre razzista (l’identificazione del corpo avviene mediante la continua produzione, esclusione ed espulsione del “nemico”), risulta un capovolgimento deformato del corpo sociale–regale. L’autoreferenzialità di un sistema che non può guardare altro che a sé, al partito, al leader, rende assoluto quel potere che nella figura del re era ancora medium di un potere superiore.
In Foucault non si tratta più di confrontare democrazie liberali e regimi, bensì di inserire il totalitarismo nell’evoluzione moderna del potere. Tra fine ‘700 e ‘800 si affianca al modello classico di potere sovrano come diritto di vita e di morte sui sudditi, mediante un controllo disciplinare sul corpo individuale, una seconda modalità del potere, che prende in gestione la vita dell’uomo in quanto specie: si tratta del bio–potere, che regola scientificamente macrofenomeni biologici nella loro variazione statistica nel tempo (natalità, mortalità, malattie ecc.), concretizzandosi nel potere di far vivere o di lasciar morire. Questa sovrapposizione produce quella “società di normalizzazione” (p. 94) che racchiude in nuce la radice di ogni regime totalitario: l’espansione del potere a “tutta la superficie che si estende dall’organico al biologico, dal corpo alla popolazione” (ibid.). Il totalitarismo, come mostra l’esempio del nazismo, sviluppa al massimo sia la disciplina del corpo che il bio–potere regolatore; si arroga al massimo grado il diritto di vita e morte sul singolo e pretende di gestire biologicamente l’umanità. Ma tale sviluppo finisce col rivelare l’implicita tensione e la dialettica conflittuale tra i due principi: uno stato che si pone l’obiettivo di preservare la vita della specie risulta in contrasto con il diritto rivendicato di uccidere. Tale conflitto può essere risolto solo ricorrendo all’espediente ideologico razziale che, stabilendo una frattura gerarchizzante nel continuum biologico tra ciò che biologicamente è o non è adatto a vivere, rappresenta la condizione di coesistenza di bio–potere e sovranità. La gerarchia razziale giustifica la messa a morte del biologicamente inadatto (come epurazione perfezionatrice della razza), come di chiunque altro, perché anche l’eletto biologicamente dovrà provare la sua perfezione proprio nella supremazia bellica, in una guerra anzitutto razziale.
L’allargamento della prospettiva in Foucault comporta la correlazione tra totalitarismo ed evoluzione moderna del potere e al contempo un nuovo punto di vista sull’ideologia, ben più che semplice secolarizzazione della metafisica religiosa o instrumentumregni. La centralità dell’ideologia e la sua novità è sottolineata nelle pagine harendtiane, dove l’essenza del totalitarismo viene rintracciato nel nuovo principio legittimante che ne sta a fondamento: la legge di movimento universale della Natura (nazismo) o della Storia (comunismo), fine ultimo a cui va subordinato l’intero arco dell’esperire umano. Lo strumento attraverso cui tale principio può tradursi in realtà è il terrore che, sostituendosi alla legge, distrugge lo spazio degli individui comprimendoli in un’unità totale, al contempo eliminando i “nemici” che si frappongono allo scatenamento illimitato delle forze storico–naturali: la dicotomia amico–nemico, vittima–carnefice, astratta rispetto al singolo individuo e al suo comportamento, sarà il contrassegno del terrore totalitario. Ma perché possa affermarsi una forma di organizzazione politica incentrata sull’accettazione del processo universale storico–naturale da cui discende un’umanità divisa in vittime e carnefici occorre una preparazione ideologica, che educhi al nuovo supremo principio di legalità. L’ideologia non è un insieme di contenuti imposti alla coscienza, ma piuttosto una forma mentale che struttura i contenuti in modo da imporli alle coscienze, come realtà. L’ideologia è la logica di un’idea identificata con il corso effettivo degli eventi. Essa cerca di spiegare l’accadere mediante un processo deduttivo che da una singola premessa deriva tutta un’infinita serie di conseguenze, in modo assolutamente incontrovertibile e avulso dall’esperienza. È questa “tirannia della logicità” che asfissia l’autonomia e la capacità critica e innovativa del pensiero a costituire l’anima dell’ideologia, di cui la stessa tradizione filosofica è corresponsabile, che si tratti della logica deduttiva, che da Aristotele a Cartesio è posta a fondamento del ragionamento certo, o della triade hegeliana che finisce sempre per identificare reale e razionale.
La centralità che nell’analisi harendtiana assume l’ideologia schiude a una vera e propria “metafisica” del totalitarismo, radicata nell’orizzonte filosofico moderno; ma l’ideologia è un tema che rieccheggia nelle pagine dei vari autori, evidenziandone le implicazioni etiche, esistenziali, epistemologiche, addirittura ontologiche. Così secondo Kolakowski l’ideologia, sorta da una necessità politica di legittimazione, comporta una vera e propria rivoluzione epistemologica, consistente nella trasformazione radicale della menzogna in verità. Tale mistificazione può reggersi solo perché la distinzione classica tra vero e falso è abolita in nome dell’unico criterio di verità: la giusta causa politica. Il risultato di tale epistemologia è la “sterilizzazione mentale e morale della società” (p. 135), cioè la neutralizzazione di ogni potenziale dissidente, mediante l’addestramento delle coscienze al politically correct, la manipolazione della memoria e l’espropriazione dell’identità.
Proprio su tali conseguenze esistenziali s’incentra l’analisi critica di Havel, che mostra un volto meno familiare, ma non per questo meno terribile del totalitarismo: la situazione dei paesi dell’ex Unione Sovietica nel momento di stabilizzazione del regime. Qui l’esercizio del potere non si serve più dello sterminio e dei lager, ma si esercita mediante “strumenti di manipolazione talmente raffinati, complessi ed efficaci da non aver bisogno di assassini o assassinati” (p. 145). Si tratta essenzialmente del controllo e dell’organizzazione del tempo, non solo al livello storico della manipolazione della memoria collettiva, ma anche e soprattutto a livello individuale, nel senso della sottrazione all’individuo della possibilità di una propria “storia”, come campo di potenzialità e creatività. L’irripetibilità delle storie dei singoli individui viene annullata e viene attuata senza residui quella criminalizzazione della differenza, vera essenza del totalitario universo senza storia e senza storie.
Ma le enormi implicazioni del potere totalitario e dell’ideologia appaiono nelle elaborate pagine che Derrida dedica a delineare una storia della menzogna. Se può risultare abbastanza facile distinguere tra vero e falso, non lo è altrettanto definire le varie forme di pseudos, poiché l’ambito del non–vero comprende un ventaglio amplissimo di forme che vanno dall’errore all’autoinganno, dal travisamento alle mezze bugie di opportunità politica. La conclusione tratta è che “è impossibile, per ragioni strutturali, provare davvero che qualcuno ha mentito, anche se si riesce a provare che quel qualcuno non ha detto il vero” (p. 192). Da ciò ne consegue una concettualizzazione della menzogna come forma di relazione intenzionale, rivolta a un altro per indurlo a credere qualcosa. Ora è proprio tale intenzionalità a essere di difficile determinazione, certo a livello di semplice bugia (come si fa infatti a dimostrare non solo la non-verità di un’asserzione, ma l’intenzionalità con cui è prodotta tale non-verità?), ma soprattutto nel caso di una verità/falsità storica o politica, di un’ideologia, che pure rappresenta l’apoteosi del falso. Derrida propone di interpretare la menzogna totalitaria a partire dalla sua fondamentale performatività. Le bugie dei regimi totalitari, infatti, non si propongono soltanto di ingannare gli altri, ma di agire, riplasmando la realtà stessa, ridefinendone i confini. Il totalitarismo prima dunque di essere un regime politico è la forma di un pensiero che si fonda su “atti di violenza performativa” (p. 209). Il problema del totalitarismo raggiunge qui la dimensione più radicale, costringendo a fare i conti con le conseguenze che la violenza performativa, affermatasi nella politica totalitaria ha prodotto nel mondo odierno, evolvendosi come potere mediatico dell’informazione di produrre verità agendo con le parole.
Indice
Introduzione di Simona Forti
Raymond Aron L’avvenire delle religioni secolari
Jan Patočka L’ideologia e la vita nell’idea
Hannah Arendt Ideologia e terrore
Emmanuel Lévinas Il senza nome
Michel Foucault Bio-potere e totalitarismo
Claude Lefort L’immagine del corpo e il totalitarismo
Leszek Kolakowski Il totalitarismo e la virtù della menzogna
Václav Havel Storie e totalitarismo
Reiner Schürmann Le condizioni del male
Jacques Derrida Storia della menzogna: prolegomeni
Jean-Luc Nancy Tutto è politico?
La curatrice
Simona Forti, docente di Storia della filosofia politica all’Università del Piemonte Orientale, si occupa di filosofia politica contemporanea con particolare riferimento all’opera di Hannah Arendt e al dibattito contemporaneo sulla bio–politica e il bio–potere. Fa parte del Comitato di redazione di “Filosofia politica” e collabora a numerose riviste tra cui “Teoria politica”, “Il Mulino”, “L’Indice dei libri”, “MicroMega”, “Iride”. È nel comitato di redazione della rivista internazionale “Arendt’s Newsletter”. Tra le sue recenti pubblicazioni, Il totalitarismo (Roma-Bari 2001). Ha curato e introdotto i due volumi Archivio Arendt 1 e Archivio Arendt 2 (Milano 2001 e 2003).
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