Recensione di Lucia Ziglioli – 20/12/2005
Filosofia teoretica (gnoseologia, ontologia)
L’atto del giudicare ha assunto dall’antichità sino ad oggi diverse significazioni: il giudizio è un discorso soggetto a verificabilità, oppure è l’atto dell’assumere qualcosa per vero e la capacità di giudicare è la capacità di discernere il “vero” dal “falso”, o ancora la capacità di sintesi tra diverse rappresentazioni. In tutti questi significati è possibile vedere quanto la teoria del giudizio sia strettamente legata alla logica, all’epistemologia e anche all’ontologia.
Altrettanto onerose sono le implicazioni di significato della forma del giudizio: “S è P”. Questa semplicissima formula racchiude problematiche fondamentali: vi sono due ‘diversi’ (non importa ora se siano essi essenze, enti, o solo nomi) che sono posti in rapporto dalla copula “è”. Si tratta, pertanto, del problema della sintesi di un molteplice, questione che rimanda al rapporto tra identità e diversità e al problema del tempo come eternità e divenire.
Il fatto che alla forma e al significato del giudizio siano correlate tutte queste tematiche, così essenziali in una qualsiasi visione del mondo, spiega perché dall’antichità sino ad oggi il problema della teoria del giudizio abbia svolto un ruolo sempre centrale nella riflessione filosofica: “Si potrebbe dire con diritto che ogni ontologia, ogni metafisica, ogni teoria della conoscenza trova il suo senso più profondo in una particolare concezione del giudizio” [p. 9]. Il che vale anche all’inverso: non è possibile comprendere sino in fondo una qualsiasi teoria del giudizio senza ricercare le ragioni logiche, epistemologiche ed ontologiche che la sorreggono.
Chiurazzi ci guida alla comprensione della rilevanza della teoria del giudizio attraverso cinque pensieri fondamentali della storia della filosofia: Aristotele, Kant, Hegel, Husserl e Heidegger. L’analisi è costretta, dalla necessità stessa del concetto di giudizio, ad andare ogni volta nel cuore delle filosofie incontrate, a scavare in profondità per svelare che le ragioni che sottendono ad ogni teoria del giudizio sono le più intime ragioni dell’intero sistema di pensiero considerato.
I – Aristotele
Le categorie aristoteliche delineano le determinazioni dell’ente, ciò che all’ente è imputabile e quindi ciò che di esso è predicabile. Si vedrà che quello che si svela grazie all’analisi categoriale è più che una teoria della predicazione, è la stessa struttura ontologica del mondo aristotelico.
Aristotele distingue tra due specie di enti: quelli che in una frase possono fungere sia da soggetto sia da predicato e quelli che, non potendo venir predicati di nulla, sono solo soggetti. Gli elementi di questo secondo gruppo costituiscono il riferimento ultimo della predicazione senza il quale nessuna predicazione sarebbe possibile; sono detti da Aristotele “sostanze prime”. Di esse si può affermare che “esistono” (hypárchein) nelle sostanze seconde, mentre le sostanze seconde “sono” (eînai) nelle sostanze prime. La distinzione terminologica segue una fondamentale distinzione ontologica: la prima relazione (hypárchein) è di tipo sostanziale, mentre la seconda (eînai) è di tipo accidentale. Ciò a significare che le sostanze seconde sono parti delle prime, appartengono ad esse. Si coglie così il primato ontologico delle sostanze prime, primato che rimanda anche ad una connotazione temporale: la sostanza prima “è già” nella sostanza seconda, vi è da sempre. Il verbo hypárchein, che a differenza della méthexis platonica indica una relazione intrinsecamente temporale, è il “dare inizio a”. L’hypárchein introduce una dissimetria tra il soggetto e il predicato: una precedenza temporale e, quindi, logica ed ontologica del soggetto rispetto al predicato.
Questa distinzione tra due tipi di essere implica che la verità sia caratterizzata temporalmente, la teoria aristotelica del giudizio necessita, quale condizione di verità, della significazione temporale: solo dove vi è sintesi (per Aristotele nella predicazione verbale) vi è enunciazione; il predicato nominale, invece, a causa dell’eternità del suo significato, non è passibile di verificazione. Tempo, essere e verità sono legati nella struttura preposizionale così come lo sono nella struttura metafisica aristotelica.
II – Kant
Kant si interroga sulla teoria del giudizio perché è tramite di esso che si esprime la conoscenza e, quindi, secondo il principio di oggettività kantiano, è tramite esso che si indaga la possibilità stessa degli oggetti dell’esperienza. L’interrogativo di partenza kantiano riguarda la formazione del giudizio: la possibilità ovvero della sintesi a priori.
Mentre Aristotele era volto a definire i possibili modi dell’ente, per Kant si tratta, invece, di definire i modi della sintesi di soggetto e predicato, Kant ricerca la possibilità di conformare i dati fenomenici all’universalità delle leggi d’esperienza. La proposizione non è più specchio dell’essere, così come era per Aristotele, ma è la stessa forma preposizionale (la forma della sintesi) a definire l’oggetto; l’unità dell’esperienza è l’unità del soggetto che la pensa, “l’unità trascendentale dell’autocoscienza”.
Nel giudizio è la copula a rappresentare la sintesi, la relazione al trascendentale. La copula costituisce l’asserzione grazie al suo valore oggettivo, esprime una relazione necessaria tra rappresentazioni volta a riportare queste, nella loro molteplicità, all’unità trascendentale dell’appercezione. Il soggetto del giudizio non ha più alcuna precedenza temporale (logica ed ontologica) rispetto al predicato, ora soggetto e predicato, se presi isolatamente, sono abbassati ad elementi contingenti della percezione. È il nesso di essi, la copula, che li forma alla necessità dell’esperienza. Chiurazzi rileva come, tale ruolo affidato alla funzione sintetica della copula, implichi ancora una volta il problema del tempo, questione che, però, Kant sembra non aver voluto considerare.
III – Hegel
Aristotele e Kant, nella differenza delle loro rispettive dottrine del giudizio, consideravano entrambi il giudizio come portatore di verità. Hegel si oppone in questo a tutta la tradizione precedente: il giudizio non può essere il luogo della verità perché non è il luogo della sintesi, ma, piuttosto, della divisione cristallizzata. Il termine tedesco per “giudizio” (Urteil) significa appunto “divisione originaria”, divisione di soggetto e predicato. La formula “S è P” fissa il soggetto S nella sua separatezza dal predicato P, la copula non è l’elemento unificante, ma il motivo del contrasto.
Com’è possibile allora esprimere il sapere vero? Per rispondere a tale domanda occorre innanzi tutto capire cosa sia per Hegel il vero sapere. Il sapere nella sua verità è lo stesso dell’essere, meglio, è il movimento stesso della realtà; pertanto il sapere non è esprimibile in una formula rigida, ma necessita di apparire nel suo movimento oggettivo. Il sillogismo, quindi, e non il giudizio, è ciò che mostra il vero perché in grado di rendere il movimento del sapere. Nel sillogismo, grazie al medio, il soggetto riceve anche la determinazione del predicato (A è B; C è A; dunque C è B); la presupposta unità di soggetto e predicato che si intravedeva nel giudizio, è nel sillogismo posta pienamente, è l’unità dinamica che lascia sussistere i due diversi.
La proposizione non è adatta ad esprimere il vero perché questo la distrugge: il contenuto della proposizione, l’unità di soggetto e predicato, è in contraddizione con la forma di essa, S è P. La realizzazione della proposizione è il risultato del conflitto interno di forma e contenuto e del movimento dialettico del concetto che deve distruggersi nell’opposizione per mostrarsi e poter poi ritornare in se stesso. La proposizione che mostra la verità del concetto togliendosi è detta da Hegel proposizione speculativa, essa, non il giudizio, è il vero.
IV – Husserl
Husserl fa propria l’esigenza hegeliana di concepire l’elemento razionale come unità di soggettività ed oggettività. Questo elemento razionale, unità e fondamento dei due estremi, è pensato da Husserl come intenzionalità della coscienza: come, in altri termini, il movimento della coscienza verso il suo oggetto. L’intenzionalità tiene in correlazione i due estremi, ne costituisce un’identità ideale, il che consente a Husserl di riportare le formazioni oggettive alla sfera soggettiva in quanto suoi atti.
L’atto del giudicare non è riducibile al giudizio predicativo della logica tradizionale, ma è già l’operazione d’identificazione dell’oggetto, l’attività della produzione oggettiva, sulla quale è poi possibile fondare la predicazione. Husserl pensa il giudizio come adeguazione di soggetto ed oggetto. Come per Kant, lo studio delle forme del giudizio (la logica) ha un’intenzione epistemologica che diviene necessariamente ontologica in quanto studio della possibilità degli oggetti; per questo Husserl rivendica la necessità per la logica formale di una fondazione trascendentale.
L’intenzionalità della coscienza è un tendere all’oggetto che, però, si dà solo parzialmente, la perfetta adeguazione di soggetto ed oggetto non è mai raggiunta nella progressione del pensiero, essa si colloca solo fuori dal tempo come intuizione immediata. Al giudizio sembra così essere preclusa ogni possibilità di essere completamente adeguato e probabilmente, a differenza di Aristotele ed Hegel, proprio a causa della sua connotazione temporale.
V – Heidegger
Heidegger muove verso un’interrogazione della logica nella sua originarietà, verso lo scuotimento della logica dalla sua formalizzazione per riportarla al problema ontologico: la logica deve affrontare il problema della verità.
La verità o falsità di un enunciato non è per Heidegger un evento reale, ma si fonda sulla validità ideale del pensiero come proposizione, sulla sua legalità. Come per Husserl, la verità è fuori dal tempo, data la sua idealità. Oggetto dell’indagine filosofica è, quindi, quello di una comunicazione tra ambito ideale e ambito reale: si torna a Platone e al problema della méthexis.
Heidegger individua la relazione dell’Esserci al mondo con l’atteggiamento del “prendere interesse”, della “cura”. Ogni possibile atteggiamento dell’Esserci presuppone una qualche intenzionalità, un interesse e, quindi, la cura. Ciò implica la necessità che l’ente sia già sempre aperto prima di qualsiasi atteggiamento dell’Esserci. La verità ci si mostra essere proprio l’orizzonte di senso anteriormente aperto, in essa l’Esserci è libero di rapportarsi all’ente secondo qualsiasi modalità di atteggiamento. Un giudizio vero non rimanda, pertanto, ad un unico oggetto, ad una singola relazione, ma indica un insieme di comportamenti possibili.
La verità è la cooriginarietà trascendentale di soggetto ed oggetto, essa precede il discorso temporalmente e come sua condizione di possibilità, la verità è l’essere-nel-mondo. Dato che la condizione del senso è caratterizzata come “essere prima”, come “antecedenza”, ecco che essa non è altro che il tempo: il tempo torna ad essere la condizione della verità.
Altrettanto onerose sono le implicazioni di significato della forma del giudizio: “S è P”. Questa semplicissima formula racchiude problematiche fondamentali: vi sono due ‘diversi’ (non importa ora se siano essi essenze, enti, o solo nomi) che sono posti in rapporto dalla copula “è”. Si tratta, pertanto, del problema della sintesi di un molteplice, questione che rimanda al rapporto tra identità e diversità e al problema del tempo come eternità e divenire.
Il fatto che alla forma e al significato del giudizio siano correlate tutte queste tematiche, così essenziali in una qualsiasi visione del mondo, spiega perché dall’antichità sino ad oggi il problema della teoria del giudizio abbia svolto un ruolo sempre centrale nella riflessione filosofica: “Si potrebbe dire con diritto che ogni ontologia, ogni metafisica, ogni teoria della conoscenza trova il suo senso più profondo in una particolare concezione del giudizio” [p. 9]. Il che vale anche all’inverso: non è possibile comprendere sino in fondo una qualsiasi teoria del giudizio senza ricercare le ragioni logiche, epistemologiche ed ontologiche che la sorreggono.
Chiurazzi ci guida alla comprensione della rilevanza della teoria del giudizio attraverso cinque pensieri fondamentali della storia della filosofia: Aristotele, Kant, Hegel, Husserl e Heidegger. L’analisi è costretta, dalla necessità stessa del concetto di giudizio, ad andare ogni volta nel cuore delle filosofie incontrate, a scavare in profondità per svelare che le ragioni che sottendono ad ogni teoria del giudizio sono le più intime ragioni dell’intero sistema di pensiero considerato.
I – Aristotele
Le categorie aristoteliche delineano le determinazioni dell’ente, ciò che all’ente è imputabile e quindi ciò che di esso è predicabile. Si vedrà che quello che si svela grazie all’analisi categoriale è più che una teoria della predicazione, è la stessa struttura ontologica del mondo aristotelico.
Aristotele distingue tra due specie di enti: quelli che in una frase possono fungere sia da soggetto sia da predicato e quelli che, non potendo venir predicati di nulla, sono solo soggetti. Gli elementi di questo secondo gruppo costituiscono il riferimento ultimo della predicazione senza il quale nessuna predicazione sarebbe possibile; sono detti da Aristotele “sostanze prime”. Di esse si può affermare che “esistono” (hypárchein) nelle sostanze seconde, mentre le sostanze seconde “sono” (eînai) nelle sostanze prime. La distinzione terminologica segue una fondamentale distinzione ontologica: la prima relazione (hypárchein) è di tipo sostanziale, mentre la seconda (eînai) è di tipo accidentale. Ciò a significare che le sostanze seconde sono parti delle prime, appartengono ad esse. Si coglie così il primato ontologico delle sostanze prime, primato che rimanda anche ad una connotazione temporale: la sostanza prima “è già” nella sostanza seconda, vi è da sempre. Il verbo hypárchein, che a differenza della méthexis platonica indica una relazione intrinsecamente temporale, è il “dare inizio a”. L’hypárchein introduce una dissimetria tra il soggetto e il predicato: una precedenza temporale e, quindi, logica ed ontologica del soggetto rispetto al predicato.
Questa distinzione tra due tipi di essere implica che la verità sia caratterizzata temporalmente, la teoria aristotelica del giudizio necessita, quale condizione di verità, della significazione temporale: solo dove vi è sintesi (per Aristotele nella predicazione verbale) vi è enunciazione; il predicato nominale, invece, a causa dell’eternità del suo significato, non è passibile di verificazione. Tempo, essere e verità sono legati nella struttura preposizionale così come lo sono nella struttura metafisica aristotelica.
II – Kant
Kant si interroga sulla teoria del giudizio perché è tramite di esso che si esprime la conoscenza e, quindi, secondo il principio di oggettività kantiano, è tramite esso che si indaga la possibilità stessa degli oggetti dell’esperienza. L’interrogativo di partenza kantiano riguarda la formazione del giudizio: la possibilità ovvero della sintesi a priori.
Mentre Aristotele era volto a definire i possibili modi dell’ente, per Kant si tratta, invece, di definire i modi della sintesi di soggetto e predicato, Kant ricerca la possibilità di conformare i dati fenomenici all’universalità delle leggi d’esperienza. La proposizione non è più specchio dell’essere, così come era per Aristotele, ma è la stessa forma preposizionale (la forma della sintesi) a definire l’oggetto; l’unità dell’esperienza è l’unità del soggetto che la pensa, “l’unità trascendentale dell’autocoscienza”.
Nel giudizio è la copula a rappresentare la sintesi, la relazione al trascendentale. La copula costituisce l’asserzione grazie al suo valore oggettivo, esprime una relazione necessaria tra rappresentazioni volta a riportare queste, nella loro molteplicità, all’unità trascendentale dell’appercezione. Il soggetto del giudizio non ha più alcuna precedenza temporale (logica ed ontologica) rispetto al predicato, ora soggetto e predicato, se presi isolatamente, sono abbassati ad elementi contingenti della percezione. È il nesso di essi, la copula, che li forma alla necessità dell’esperienza. Chiurazzi rileva come, tale ruolo affidato alla funzione sintetica della copula, implichi ancora una volta il problema del tempo, questione che, però, Kant sembra non aver voluto considerare.
III – Hegel
Aristotele e Kant, nella differenza delle loro rispettive dottrine del giudizio, consideravano entrambi il giudizio come portatore di verità. Hegel si oppone in questo a tutta la tradizione precedente: il giudizio non può essere il luogo della verità perché non è il luogo della sintesi, ma, piuttosto, della divisione cristallizzata. Il termine tedesco per “giudizio” (Urteil) significa appunto “divisione originaria”, divisione di soggetto e predicato. La formula “S è P” fissa il soggetto S nella sua separatezza dal predicato P, la copula non è l’elemento unificante, ma il motivo del contrasto.
Com’è possibile allora esprimere il sapere vero? Per rispondere a tale domanda occorre innanzi tutto capire cosa sia per Hegel il vero sapere. Il sapere nella sua verità è lo stesso dell’essere, meglio, è il movimento stesso della realtà; pertanto il sapere non è esprimibile in una formula rigida, ma necessita di apparire nel suo movimento oggettivo. Il sillogismo, quindi, e non il giudizio, è ciò che mostra il vero perché in grado di rendere il movimento del sapere. Nel sillogismo, grazie al medio, il soggetto riceve anche la determinazione del predicato (A è B; C è A; dunque C è B); la presupposta unità di soggetto e predicato che si intravedeva nel giudizio, è nel sillogismo posta pienamente, è l’unità dinamica che lascia sussistere i due diversi.
La proposizione non è adatta ad esprimere il vero perché questo la distrugge: il contenuto della proposizione, l’unità di soggetto e predicato, è in contraddizione con la forma di essa, S è P. La realizzazione della proposizione è il risultato del conflitto interno di forma e contenuto e del movimento dialettico del concetto che deve distruggersi nell’opposizione per mostrarsi e poter poi ritornare in se stesso. La proposizione che mostra la verità del concetto togliendosi è detta da Hegel proposizione speculativa, essa, non il giudizio, è il vero.
IV – Husserl
Husserl fa propria l’esigenza hegeliana di concepire l’elemento razionale come unità di soggettività ed oggettività. Questo elemento razionale, unità e fondamento dei due estremi, è pensato da Husserl come intenzionalità della coscienza: come, in altri termini, il movimento della coscienza verso il suo oggetto. L’intenzionalità tiene in correlazione i due estremi, ne costituisce un’identità ideale, il che consente a Husserl di riportare le formazioni oggettive alla sfera soggettiva in quanto suoi atti.
L’atto del giudicare non è riducibile al giudizio predicativo della logica tradizionale, ma è già l’operazione d’identificazione dell’oggetto, l’attività della produzione oggettiva, sulla quale è poi possibile fondare la predicazione. Husserl pensa il giudizio come adeguazione di soggetto ed oggetto. Come per Kant, lo studio delle forme del giudizio (la logica) ha un’intenzione epistemologica che diviene necessariamente ontologica in quanto studio della possibilità degli oggetti; per questo Husserl rivendica la necessità per la logica formale di una fondazione trascendentale.
L’intenzionalità della coscienza è un tendere all’oggetto che, però, si dà solo parzialmente, la perfetta adeguazione di soggetto ed oggetto non è mai raggiunta nella progressione del pensiero, essa si colloca solo fuori dal tempo come intuizione immediata. Al giudizio sembra così essere preclusa ogni possibilità di essere completamente adeguato e probabilmente, a differenza di Aristotele ed Hegel, proprio a causa della sua connotazione temporale.
V – Heidegger
Heidegger muove verso un’interrogazione della logica nella sua originarietà, verso lo scuotimento della logica dalla sua formalizzazione per riportarla al problema ontologico: la logica deve affrontare il problema della verità.
La verità o falsità di un enunciato non è per Heidegger un evento reale, ma si fonda sulla validità ideale del pensiero come proposizione, sulla sua legalità. Come per Husserl, la verità è fuori dal tempo, data la sua idealità. Oggetto dell’indagine filosofica è, quindi, quello di una comunicazione tra ambito ideale e ambito reale: si torna a Platone e al problema della méthexis.
Heidegger individua la relazione dell’Esserci al mondo con l’atteggiamento del “prendere interesse”, della “cura”. Ogni possibile atteggiamento dell’Esserci presuppone una qualche intenzionalità, un interesse e, quindi, la cura. Ciò implica la necessità che l’ente sia già sempre aperto prima di qualsiasi atteggiamento dell’Esserci. La verità ci si mostra essere proprio l’orizzonte di senso anteriormente aperto, in essa l’Esserci è libero di rapportarsi all’ente secondo qualsiasi modalità di atteggiamento. Un giudizio vero non rimanda, pertanto, ad un unico oggetto, ad una singola relazione, ma indica un insieme di comportamenti possibili.
La verità è la cooriginarietà trascendentale di soggetto ed oggetto, essa precede il discorso temporalmente e come sua condizione di possibilità, la verità è l’essere-nel-mondo. Dato che la condizione del senso è caratterizzata come “essere prima”, come “antecedenza”, ecco che essa non è altro che il tempo: il tempo torna ad essere la condizione della verità.
Indice
Introduzione
CAPITOLO I. L’ANTECEDENZA DELLA SOSTANZA: ARISTOTELE
«Dirsi di un soggetto» ed «essere in un soggetto»
Sostanza prima e sostanze seconde
Come è possibile la verità
La con significazione temporale del verbo
Lo hypárchein come inesse: esistenza e identità
CAPITOLO II. L’A PRIORI DELLA SINTESI: KANT
Giudizi analitici e giudizi sintetici
Giudizi di percezione e giudizi di esperienza
La deduzione trascendentale
La rivoluzione copernicana
CAPITOLO III. LA VERITÀ DELL’INTERO: HEGEL
Il giudizio, punto di vista del finito
La copula: dal giudizio al sillogismo
Pensiero raziocinante e giudizio
La proposizione speculativa
CAPITOLO IV. LA BILATERALITÀ DEL GIUDIZIO: HUSSERL
La «fenomenologia della ragione»
Dalla logica formale alla logica trascendentale
Dal giudizio all’esperienza
Intenzione significante e riempimento di significato
La dinamica del senso
CAPITOLO VI. IL SENSO DELLA COPULA: HEIDEGGER
Logica formale e logica filosofica
La critica alla distinzione tra ideale e reale
Verità ed essere-nel-mondo
Il senso dell’essere come senso della copula
“In quanto” ermeneutica e “in quanto” apofantico
CAPITOLO VII. PRIMA DEL GIUDIZIO
L’inesse come esistere: Heidegger e l’a priori del tempo
L’antepredicativo: senso dell’essere o essere del senso?
L'autore
Gaetano Chiurazzi è ricercatore di Filosofia teoretica all’Università di Torino. È autore di quattro monografie: Scrittura e tecnica. Derrida e la metafisica (Rosenberg & Sellier, Torino 1992); Hegel, Heidegger e la grammatica dell’essere (Laterza, Roma-Bari 1996); Il postmoderno (Paravia, Torino 1997; II ediz. Bruno Mondadori, Milano 2002); Modalità ed esistenza (Trauben, Torino 2001), e di vari saggi pubblicati in riviste nazionali e internazionali.
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