lunedì 30 gennaio 2006

Agassi, Joseph, La filosofia e l'individuo. Come un filosofo della scienza vede la vita.

Roma, Di Renzo, 2005, pp. 92, € 10,00, ISBN 888323128-7.

Recensione di Francesco Crapanzano – 30/01/2006

Filosofia, Società, Scienza, Politica

In quest'epoca di 'specialismi' e ultra-settorializzazioni non è facile imbattersi in un filosofo che, conosciuto per i suoi contributi di filosofia e storiografia della scienza, affronta una serie di argomenti e questioni apparentemente lontani dalla sua attività di ricerca.
Mi riferisco a Joseph Agassi, il quale, in questo recente volumetto pubblicato presso l'editore Di Renzo nella collana "I Dialoghi", si presenta nella veste di filosofo dell'educazione e politologo, oltre che, naturalmente, di filosofo della scienza.
Leggendo le pagine si scopre che l'autore è cresciuto in Palestina, all'interno di un ambiente familiare con qualche problema d'identificazione politico-religiosa e in cui si è consumata la tragedia della morte del fratello maggiore (cfr. p. 16).
Laureatosi "nonostante la [sua] preparazione piuttosto scarsa" (p. 16, cfr. pure p. 18), aveva già conosciuto i dilemmi e contrasti nei quali lo Stato d'Israele si dibatteva a cavallo del 1950; fu allora che il paese nacque sulle terre in parte requisite ai palestinesi.
Sposatosi con Judith, nipote del noto filosofo Martin Buber, Agassi decide di emigrare con lei all'estero per proseguire gli studi. Non avendo risorse economiche sufficienti per vivere negli Stati Uniti come desiderava, va a risiedere in Inghilterra, dove fa l'incontro forse più importante della sua vita, quello con Karl Popper (cfr. pp. 18-19).
Dopo queste note autobiografiche, si snoda una parte dell'esposizione più congeniale ad Agassi, ma pure quella in cui si scopre l'eterogeneità del suo percorso filosofico rispetto a quanto normalmente si sappia.
Agassi - si diceva – conosce Popper e ne diviene prima allievo e poi collega (cfr. p. 20). Dal 1960 sente la necessità di allontanarsene per seguire un proprio percorso teoretico; incontra i più grandi filosofi della scienza contemporanei (Kuhn, Lakatos, Feyerabend, Bunge ecc.) e conquista il distacco e l'indipendenza critica necessari a valutare il maestro nei suoi pregi e nelle sue (poche) debolezze filosofiche. Inquadra giustamente il rapporto di "odio-amore" che quest'ultimo ebbe col circolo di Vienna, "più di odio che di amore" (p. 22); ha parole positive sul falsificazionismo in generale e crede che le idee di Popper sul nucleo teorico della dinamica della scoperta scientifica siano state spesso travisate o trascurate per soffermarsi esclusivamente sull'aspetto demarcazionista del suo impianto filosofico (cfr. pp. 23-24). Agassi fa qualche accenno all'interlocutore cui ci si dovrebbe rivolgere – a suo avviso – per definire il contributo di Popper, Wittgenstein (i riferimenti sembrano considerare il Wittgenstein del Tractatus), e chiude il discorso sul Popper filosofo della scienza per spendere qualche parola sull'aspetto socio-politico del pensiero del filosofo di origine austriaca. 
Si legge, favorevolmente sorpresi, di una sorta di Popper 'storicista', il cui approccio ai problemi storici giunge esplicitamente ad una non-scientificità della storia. Tralascia di ricordare, Agassi, la crociata che Popper fece contro lo storicismo, per errore identificato con la filosofia della storia.
La sezione intitolata Che cos'è la filosofia della scienza? non soddisfa, forse, le aspettative di una risposta definitoria, ammesso che ciò sia possibile; presenta, invece, diverse idee dello stesso Agassi, più o meno ortodosse: "Non è la scienza applicata – scrive - a produrre avanzamenti scientifici" (p. 27), e più avanti, "Oggi la maggior parte delle molte migliaia di persone impegnate nella ricerca sono impegnate in piccoli progetti, quelli che Thomas Kuhn chiamava puzzle" (p. 28).
Qualche riserva ispira il giudizio su Kant e Hume, chiamati sempre in causa dai più su problemi epistemologici, li reputa marginali al loro tempo, anche se, ammette, "Kant fu eccezionale rispetto al suo ambiente" (p. 30).
In generale, Agassi contrappone i filosofi della scienza contemporanei a quelli irrazionalisti (cfr. p. 31), i primi ciecamente orientati allo studio delle implicazioni tecnologiche, i secondi genericamente poco stimati. Esistono, poi, filosofi che non sanno di scienza e scienziati che rifiutano la filosofia; entrambe le categorie, ovviamente, non vengono apprezzate. Salva, da questa cecità culturale, Karl Popper, il quale è fra quei pochi "che hanno offerto un contributo duraturo alla filosofia" (p. 35).
Salvare Russell, Popper, Quine, Bunge dalla generale svalutazione in cui colloca i filosofi della scienza del Novecento è scelta più che lecita; tuttavia, resta qualche giudizio ingenuo e ingeneroso su Carnap, Reichenbach e soprattutto su Wittgenstein: "Erano, nel migliore dei casi, dei bravi insegnanti", (p. 35), e "Nessuno di loro ha dato un contributo tale alla filosofia della scienza che sia degno di essere ricordato. […] Wittgenstein aveva ben poco da dire" (p. 36).
Il volume presenta poi una parte poco conosciuta, e perciò più interessante, delle riflessioni di Agassi, quelle sull'educazione. 
Come nelle pagine precedenti, non si trovano mezzi termini: L'Università non è, né è mai stata, catalizzatore di grandi rivoluzioni scientifiche o culturali; non è generalmente aperta a tutti e "inganna gli studenti, promettendo loro una preparazione reale e [illudendoli] che potranno entrare a far parte di una élite" (pp. 38-39).
Il discorso di Agassi è pieno di giudizi, affermazioni, soluzioni riguardo i problemi formativi e accademici. Non è qui che si può valutarne la bontà; del resto pure Dario Antiseri, nella Prefazione, avverte di non sapere "quanto le proposte per un'immediata riforma avanzate da Agassi potrebbero configurarsi come una buona terapia per i grossi mali che affliggono […] il nostro sistema educativo […]; tuttavia, i suoi consigli didattici […] paiono davvero eccellenti" (p. 10).
Sarebbe interessante osservare cosa succederebbe se il "sistema [prescindesse] dal curriculum dello studente", se quest'ultimo potesse "rinascere" al momento dell'iscrizione (cfr. p. 42); oppure se riuscisse a prevalere la didattica della cooperazione su quella della coercizione (cfr. pp. 43-44).
Oggi, il risultato di un sistema educativo ancorato alla tradizione rousseauiana, illuministico e "passivo", è quello di trasformare "bambini normalmente intelligenti in adulti normalmente stupidi" (p. 52). Agassi vede gli studenti di oggi "rimpinzati come oche da ingrasso" (p. 53).
Le alternative a tale sistema sono date dalla teoria pedagogica di Homer Lane, Bertrand Russell e Jausz Korczak, secondo cui "gli studenti hanno bisogno della guida degli adulti, come afferma la tradizione, ma i primi ottengono il meglio dall'educazione se rimangono […] giudici di se stessi e padroni della situazione" (p. 46). "Non è l'istruzione ad essere dannosa, ma l'autorità del docente" (p. 56); noia e smarrimento assalgono lo studente fino ad annichilirlo, e ciò avverrà fin quando non vi sarà una riforma del sistema educativo in senso liberale, caratterizzata da complessità di analisi insieme a concretezza di soluzioni. 
Il liberalismo di Agassi "non è quello nato nell'Età della Ragione, […] semplicistico e utopistico" (p. 65), piuttosto dovrebbe portare ad un sistema di equilibrio tra docenti e studenti la cui prassi segua il "metodo di prove ed errori, e la condivisione dei risultati [sia] a beneficio di tutti" (p. 67).
Il liberalismo 'anomalo' di Agassi si evidenzia ancor di più in ambito politico. Egli si impegna nella definizione di un "nazionalismo liberale" (p. 68), cercando di coniugare due tradizioni apparentemente in contrasto. "Per i liberali – scrive – il nazionalismo ha sempre rappresentato un problema" (p. 68), ma non vi è alcuna contrapposizione, non c'è frattura insanabile tra quello che è l'amor di patria e l'aspirazione ad una sempre maggiore libertà. L'unione di questi due ideali è stata teorizzata e portata avanti – ricorda Agassi – da Hillel Kook, suo riconosciuto maestro. Popper e Russell, invece, hanno manifestato sull'argomento una posizione debole quando, in campo politico, bollarono categoricamente il nazionalismo come anti-liberale (p. 68). Hegel e Fichte, poi, consideravano lo Stato e la collettività "come una famiglia, […] coloro che ne sono al di fuori non contano […]. L'estremizzazione di questo principio – prosegue Agassi – portò al nazismo e al fascismo" (p. 70).
Il liberalismo di un sistema istituzionale si dovrebbe misurare secondo quello che giudica il miglior contributo di Popper sull'argomento, cioè secondo la definizione di "buon governo" contenuta ne La società aperta e i suoi nemici: quello in cui "Il popolo si può disfare [dei] propri leaders se […] l'elezione è stata un errore" (p. 71); la democrazia diventa, allora, "la capacità di liberarsi del governo con mezzi pacifici" (p. 72). 
Agassi chiosa che la bontà del sistema educativo non dovrebbe esser data dalla quantità di premiati che ha saputo produrre – e qui prende consapevolmente le distanze da Popper -: "Un'Università è tanto più buona quanto il suo peggior insegnante, il suo peggior laureato o il suo peggior dottorando" (p. 72).
L'ultima sezione dell'agile volume è quella in cui presenta il suo 'nazionalismo' (buono) affrontando e analizzando situazione e problemi d'Israele.
Anche in questo caso è impietoso: "In Israele […] non vige la separazione tra Chiesa e Stato" (p. 73, cfr. p. 88) e "finché il paese non si normalizzerà, non c'è speranza di pace" (p. 74). Lamenta lo scarso dibattito interno su argomenti quali diritto, libertà, patriottismo, liberalismo e sulla Legge del Ritorno, che permette agli Ebrei esuli di risiedere in Israele, e, a suo parere, andrebbe riformulata (cfr. p. 80).
La "commistione" tra affari istituzionali e religione fa d'Israele un paese in cui l'ortodossia è una specie di "agenzia governativa" (p. 82), in cui la convivenza coi palestinesi è difficile pure per la discriminazione verso i non ebrei (cfr. p. 83); tutte situazioni, in grado di far saltare qualunque accordo.
Il pragmatismo necessario per accordi di pace – pragmatismo politico – non c'è; si affrontano le questioni da un punto di vista "filosofico, più precisamente, teologico. E ciò riduce le speranze di pace" (p. 85, cfr. p. 89). 
Sembra filtrare un pessimismo dalle pagine di Agassi, poi indebolito o rafforzato dagli eventi. Resta, comunque, l'esigenza di trovare una soluzione che passi attraverso un dibattito interno sui principi costituzionali (cfr. pp. 88-89) e un piano di aiuti destinati alla specifica regione medio orientale; quest'ultimo ventilato, e mai concretizzato in proposta ufficiale, da Simon Peres (cfr. p. 90).

Qualunque sarà il destino del processo di pace tra israeliani e palestinesi, mi pare Agassi ripeta con Popper – maestro amato da Agassi più di quanto non traspaia dalle sue pagine –: "Il futuro è aperto".

L’autore

Joseph Agassi è dal 1997 professore emerito di filosofia nelle Università di Tel Aviv e Toronto . Allievo di Karl Popper, ha ricoperto incarichi in Gran Bretagna, Canada, Stati Uniti e Hong Kong. È stato visiting professor in numerose Università nel mondo. Autore di numerosi testi in inglese e in ebraico di filosofia e storiografia della scienza, in Italia sono apparsi Le radici metafisiche delle teorie scientifiche (1983), La scienza in divenire. Note a Popper (1997) e Dialogo senza fine (2000).

Links

Pagine web dell'Università di Tel Aviv che contengono concise informazioni biografiche, la lista delle sue pubblicazioni e una sezione ove si possono leggere suoi interessanti contributi.
Breve presentazione di Agassi su Karl Popper

domenica 29 gennaio 2006

Casadei, Thomas (a cura di), Repubblicanesimo, Democrazia, Socialismo delle Libertà. “Incroci” per una rinnovata cultura politica.

Milano, Franco Angeli, 2004, pp. 246, € 18,00, ISBN 88-464-6150-9.

Recensione di Salvatore Lucchese – 29/01/2006

Filosofia politica, Filosofia del diritto

La caduta del Muro di Berlino non solo ha determinato cambiamenti epocali nell’ambito degli scenari geoeconomici e geopolitici, ma ha avuto anche conseguenze profonde in ambito culturale. Di fatto, lo sgretolamento del blocco di potere dei socialismi reali nell’Europa orientale e la crisi delle sinistre comuniste e socialdemocratiche in quella Occidentale sono stati accompagnati da una ripresa degli studi su quella vasta e variegata area di pensiero politico compresa tra le culture del repubblicanesimo, della democrazia e del socialismo delle libertà, che sino ad allora erano state oggetto di studi rimasti marginali o di critiche stroncatorie da parte sia dell’area marxista che di quella liberale. Negli ultimi anni, invece, c’è stata una fioritura di studi e di ricerche di carattere storiografico, filosofico-politico e filosofico-giuridico che sta progressivamente rivalutando l’apporto analitico, teorico e pratico di quella tradizione di pensiero, con l’intento di fornire “gli assi su cui sviluppare ragionamenti che ponendosi all’‘incrocio’ tra le culture politiche suddette possono, a nostro avviso, offrire un rilevante contributo ad una rinnovata tradizione politica” (p. 7).
Il convegno di studi su Repubblicanesimo, democrazia, socialismo delle libertà, organizzato dalla Cooperativa culturale e ricreativa “Pensiero e Azione”, e i relativi atti pubblicati da Franco Angeli a cura di Thomas Casadei, si inseriscono all’interno di questo nuovo filone di ricerca, caratterizzandosi per un approccio critico, che pur nel rispetto del rigore metodologico, filologico e storiografico, si mostra parimenti attento ad attualizzare criticamente il pensiero dei fratelli Rosselli e di Guido Calogero.
Gli atti sono divisi in tre sezioni: 1. Carlo e Nello Rosselli tra culture politiche e contesti; 2. Guido Calogero: la filosofia della democrazia; 3. Tradizioni delle libertà e Repubblica democratica: le radici e l’oggi.

La prima sezione si apre con un intervento di Paolo Bagnoli, il quale subito prende le distanze da letture politiche strumentali dell’opera dei Rosselli, tese a mascherare la crisi politico-culturale che abbraccia i partiti di sinistra, per affermare a chiare lettere l’esigenza di un’interpretazione critica del pensiero dei due fratelli antifascisti, che sia capace di incidere fattivamente sul piano politico, attraverso la ripresa dei problemi di fondo da loro affrontati, riassumibili nel  giudizio sul modo in cui è stata realizzata l’unità del nostro paese da un lato, e nell’esigenza di una riforma morale e politica delle nostre istituzioni nel segno della democrazia, della libertà e della giustizia dall’altro. Con ciò, lo studioso sottolinea l’importanza di rimarcare l’intenzione del pensiero rosselliano, ossia di cogliere criticamente il nesso tra la storia e le idee, la realtà e le sua rappresentazioni. Infatti, secondo Di Napoli, al rigore dell’elaborazione di una nuova cultura politica legata ai problemi di fondo del nostro paese deve corrispondere il rigore dell’analisi, che non può prescindere da una chiara e precisa distinzione storica, culturale e concettuale tra socialismo liberale e liberalsocialismo, individuata nella genesi prettamente filosofico-culturale del liberalsocialismo, frutto di una conquista etico-civile maturata da giovani intellettuali nel pieno del regime fascista, di contro alla genesi precipuamente socialista del socialismo delle libertà, che ne ha declinato la tradizione in chiave morale a fronte dell’allora imperante impostazione economicistica.
L’intervento di Mario Di Napoli analizza la formazione dei Rosselli, evidenziandone il rapporto familiare, personale e politico con la tradizione risorgimentale rappresentata da Giuseppe Mazzini, “che è […] un tassello costitutivo del loro pensiero” (p. 32). Grazie al confronto con Mazzini, Carlo Rosseli - sottolinea Di Napoli - trae la connotazione etica del suo socialismo, ponendo l’esigenza di conciliare l’emancipazione del lavoro con quella politica, rivalutando, così, il sentimento nazionale, tralasciato dalle istanze internazionaliste del socialismo e strumentalizzato dal fascismo.
Zeffiro Ciuffoletti insiste sul rapporto tra Nello Rosselli e la tradizione repubblicana e mazziniana, segnalandone le fonti culturali nelle figure di Gaetano Salvemini e Alessandro Levi, che all’inizio del Novecento furono tra i maggiori studiosi del pensiero e della vita dell’“apostolo del Risorgimento”, avviando Nello Rosselli alle ricerche dei rapporti tra Mazzini e Bakunin. Con ciò
Ciuffoletti intende rimarcare il livello di consapevolezza critica con cui i fratelli Rosselli recepirono la lezione mazziniana, che non fu il frutto di una semplice infatuazione. Carlo e Nello Rosselli - sostiene Ciuffoletti - attraverso il recupero della tradizione repubblicana evidenziano il limite dell’approccio economicistico del socialismo italiano, nel tentativo di richiamarne l’attenzione alla politica istituzionale.
Ed è proprio sul contributo offerto da Carlo Rosselli alla cultura politico-istituzionale che si incentra l’intervento di Corrado Malandrino. Lo storico torinese, infatti, indica in Rosselli uno dei più originali assertori dell’idea di unificazione sociale e politica dell’Europa negli anni Trenta, la cui forza e acutezza di analisi ed elaborazione teorica sarà ripresa solo negli anni Quaranta da Ernesto Rossi e Alterio Spinelli. Il contributo offerto da Carlo Rosselli al tema del federalismo matura sullo sfondo di un’originali sincresi critica tra le istanze proudhoniane, bakuniane, marxiane e cattaneane, rielaborate alla luce di un serrato confronto con gli avvenimenti storici di cui fu un lucido protagonista. “In sostanza, negli anni dell’aggressione del fascismo all’Etiopia e della rimilitarizzazione della Germania a opera del nazismo, si delineò nella mente di Rosselli un grande disegno europeista e rivoluzionario, altrettanto lontano dalle strategie diplomatiche e verticistiche alla Coudenhove Kalergi e dal pacifismo gradualista” (p. 90).
La profonda cultura europea e non solo europeistica di Carlo e Nello Rosselli viene sottolineata negli interventi di Carmelo Calabrò e Claudio Palazzolo, i quali si sono rispettivamente soffermati sulle affinità e le differenze tra socialismo liberale rosselliano e liberalismo sociale inglese, e i rapporti tra Carlo Rosselli e il socialismo inglese. Ne emerge ancora una volta un’immagine dei fratelli Rosselli profondamente calati nel dibattito politico-culturale del loro tempo e del carattere sperimentale e pragmatico del loro pensiero, delle loro proposte e delle loro azioni. 
Partendo dalla comparazone critica tra il pensiero di John Stuart Mill, Leonard T. Hobhouse e le riflessioni di Carlo Rosselli, Calabrò perviene alla conclusione che la proposta di Carlo Rosselli prospetta un rapporto di continuazione tra liberalismo e socialismo, in quanto quest’ultimo viene da lui concepito come la forza teorica e politica capace di portare a compimento il percorso degli uomini verso la libertà, che, tuttavia, differentemente dal liberalismo classico, non è considerata un dato assoluto, ma una tensione dinamica verso la ricerca di una piena autonomia materiale ed etica. L’autonomia a sua volta si deve concretizzare nella partecipazione. Da ciò l’apertura di Rosselli al socialismo associativo e federativo, che declina il tema della giustizia sociale sul piano della produzione, differentemente dalle istanze di redistribuzione della ricchezza, del prodotto, fatte valere da Hobhouse. La diffidenza di Carlo Rosselli nei confronti dei pericoli insiti nel socialismo statalistico, sia in chiave bolscevica che in chiave socialdemocratica, è evidenziata anche da Claudio Palazzolo, che rimarca la ripresa rosseliana dei temi principali del socialismo gildista di Cole.

Nella seconda parte degli atti, l’area del pensiero politico liberalsocialista è approfondita attraverso la disamina critica della figura, dell’opera e del pensiero di Claudio Calogero. Gennaro Sasso e Stefano Zappoli ne delineano la biografia intellettuale, sottolineando la robusta formazione classica e il confronto prima filiale e poi sempre più critico nei confronti del neoidealismo, sia nella versione crociana che in quella gentiliana, e la successiva apertura ai temi del pragmatismo americano e dell’empirismo anglosassone, nonché il confronto personale, civile e politico con Aldo Capitini.
I principali snodi filosofico-politici, filosofico-giuridici e pedagogici dell’opera di Calogero sono affrontati negli interventi successivi. Margaret Durst coglie le linee di continuità tra la riflessione teoretica dello studioso e il suo impegno politico, che si sostanzia nel riconoscimento dell’unità e della distinzione tra etica e politica, che lo conducono a riconoscere nella prima lo sfondo di riferimento nella seconda. Da ciò l’importanza del dialogo e del concretizzarsi di principi morali nell’azione.
Le implicazioni pedagogiche del pensiero politico di Calogero, sono evidenziate da Aldo Visalberghi, che partendo dai suoi ricordi afferma la centralità del rapporto tra l’opera di John Dewey e quella di Calogero, entrambe accomunate da istanze antidogmatiche e antifideistiche, che a partire dalla centralità degli individui li conducono al riconoscimento dell’importanza del dialogo, della discussione e della comunicazione sia in ambito educativo che in ambito pubblico.
L’intervento di Thomas Casadei evidenzia la fonte metapolitica del liberalsocialismo di Calogero: l’idea di un soggetto irriducibile a qualsiasi entità collettiva, teso al riconoscimento e alla valorizzazione degli altri come persone, da ciò una concezione della libertà fondata sulla relazione, sulla giustizia e sull’eguaglianza. Su questi valori - conclude Casadei -, che si stagliano su una grammatica incentrata sulla consapevolezza del limite, si fonda la concezione di una città aperta, ricca di spazi pubblici da contrapporre alle architetture delle città moderne, sempre più caratterizzate dalla forma delle caserme e delle prigioni. 
Sul rapporto tra diritti e doveri si sofferma l’intervento di Tommaso Greco, che sullo sfondo della comparazione critica tra prospettive diverse - quelle di Mazzini, Levi, Ghandi e Weil - sottolinea la centralità del dovere rispetto ai diritti, che vengono fondati su di essi. Inoltre, il compimento del dovere conduce anche all’attivazione di un legame positivo. In chiave moderna, ciò potrebbe far declinare il diritto di sicurezza non in termini negativi ed egoistici, ma in termini positivi e propositivi: “La sicurezza risulta dal concorso di tutti pere assicurare i diritti di ciascuno” (p. 150).
Nell’intervento di chiusura della seconda parte degli atti, Stefano Petrucciani sostiene che Calogero ha rielaborato originalmente i concetti fondamentali della modernità politica - liberalismo, socialismo e democrazia - radicandoli sulla sua visione etica incentrata sul dovere del dialogo tra gli uomini e sulla reciprocità tra democrazia politica e giustizia sociale che, anche se non priva di contraddizioni, ha prospettato una direzione di ricerca ancora oggi attuale.

Nella terza e ultima parte degli atti del convegno si pone l’accento sull’attualità delle posizioni del repubblicanesimo, del liberalsocialismo e del socialismo liberale, a partire dalle quali viene elaborata una serrata critica teorico-politico-istituzionale alle forme degenerate della democrazia.  
Nel mostrare come le diverse culture politiche del liberalismo, del repubblicanesimo e del socialismo condividano la concezione della libertà come assenza di dominio, Maurizio Viroli giunge a individuare in esse una comune teoria dell’emancipazione, intesa sia come lotta contro ogni forma di tirannide che come continua conquista dell’indipendenza e della maturità degli individui attraverso le buone istituzioni, le buone leggi e la buona educazione, di contro alla schiavitù della mente che caratterizza le nostre democrazie.
Nel ricostruire storicamente e nell’interpretare teoricamente le posizioni del liberalismo sociale, e in netta polemica contro l’elusione delle regole del gioco democratico da parte dei poteri forti, Franco Sbarberi giunge a individuare nella conflittualità permanente, anorché regolata, non solo una dimensione costitutiva della politica, ma anche una valore costitutivo della vita civile, in quanto consente la libera espressione delle individualità, educa alla partecipazione politica dal basso, stimola alla ricerca di proposte politiche alternative ed evidenzia le disuguaglianze sociali.
Di contro alle tensioni autoritarie e alle derive plebiscitarie degli attuali regimi democratici, Nicola Tranfaglia evidenzia il contributo storico-cultuale e giuridico-politico offerto dalle tradizioni del socialismo liberale e del liberalsocialismo per l’edificazione di uno spazio pubblico pluralistico ispirato al principio del dialogo.

E facendo leva sul modello calogeriano della democrazia del dialogo, elevata a modello della democrazia ideale, Michelangelo Bovero, infine, inasprisce i toni critici nei confronti della democrazia reale e della sua attuale classe dirigente, che stanno progressivamente sostituendo a un spazio politico circolare - simmetrico ed equidistante, caratterizzato dal dialogo e dalla partecipazione - uno spazio politico a forma di cono tronco, in cui il dibattito procede in modo asimettrico e verticale relegando la base, i cittadini comuni, gli attuali teleutenti, a semplici ascoltatori passivi, a elettori che anziché scegliere vengono scelti, creati e plasmati secondo logiche di potere, che rischiano di trasformare le istituzioni democratiche in meri riti di legittimazione.

Indice

Paolo Barbieri,Le ragioni di un convegno
PARTE I. CARLO E NELLO ROSSELLI: TRA CULTURE POLITICHE E CONTESTI
Paolo Bagnoli, Socialismo liberale e liberalismo: culture, movimenti e categorie della politica
Mario Di Napoli, I Rosselli e la lezione mazziniana
Zeffiro Ciuffoletti, Nello Rosselli e le idee repubblicane: tra Levi e Salvemini
Carmelo Calabrò, Socialismo liberale rosselliano e liberalismo sociale inglese: affinità e differenze
Claudio Palazzolo, Socialismo inglese: un contesto di riferimento per Carlo Rosselli
Corrado Malandrino, Idea di Europa e federalismo in Carlo Rosselli
PARTE II. GUIDO CALOGERO: LA FILOSOFIA DELLA DEMOCRAZIA
Gennaro Sasso, Introduzione a Guido Calogero
Stefano Zappoli, Da Croce a Gentile al "dialogo" con Capitini: l'itinerario intellettuale di Guido Calogero
Margarete Durst, Il "filo rosso" della riflessione di Guido Calogero: uno sguardo teorico
Aldo Visalberghi, L'educazione democratica in Calogero
Tommaso Greco, Dai diritti al dovere: tra Mazzini e Calogero
Thomas Casadei, Un lessico filosofico-giuridico "progressivo": socialità e cittadinanza in Calogero
Stefano Petrucciani, Liberalismo e democrazia nel pensiero politico di Calogero

PARTE III. TRADIZIONI DELLA LIBERTÀ E REPUBBLICA DEMOCRATICA: LE RADICI E L'OGGI 
Maurizio Viroli, Libertà democratica, libertà repubblicana e libertà socialista
Franco Sbarberi, Il liberalismo sociale tra passato e futuro
Nicola Tranfaglia, Socialismo liberale e liberalsocialismo: un'eredità per la costruzione della repubblica democratica
Michelangelo Bovero, Il silenzio dei teleutenti. Crisi della democrazia del dialogo

Il curatore

Thomas Casadei, direttore dell’Istituto Gramsci di Forlì, è dottore di ricerca in Filosofia politica e assegnista di ricerca presso la cattedra di Filosofia del diritto della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia. Collabora con diverse riviste specialistiche ed è l’autore di numerosi saggi e articoli su Montesquieu, John Dewey, Hannah Harendt, Guido Calogero e Michael Walzer.

Links

Sito dell’Asociazione culturale “Fratelli Rosselli”: 

Biografia di Guido Calogero: 

venerdì 27 gennaio 2006

Fisichella, Domenico, Joseph de Maistre pensatore europeo.

Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. x-152, € 15,00, ISBN 88-420-7598-1.

Nota di Piero Venturelli – 27/01/2006

Filosofia politica, Filosofia del diritto, Storia della filosofia (moderna)

Fisichella interprete di Maistre
In quest’opera, Domenico Fisichella approfondisce e amplia le già ricche argomentazioni contenute in due preziosi testi critici che egli, nel corso degli anni, ha dedicato a Joseph de Maistre (1753-1821), celebre quanto discusso uomo politico e filosofo savoiardo (cfr. FISICHELLA 1963 e 1993). Nel senatore di Chambéry, lo studioso riconosce non soltanto uno dei più lucidi intelletti che mai si siano confrontati con la Rivoluzione francese, ma anche un implacabile «pensatore della crisi» che, denunciando il carattere negativo di quest’ultima, si propone quale «teorico della inevitabile provvisorietà e transitorietà della crisi, dunque teorico dell’essere e quindi della positività, intesa come ri-composizione, ri-costruzione, ri-collegamento, ri-vendicazione dei dati e valori costanti e permanenti dell’esistenza individuale e collettiva» (p. 52).
La trattazione di Fisichella è incentrata sull’ipotesi secondo cui la reazione del gentiluomo di Savoia all’Illuminismo muoverebbe da princìpi cari al giusnaturalismo classico e medievale piuttosto che da premesse storicistiche. Tale prospettiva analitica, rivelatasi assai feconda già nei due testi critici precedenti, è ora condivisa da svariati interpreti (cfr., tra gli ultimi, CATTABIANI 2000, pp. 5-6). Esaminando accuratamente il pensiero maistriano, e non mancando d’inquadrarlo nel suo tempo e di raffrontarlo con le concezioni di autori vissuti nel XVIII e nel XIX secolo (da Saint-Simon a Comte, da Rousseau a Darwin), Fisichella viene a porre in luce diversi nodi concettuali oltremodo interessanti, e talora problematici, della riflessione dello scrittore di Chambéry.
Tra i caratteri generali del pensiero maistriano, non di rado tanto significativi quanto trascurati dalla critica, lo studioso ritiene particolarmente degne di nota sia la tensione fra metascienza e scienza, cioè fra «comprensione» metafisica (metaempirica) e «spiegazione» empirica, sia la propensione a fondare le scienze socio-politologiche su basi metodologiche ed epistemologiche componibili con quelle delle scienze fisico-naturali. Riguardo a quest’ultimo aspetto, Fisichella sottolinea che «è presente in Maistre una continua interpenetrazione tra il livello di analisi giusnaturalista e il livello di analisi storico, con il conferimento alla storia del ruolo di “politica sperimentale”, e con l’esplicita configurazione dello studio della politica come studio su basi scientifiche, come scienza politica, aggiungendo anzi che la politica è forse la più spinosa delle scienze, dunque la più ardua (ma anche in potenza la più feconda e cognitivamente appagante) in ragione della ricorrente difficoltà di distinguere ciò che è costante e ciò che è variabile nei suoi elementi. Senza infine dimenticare che l’ordine morale, come l’ordine fisico, ha le sue leggi, e la ricerca di queste leggi merita di occupare le meditazioni di ogni autentico pensatore» (p. 17).
Rivoluzione e controrivoluzione
È costante, nell’opera dell’autore savoiardo, la presenza del tema della rivoluzione. Egli vede nel fenomeno rivoluzionario l’insurrezione perpetrata dagli uomini contro Dio. A suo avviso, chi impugna le armi per abbattere l’ordine tradizionale dimostra di non aver compreso che le uniche fonti della libertà sono la religione cristiana e l’intervento sovrannaturale della Grazia; il genere umano lasciato da solo, invece, non riesce a non fare il male, in quanto è naturalmente servo. Soltanto chi ha fede, perciò, possiede morale e libertà, ed è animato da uno spirito perfezionatore timoroso di Dio e consapevole di sé.
Tutto ciò si colloca in un contesto filosofico preciso. Il genere umano è attaccato al trono dell’Essere supremo con una catena flessibile che lo sostiene senza asservirlo. Nell’ordine universale delle cose, l’azione degli uomini sotto la mano divina è libera: essi operano – al tempo stesso – volontariamente e necessariamente, facendo ciò che si propongono all’interno dei piani sovrannaturali. L’uomo non è in grado di alterare il piano divino: certamente, egli dispone dei mezzi idonei sia ad ampliare – con fatica – taluni confini della natura e della conoscenza di essa sia ad «impostare ordini politici e civili plurimi e diversificati nella loro mutevole storicità, ma non può capovolgere l’ordine generale che esprime l’imperativo dell’eternità» (p. 23).
In questo quadro, l’uomo che ambisce a creare non fa che ripetere il peccato originale, pretendendo di porsi al posto di Dio. Se la creazione risulta prerogativa dell’Onnipotente, «[l]a rivoluzione, che vuole essere novazione, vale a dire distruzione dell’ordine fondato su basi divine e creazione ex nihilo dell’ordine nuovo, è intimamente perversa» (p. 14). Di conseguenza, Maistre non può che trovarsi in assoluto disaccordo col tentativo di trasformare ab imis il campo intellettuale e il campo politico: la rovina attende l’uomo che, mirando ad infrangere i propri limiti naturali, finisce col rinnegare Dio e se stesso. Alla luce di ciò, si rivela del tutto ingiustificata la tesi di chi vede nel filosofo di Savoia un importante precursore del totalitarismo (cfr., per esempio, BERLIN 1996); egli, al contrario, ha il merito di riuscire a «cogliere (e biasimare) l’essenza nichilista di quella che sarà la rivoluzione totalitaria: cambiare il mondo nel suo tutto, nella sua totalità» (p. 15).
Secondo Maistre, tutti gli episodi rivoluzionari – e, in special modo, quello appena accaduto in Francia – rappresentano empie insurrezioni del genere umano contro Dio e hanno in se stessi la loro punizione e negazione: si tratta, cioè, di eventi – insieme – luciferini e provvidenziali (sul ruolo della Provvidenza nel suo pensiero, è da tener presente GALLI 1981, p. 28). Nella prospettiva del Savoiardo, ogni sollevazione armata – naturalmente annientatrice – è un crimine immenso e comporta sofferenze terribili per gli uomini, ma finisce poi col tradursi nel suo contrario, svelando così che la Divinità punisce per rigenerare. Nell’ambito di questa «teologia della storia di pretta derivazione patristica e agostiniana (e tuttavia non scevra di motivi martinisti, sempre presenti anche se poco per volta “riassorbiti”)» (RAVERA 1986, p. 92), l’autore di Chambéry sottolinea come la rivoluzione non appaia suscettibile di alcuna «spiegazione» razionale, poiché nulla di semplicemente umano – a suo avviso – avrebbe potuto innescare un processo talmente grandioso. Egli è convinto che gli stessi protagonisti del movimento rivoluzionario francese abbiano in ogni istante palesato qualcosa di passivo e di meccanico perché indotti da un’imperscrutabile Volontà superiore ad operare a vantaggio della regalità; donde, Maistre trae la conferma che non sono gli uomini a guidare la rivoluzione, bensì è la rivoluzione a servirsi degli uomini (i quali, peraltro, ne portano la piena responsabilità).
Uno dei principali esiti della rivoluzione è il ristabilimento della monarchia, ovvero la «controrivoluzione». Lungi dal configurarsi come una «rivoluzione contraria», la controrivoluzione di cui egli parla rappresenta l’opposto della rivoluzione. Infatti, spiega Fisichella, «anche se la rivoluzione è destinata a volgersi nel suo contrario, e dunque sotto questo profilo prima o poi deve concludersi con il ristabilimento dell’ordine, tuttavia i costi morali, civili, istituzionali, umani e sociali del disordine rivoluzionario sono talmente alti e devastanti che nessun uomo d’ordine può assumersi la responsabilità di invocare e promuovere una rivoluzione per combattere un’altra rivoluzione» (p. 21). La restaurazione monarchica è condotta da uomini che, nel ripristinare l’ordine divino e tradizionale, si associano con l’Autore dell’ordine stesso, facendo così assumere alla controrivoluzione le sembianze di un’azione positiva che si rifà alle origini. Secondo Fisichella, dunque, a dispetto di una visione fortemente pessimistica della realtà, che lo porta a fissare nel fatidico 1789 la data in cui il Vecchio Continente ha cessato di vivere, «Maistre dà ancora speranza alla sua Europa, all’Europa della Tradizione, e alla sua capacità di resistere e di reagire. Muore per risorgere. L’immagine non potrebbe essere più simbolicamente appropriata per Joseph de Maistre, europeo perché cattolico, cattolico perché europeo» (p. 147).
Ragione individuale e ragione universale
Il conte savoiardo accusa il pensiero del XVIII secolo di aver gravemente peccato di orgoglio credendo che la ragione individuale possa tutto. L’attacco maistriano è esplicitamente indirizzato alla filosofia (morale, politica, scientifica) settecentesca, che ha fatto tesoro delle istanze del Protestantesimo e di talune concezioni di autori britannici (Bacone e Locke, in primis: cfr. RAVERA 1986, pp. 7 e ss.), culminando nella rivolta contro il Divino e nella distruzione dei legami col passato. A giudizio dello scrittore di Chambéry, predicando i princìpi della ragione individuale e irridendo i dogmi della ragione universale, gli uomini dediti alla philosophie hanno lanciato con tracotanza il guanto della sfida a Dio: così facendo, però, essi si sono rapidamente trasformati in esseri spregevoli e ribelli, isolati e orgogliosi, aridi ed egoisti, nocivi a se stessi e agli altri.
Il senatore di Savoia considera la filosofia illuminista pericolosamente imperniata su quella raison individuelle che mette capo a un fare inconsapevole dei limiti connaturati all’uomo, non più assistito da Dio e sprezzante dei legami col passato. Fonte dei peggiori mali sofferti dall’umanità, la ragione individuale costituisce il «dissolvente universale», poiché l’urto delle opinioni particolari abbandonate a se stesse non produce altro che lo scetticismo distruttore di ogni cosa, laddove «tutto ciò che è grande» può conservarsi soltanto se riposa su una fede incondizionata e circonfusa di «mistero». Secondo il punto di vista maistriano, pertanto, la ragione individuale tende a coincidere con la passione, cioè la volontà non temperata dal raziocinio, sciolta dai legami alle norme eterne e universali fissate dai dogmi comuni, incapace di sottomissione e ostile ad ogni vincolo. Benché non si spinga fino a negare una forza primigeniamente vitale come il sentimento, il gentiluomo di Chambéry si mostra convinto che, per evitare i conflitti più perniciosi, sia indispensabile «ricondurre la ragione individuale (volontà) e le passioni al loro posto e al loro rango, subordinandole alla ragione universale, che controlla e modera e acquieta» (p. 82).
Alla raison individuelle, sfrenata e malefica, l’autore di Savoia oppone la raison universelle. Quest’ultima, incompatibile con ogni soggettivismo volontaristico, è frutto della mescolanza di dogmi religiosi e politici, che – in quanto tali – sono percepiti dall’uomo come «universalmente rivelati una volta per tutte, indipendenti dalle volontà singole, sottratti al libero esame, cioè al giudizio della ragione individuale» (p. 73). Basilare importanza rivestono, dunque, le tradizioni avite, trasmesse di generazione in generazione, specie in forma orale: secondo Maistre, per sincerarsi della verità di un valore o di un principio è necessario e sufficiente considerarne la presenza nella «coscienza universale», giacché «ogni credenza costantemente universale non può essere falsa». In tale prospettiva, «[l]a tradizione sta al punto di incrocio tra Storia e Divinità»: «combina e rende coerenti e compatibili il gioco delle circostanze con la stabilità della cornice giusnaturalista, talché la Storia si fa veicolo di Tradizione come messaggio divino, come espressione del Divino che agisce appunto nella Storia» (ibid.).
Religione e scienza
Un evento drammatico e lacerante come la Rivoluzione francese testimonia, per il filosofo di Savoia, che nel mondo moderno la ribellione è ormai generale ed organizzata, e quindi talmente rovinosa e incontrollabile da non vantare precedenti storici di sorta. Maistre nega, però, che la colpa principale del Settecento consista nell’aver voluto sviluppare la ricerca scientifica e il metodo scientifico, per i quali egli più volte dà prova di non nutrire avversione. Al pensiero illuminista, invece, si devono rimproverare i pervicaci sforzi tesi ad abolire l’autonomia rispettiva di scienza e religione. Secondo tale impostazione, più che una mera – anche se radicale – opposizione fra di esse, si è trattato di una rivolta sistematica della scienza contro la religione: la prima è stata strumentalizzata a fini di empietà, dimenticando che, nella «scala della generalità crescente», è la religione a collocarsi ad un livello superiore rispetto alla scienza, in quanto può contare su una «estensione» di risposte più ampia e profonda.
La storia insegna che è possibile ottenere un’armonia mirabile fra religione e scienza, ma a patto che le conoscenze fisico-naturali vengano considerate un sapere necessario benché non sufficiente. L’autore di Chambéry sottolinea che, per addivenire a una siffatta condizione di equilibrio, occorre non dimenticare due aspetti fondamentali: da una parte, Dio – autore della natura (umana e fisica) – non ha mai inteso mortificare l’autonomia degli obiettivi e dei risultati dell’impresa scientifica; dall’altra, ogni scienza ha avuto origine nei templi, è stata favorita dalla religione (specie da quella cristiana) e, per poter continuare a svilupparsi, deve costantemente serbar memoria della propria origine e ad essa adeguarsi. Il XVIII secolo, viceversa, non si è curato di tutto ciò: la cronologia, la storia naturale, l’astronomia e la fisica sono state empiamente aizzate contro Dio e la religione, come se non si potesse fare lavoro scientifico senza demolire la fede. L’Illuminismo ha preteso che la scienza travalicasse i propri limiti e le proprie competenze, ne ha forzato il significato e gli esiti, si è addirittura spinta fino ad esplorare il mistero ultimo dell’esistenza. Il Savoiardo reagisce contro questo apriorismo religioso, perché vede in esso il presupposto dell’infimo abbruttimento del genere umano.
L’empietà dei moderni
Nelle concezioni del gentiluomo di Chambéry, dunque, il movimento illuminista viene accusato di essere il principale responsabile dell’attribuzione all’empietà di un carattere fino ad allora inusitato. Sebbene tutte le epoche storiche annoverino schiere di profanatori di dogmi religiosi, prima del Settecento non è possibile rinvenire alcun’altra insurrezione così radicale e complessiva contro Dio. A proposito di queste convinzioni maistriane, rileva Fisichella: «Vi sono sempre state religioni sulla terra, e sempre vi sono stati empi che le hanno combattute. L’empietà, osserva lo scrittore di Savoia, fu pur sempre un delitto; perché, come non ci può essere religione falsa senza qualche cosa di vero, così non ci può essere empietà che non combatta qualche verità divina, più o meno sfigurata. Ma non ci può essere vera empietà che in seno alla vera religione, e per necessaria conseguenza l’empietà non ha mai potuto produrre nei tempi passati i mali che essa ha prodotto ai giorni nostri: perché essa è sempre colpevole in proporzione della sua maggiore cultura» (pp. 32-33). In questo orizzonte teorico, ben si spiegano, allora, i motivi per cui l’empietà antica non arrivò mai a adirarsi e gli stessi nemici del Cristianesimo mantennero di solito una certa misura, rimanendo – oltre tutto – costantemente isolati, mentre la philosophie ha rivestito un ruolo prioritario nella trasformazione del sacrilegio in associazione formale e congiura, coprendo l’intero Vecchio Continente.
Maistre individua nell’inizio del XVIII secolo il momento preciso in cui l’empietà è divenuta realmente una potenza e ha cominciato a scatenarsi con tutto il suo furore contro il sapere tradizionale, l’idea di autorità e quelle eminenti istituzioni politiche e religiose che, nella storia europea, si sono amalgamate in maniera sorprendente grazie al Cristianesimo. L’odio mortale dell’Illuminismo, rabbiosamente ostile al principio religioso e alla civilizzazione promossa dal Papato, si è a tal punto radicalizzato che questa insofferenza nei confronti degli ordinamenti più venerabili e tutte le animose inimicizie fra gli uomini ispirate dalla philosophie hanno portato alla catastrofica lacerazione rivoluzionaria del 1789.
Contrattualismo e individualismo
Le critiche di Maistre al pensiero settecentesco investono vari aspetti propriamente filosofico-giuridici, oltre che teologici e filosofico-politici, come risulta chiaro soprattutto dalle sue prese di posizione contro il giusnaturalismo «moderno», nel quale egli vede teorizzato uno stato di natura anteriore (almeno logicamente) alla società. A suo parere, la naturalità della condizione umana è la socialità, e quest’ultima è una legge di Dio, onde il «diritto naturale» non può che configurarsi – al medesimo tempo – come originariamente divino e originariamente sociale. In tale prospettiva, se prima della formazione delle società politiche l’uomo non è affatto l’uomo, allora sono necessariamente da rigettare sia il contrattualismo sia l’individualismo.
L’incompatibilità fra i postulati del Savoiardo e le dottrine contrattualistiche è lampante: l’identificazione dello stato di natura con lo stato di società implica che l’ordine sociale non possa trarre origine da una convenzione (su questo punto, cfr. CHIGNOLA 1999, pp. 326 e ss.). Come rileva Fisichella, «Maistre respinge la ratio del contratto sociale, scorgendovi un meccanismo che, affrancando la res publica dalla natura e dunque dalla socialità, mira alla fondazione di una nuova moralità per la quale l’uomo aspira a trovare solo in se medesimo la regola esclusiva del proprio destino politico, così lacerato dalle radici sociali e dunque artificialmente programmato» (p. 55). Secondo l’autore di Chambéry, solamente richiamandosi a Dio è possibile trasfigurare quello che egli chiama il «principio della vita mediante mezzi violenti», principio che assume carattere di legge di necessità nei regni animale e vegetale. Ed è proprio nella ricerca di Dio che, a suo avviso, la libertà umana si manifesta autenticamente; donde, osserva Fisichella, «la socialità dell’uomo si afferma e insieme si esprime nella sua forma più elevata, e la vita si impone nella sua continuità individuale e generazionale, oltre e malgrado le ricorrenti pulsioni di morte, oltre e malgrado le spinte dissolventi e dissociative» (p. 57).
Alla condanna maistriana delle dottrine contrattualistiche fanno eco giudizi severi indirizzati alle prospettive di carattere individualistico, accusate d’immaginare un uomo «astratto» dalla socialità e misura di tutte le cose, laddove la natura e i vincoli sociali ed etici mostrano l’assoluta insussistenza dell’uomo. Per lo scrittore di Chambéry, il peccato individualista non fu introdotto nel pensiero europeo né dalla tradizione elleno-latina né dal genio cattolico romano medievale, quanto dalle genti barbariche che albergavano nella «foresta germanica» e che non conoscevano alcuna disciplina mentale, morale ed estetica. E la Riforma protestante – scaturita, non a caso, nel mondo germanico – contribuì in maniera decisiva alla diffusione e al radicamento di tale individualismo apportatore di disordine e conflitto. La situazione è venuta aggravandosi ancor di più durante il XVIII secolo, allorché – come si è dianzi precisato – le concezioni illuministe hanno messo l’accento sul valore irriducibile del singolo individuo, preferendo la raison individuelle alla raison universelle. Tuttavia, non si stanca mai di ribadire il Conte, privarsi dei tradizionali riferimenti al passato e alla dimensione sovrannaturale significa rendere pericolosamente «dispersiva» la filosofia ed esporsi alla contestazione sia dei fondamenti e delle istanze della religione sia del sacro principio di autorità.
Giusnaturalismo, costituzione e istituzioni fondamentali
La polemica maistriana contro il «diritto di natura» del pensiero settecentesco non viene condotta su basi storicistiche, ma è sviluppata in nome di una concezione che recupera il giusnaturalismo d’ispirazione medievale e classica, in contrapposizione al giusnaturalismo moderno. A questo riguardo, perspicua appare la sintesi di Fisichella: «l’individualismo si pone giuridicamente come affermazione dell’esistenza di diritti naturali pluralizzati, i quali si storicizzano poi compiutamente nelle dichiarazioni costituzionali, mentre Maistre, negando che si possa parlare di diritti intesi alla maniera del secolo “astratto e costituzionale”, affermando al contrario (con Bonald) che “nella società non ci sono diritti, ci sono solo doveri”, mostra piuttosto la convergenza sui presupposti del giusnaturalismo classico e medievale, atteso che “le dottrine della legge naturale premoderne insegnavano i doveri dell’uomo”: se prestavano una qualche attenzione ai suoi diritti, li concepivano come sostanzialmente derivati dai suoi doveri» (p. 68).
Partendo da queste basi teoriche, il gentiluomo di Savoia polemizza con la volontà di codificazione propria del giusnaturalismo laico settecentesco, in ciò vedendo una pericolosa indulgenza ai capricci del legislatore; le leggi di una cosmologia autenticamente giusnaturalista, invece, sono eterne e immutabili, non modificabili ad libitum. Maistre osteggia, in particolar modo, le costituzioni politiche: egli ritiene che la vera legge fondamentale sia quella che si pone al di sopra di tutti e che nessuno può abolire, giacché riposa nel cuore degli uomini; una costituzione genuina non è scritta e creata a priori, ed evidenzia un carattere di santità e perennità.
Ai diritti scritti, comunque, anche se meno importanti di quelli impressi nel cuore, è opportuno riconoscere un ruolo considerevole, a patto – però – che li soccorra il senso del dovere, che rinvia a una morale universale. Il timore del Savoiardo è che il potere politico travalichi le proprie funzioni, promuovendo quell’elefantiasi legislativa e quella massiccia burocratizzazione che, annullando le specificità della società civile, incatenano l’uomo. Il Conte non nega che la stessa costituzione – specie se è breve – possa garantire le persone e i gruppi dinanzi al potere, ma egli intende prima di tutto far notare come società e libertà siano subordinate all’esistenza di un idem sentire de re publica; ed è da questa comunanza di dogmi religiosi, venerabili tradizioni e buoni «pregiudizi» che, a suo avviso, traggono origine le vere costituzioni, le quali – perciò – rappresentano il posterius, non certo il prius. In altri termini, dal punto di vista maistriano, ogni istituzione realmente costituzionale non stabilisce mai nulla di nuovo, ma dichiara e difende diritti anteriori, cioè che si sono già affermati nel costume sociale e nei cuori della gente. Donde, in questa prospettiva, le istituzioni fondamentali non sono il prodotto delle deliberazioni a priori, bensì espressioni dei grandi costumi religiosi e civili, e possiedono il duplice compito di frenare le passioni negative e di assecondare le tendenze morali fruttuose ed equilibranti.
I limiti della sovranità (assoluta)
Si è detto che, per l’autore di Chambéry, la sovranità politica deriva da Dio. Ciò non implica, comunque, che il legislatore umano possa comandare tutto quello che la sua volontà gli suggerisce: esistono, infatti, limiti normativi le cui fonti vanno ricercate altrove che nel comando del potere temporale. Nella visione maistriana, la legittimità formale e sostanziale di un regime è data dal rispetto dei canoni fondamentali da parte del comando positivo; quindi, come osserva Fisichella, «il diritto non è ridotto a volontà esclusiva del sovrano temporale e pro tempore, ma tale volontà deve sempre adeguarsi ad una norma che appare vigente in virtù di una sua intrinseca superiore razionalità» (p. 89). Contro il principio dell’onnipotenza dell’umano legislatore, il filosofo di Savoia respinge l’idea che possa darsi una specie di sovranità che non risulti assoluta: la si consideri attributo di un solo uomo ovvero di un gruppo più o meno ristretto, si organizzino e si bilancino i poteri come meglio aggrada, la sovranità è pur sempre «una, inviolabile e assoluta», onde non può essere giudicata, a pena di vedere dissolvere la società politica.
Secondo l’impostazione teorica maistriana, parlare di sovranità assoluta non equivale a parlare di sovranità arbitraria: la sovranità può tutto unicamente nel suo ambito di competenza, tracciato dalle leggi fondamentali di ciascun Paese. Entro tale quadro di «regole generali», ove nessuno ha diritto di dire alla sovranità che è ingiusta o in errore, si trovano leggi che gli stessi re si sono riconosciuti nella «felice impossibilità di violare». Di conseguenza, occorre impedire al sovrano non tanto di «volere invincibilmente», perché ciò implica contraddizione, quanto piuttosto di «volere ingiustamente». 
Diritto di resistenza e ruolo del Papato
Che cosa accade se gli equilibri del potere sono scossi dall’alto? Come reagire a una sovranità che si muta in arbitrio, soffocando le libertà storiche e – dunque – corrompendo la natura stessa e la forma della sovranità? L’avversione del Savoiardo nei confronti di tutti i fenomeni di natura rivoluzionaria, reputati sempre e comunque illegittimi, non implica uguale contrarietà al diritto di resistenza, se quest’ultimo viene correttamente inteso nell’accezione tipica del giusnaturalismo medievale: nell’orizzonte teorico maistriano, infatti, mentre la rivoluzione tende ad abbattere l’ordine esistente e i valori correlati in nome di una condizione umana solo astrattamente immaginata, il diritto di resistenza trae la sua legittimità storica e morale dall’essere finalizzato al recupero di una libertà storicamente data e goduta. In altri termini, a un’insurrezione che brama introdurre «novità» Maistre contrappone una «resistenza» volta a neutralizzare quel potere che, travalicando i propri limiti, mette in discussione l’armonia fra le cose e l’originaria libertà umana (su questi temi, cfr. – con estrema cautela – GENGEMBRE 1999, pp. 222-225).
In piena continuità con la dottrina medievale, il filosofo di Chambéry esclude che la titolarità del diritto di resistenza possa essere attribuita ai sudditi: nel caso in cui il potere politico si trasformi in tirannia valicando – nella sua attività – i confini fissatigli dalla legge divina, spetta al Papato doverlo dichiarare decaduto e consacrare una nuova autorità temporale. Egli afferma che questa supremazia dell’elemento spirituale trae origine dalla coincidenza fra leggi della natura e leggi della Chiesa. Gli uomini del Medioevo, consapevoli di questa fondamentale identità, riconoscevano un’unità di credenza per la quale si vedeva nel papa un essere dinanzi a cui tutto si piegava perché dotato di potere puramente spirituale. Deriva da questa «opinione universale» l’esercizio dei diritti pontifici di impedire e di freno nei confronti dei sovrani temporali le cui azioni contravvengono ai precetti della Legge: risulta proficuo l’appello ai valori in nome dei quali il potere spirituale svolge la sua missione «garantista», solo qualora essi siano unitariamente condivisi tanto dai sovrani temporali quanto dai sudditi. D’altra parte, rileva il Conte, i sovrani sono in grado di comandare efficacemente e in maniera durevole soltanto nel quadro delle cose riconosciute dall’opinione del pubblico.
Senonché, la frattura dell’unità religiosa medievale – alla quale ultima si accompagnava l’unità politica della monarchia europea – ha provocato nel mondo occidentale le immani calamità delle guerre di religione e della Rivoluzione francese. Il Protestantesimo, col suo innato «spirito di divisione», negando l’unità e l’universalità del potere spirituale, ne ha minato l’autorità morale e sociale. Le Chiese nazionali, «separate», si sono fatalmente ridotte «a meri strumenti della sovranità temporale, divenendo così incapaci di ricordare ad essa i limiti della sua competenza» (p. 104). Una volta distrutta l’autorità spirituale, il Protestantesimo ha voluto distribuire una particella del potere su tutte le teste e ha così incrinato gravemente la sovranità politica. In nemmeno due secoli di vita, quindi, le «eresie» protestanti hanno concorso in maniera determinante a precipitare il mondo occidentale nel disordine.
Fisichella richiama l’attenzione sull’estrema problematicità di queste concezioni maistriane. Innanzitutto, l’autore di Savoia non si sofferma sufficientemente sui criteri e sulle misure atte a quantificare la rilevanza delle violazioni compiute dal potere temporale; inoltre, egli non sembra tenere in adeguata considerazione il fatto che, in un quadro storico e culturale ormai alieno dalla visione di una Respublica universale, il pontefice romano è da lungo tempo anche un monarca secolare di un’entità statale a pieno titolo; infine, la tesi – frequentemente ribadita – secondo cui l’autorità temporale e l’autorità spirituale appartengono a due ordini differenti di competenza, sembra sottintendere che «l’eventuale intervento del potere spirituale per biasimare e correggere distorsioni nel comportamento del potere temporale non darebbe luogo a violazione della sovranità politica», mentre, «quando Maistre riconosce al pontefice i diritti di impedire, di giudicare se è giunto il momento di resistenza, di sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà al monarca, appare piuttosto arduo ritenere che tale impegno dell’autorità papale configuri un giudizio esclusivamente morale (legittimo da parte di chi opera nell’ordine religioso) e non entri invece in una sfera più squisitamente politico-statuale, ove peraltro l’istanza generalista non può che essere la politica nella sua autonoma sovranità» (p. 142).
La critica del panpoliticismo
Come si è visto, pur rappresentando una dimensione importante dell’esperienza individuale e collettiva, la politica non può affatto dirsi – per il Conte – l’unica dimensione dell’esistenza umana: a suo avviso, deve esistere una tendenziale, reciproca autonomia fra dimensione politica e dimensioni non-politiche della vita individuale e collettiva. Ma quali sono, allora, i principali limiti della (alla) politica individuati dal Savoiardo? Certamente, gli interessi economici perseguiti dai privati nella sfera della società civile: il sovrano si trova, infatti, nella «felice impossibilità» di ledere l’esercizio di una serie di diritti, a partire da quelli di proprietà. L’autore di Chambéry, poi, come si è osservato, insiste molto sulla funzione di «arbitro» esercitata dall’autorità spirituale. Quest’ultima, incarnata dalla Chiesa, costituisce una potestà di ordine altro e superiore rispetto all’ordine politico, perché si occupa – in forma pressoché esclusiva – della religione e dell’etica con lo scopo, fra l’altro, di salvaguardare la condizione del cristiano come uomo universale di fronte agli eventuali abusi delle sovranità temporali. In altri termini, «il perfezionamento morale dell’uomo è qualcosa di più elevato del suo perfezionamento politico, e quest’ultimo è una “semplice derivazione” del primo. Tale autonomia dell’etica rispetto alla politica comporta un limite della (alla) politica. In particolare, comporta che nessun cristiano può essere bollato come totalmente e definitivamente nemico da alcuna sovranità temporale: e dunque, se la politica lo esclude dal novero degli “amici”, la morale ve lo include. Ciò tempera nell’universo cattolico il bellicismo orgoglioso delle sovranità nazionali, destinato ad esplodere con la disintegrazione dell’edificio ecumenico medievale» (p. 109).
Nella visione del gentiluomo savoiardo, pertanto, la politicità viene a costituire una dimensione ineliminabile, ma non illimitata, dell’esistenza umana: confina con l’autonomia, sub specie etica e sub specie economica, della società civile ed è costantemente sorvegliata dall’autorità spirituale. Donde, non sembra sussistere alcun punto in comune fra queste tesi maistriane e la propensione schmittiana al panpoliticismo. D’altro canto, secondo la lettura di Fisichella, la fisionomia del diritto di resistenza maistriano diverge nettamente anche dall’idea del potere nello stato di eccezione avanzata dal giurista tedesco: mentre il sovrano schmittiano sospende il diritto positivo pensando che sia l’intero diritto, il sovrano delineato dal Savoiardo si muove in una prospettiva giusnaturalista; in altri termini, sottraendosi alla Legge divina-naturale, nell’orizzonte teorico maistriano, il sovrano negherebbe se stesso (Fisichella contesta – in particolare – SCHMITT 1972 e 1992, specie pp. 86 e ss.; sui differenti punti di vista dei due autori, cfr. anche CATTABIANI 2000, pp. 6 e 10).
Monarchia, aristocrazia e democrazia
Lo scrittore di Chambéry ritiene che, dinanzi alle innumerevoli spinte verso il male, una società priva di ordine non possa che precipitare nell’anarchia, una condizione in cui è soprattutto il più debole a subire e patire. In questo quadro, la sanzione e la coazione rappresentano indispensabili misure di giustizia: ed egli parla, beninteso, dal punto di vista del principio dell’ordine, e non delle degenerazioni fenomeniche della sovranità e dell’ordine, che – viceversa – attengono ad un potere che ha cessato di essere autorità. In via preliminare, il Conte rileva che sempre e dappertutto è presente un’«aristocrazia» costituita di elementi di alti natali e di grande ricchezza, e incaricata di comandare l’insieme dei sudditi (in tale contesto, come indica Fisichella, «l’uso che Maistre fa della parola “aristocrazia” anticipa e richiama la “classe politica” di Gaetano Mosca» [p. 119], perciò il Savoiardo non vuole qui alludere a «una delle modalità specifiche in cui sono organizzati la classe politica e i suoi rapporti con la classe governata» [p. 120]). Ciò posto, le forme istituzionali in cui può atteggiarsi la sovranità sono molteplici, per quanto – a giudizio di Maistre – sia necessario non tacere l’esistenza di un «governo più naturale per l’uomo»: e questo è, a suo avviso, la monarchia di diritto divino sorta e plasmatasi nel Vecchio Continente nel corso dei secoli. La «superiorità naturale» della monarchia è dovuta almeno a due fattori: da una parte, in essa l’unità personale del sovrano e l’unità essenziale della sovranità vengono a coincidere, laddove nell’aristocrazia e nella democrazia l’unità della sovranità, pur mantenuta, risulta frazionata secondo il numero delle persone che costituiscono il «sovrano»; dall’altra, la storia insegna che la monarchia è l’unico sistema di governo capace di dare un fondamento religioso alla politica, facendosi – in tal modo – garante della conservazione del difficile equilibrio fra libertà e leggi universali.
Nell’orizzonte teorico del Savoiardo, la forma monocratica retta di governo può contare sull’intervento super partes del re e sulla presenza della legge, due fattori che concorrono a inibire le eventuali prevaricazioni della «classe di governo»: il monarca saggio e devoto viene così a rappresentare quella vivente garanzia dei diritti del popolo che difetta alla forma aristocratica. Come osserva Fisichella, «le funzioni di “unità sovrana” e di “policrazia” aristocratica assicurano (secondo la grande tradizione europea di “governo misto”, cui perciò anche la riflessione maistriana, peraltro solo entro tali limiti, si allaccia) un livello di uguaglianza e di libertà non inferiore, ma spesso superiore, a quello garantito da ogni altro reggimento a un più grande numero di uomini» (ibid.).
Passando ad analizzare i caratteri della democrazia, il gentiluomo di Chambéry mette in rilievo come essa persegua l’ideale della sovranità popolare. Allo stato puro, tale forma di governo non può esistere, a suo giudizio, in quanto l’idea stessa di un popolo intero che sia – insieme – sovrano e legislatore risulta priva di senso: sovranità di tutti significa assenza de facto di sovranità. Sennonché, una volta riconosciuta la fisionomia «idealtipica» – e, dunque, irrealizzabile – della democrazia «perfetta», Maistre focalizza l’attenzione sui governi democratici documentati storicamente: egli è persuaso che ciascuno di essi, tendendo a «disperdere» la sovranità su innumerevoli teste, si condanni a un pluralismo fuori misura. Anche per questo, a suo avviso, tutte le versioni realizzate della forma di governo democratica portano in sé i germi della caducità, onde non sono in grado di reggere alla prova del tempo e – anzi – facilmente si rovesciano nel loro esatto opposto, il «dispotismo». È superfluo sottolineare come, entro tale quadro, la visione di libertà proposta da Maistre differisca profondamente da quella democratica: nella sua prospettiva, infatti, «il re che risponde a Dio è più responsabile del popolo che non ha un alter cui rispondere» (p. 128)

Indice

Premessa
I. Molteplicità di filoni interpretativi
II. Tradizionalismo come metaparadigma
III. Il principio religioso: creatore e conservatore
IV. Scienza politica e “perfezione possibile”
V. Ambivalenza del reale: tra violenza e Grazia
VI. La questione del giusnaturalismo
VII. Ragione individuale e ragione universale
VIII. Il ruolo delle leggi fondamentali
IX. Decisione e legittimità
X. Autorità, potere e ordine
XI. Democrazia, o della breve durata
XII. Fine dell’Europa?
Profilo biografico

Bibliografia

BERLIN 1996: I. Berlin, “Joseph de Maistre e le origini del fascismo”, in Id., 
Il legno storto dell’umanità. Capitoli della storia delle idee (1990), a cura di H. Hardy, tradd. itt. di G. Ferrara degli Uberti e G. Forti, Milano 19962 (19941), pp. 139-243CATTABIANI 2000: A. Cattabiani, Introduzione a J. de Maistre, Breviario della tradizione, a cura del medesimo, Rimini 2000, pp. 5-12
CHIGNOLA 1999: S. Chignola, “Il concetto controrivoluzionario di potere e la logica della sovranità”, in G. Duso (a cura di), Il potere. Per la storia della filosofia politica moderna, Roma 1999, pp. 323-339.
FISICHELLA 1963: D. Fisichella, Giusnaturalismo e teoria della sovranità in Joseph de Maistre, Messina-Firenze 1963 (ora in Id., Politica e mutamento sociale, Lungro di Cosenza 2002, pp. 191-243)
FISICHELLA 1993: D. Fisichella, Il pensiero politico di de Maistre, Roma-Bari 1993
GALLI 1981: C. Galli, Introduzione a Id. (a cura di), I controrivoluzionari. Antologia di scritti politici, Bologna 1981, pp. 7-44
GENGEMBRE 1999: G. Gengembre, “De la bonne résistance selon la contre-révolution”, en J.-C. Zancarini (textes réunis par), Le Droit de résistance. XIIe-XXe siècle, en collaboration avec Chr. Biet, M. Crampe-Casnabet, A. Fontana et J.Ch. Zarka, Paris 1999, pp. 217-225.
RAVERA 1986: M. Ravera, Joseph de Maistre pensatore dell’origine, Milano 1986.
SCHMITT 1972: C. Schmitt, “Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità” (19342, 19221), in Id., Le categorie del ‘politico’. Saggi di teoria politica, a cura di G. Miglio e P. Schiera, trad. it. di quest’ultimo, Bologna 1972, pp. 29-86
SCHMITT 1992: C. Schmitt, Teologia politica II. La leggenda della liquidazione di ogni teologia politica (19842, 19701), trad. it. di A. Caracciolo, Milano 1992.

L'autore

Domenico Fisichella è vicepresidente del Senato della Repubblica Italiana. Professore ordinario di “Dottrina dello Stato” e di “Scienza della politica” presso le Università di Firenze e “La Sapienza” di Roma, è autore di numerosi volumi e saggi tradotti in varie lingue. Tra le sue opere più recenti, si segnalano: Epistemologia e scienza politica, Roma 1994; Il potere nella società industriale. Saint-Simon e Comte, Roma-Bari 1995; La rappresentanza politica, Roma-Bari 1996; L’altro potere. Tecnocrazia e gruppi di pressione, Roma-Bari 1997; Totalitarismo. Un regime del nostro tempo, Roma 2002; Lineamenti di scienza politica. Concetti, problemi, teorie, Roma 2005; Denaro e democrazia. Dall’antica Grecia all’economia globale, Bologna 2005.


Links


A cura di R. Lebrun, profilo biografico di Maistre, alcuni suoi scritti in formato elettronico e amplissima bibliografia di studi critici dedicati al suo pensiero (in inglese e in francese): 
Brani tratti dalle opere del conte savoiardo, introduzione al suo pensiero e – a cura di C. Galli – commento dello stesso (in italiano):
A cura di S. Chignola, notizie sulle edizioni italiane recenti degli scritti di Maistre e sulla letteratura critica dedicata al suo pensiero (in italiano): 
Breve biografia, videofruizione di alcune opere del Savoiardo e bibliografia critica (in francese): 
Videofruizione di P. Matyaszewski, La Philosophie de la société ou l’idée de l’unité humaine selon Joseph de Maistre, Lublin 2002, pp. 27-53 (in francese): 
Articolo di J. Evola, intitolato “Maestri della Destra: Joseph de Maistre”, apparso ne «Il Conciliatore», a. XXI (1972), n. 11, pp. 443-444 (ora in Id., I testi de «Il Conciliatore», a cura di A.K. Valerio, Padova 2002, pp. 211-213) (in italiano): 

martedì 24 gennaio 2006

Rivera, Annamaria, La guerra dei simboli. Veli postcoloniali e retoriche sull’alterità.

Bari, Dedalo, 2005, pp. 144, € 14,00, ISBN 88-220-6286-8.

Recensione di Luigi Marfé - 24/01/2006

Sociologia (globalizzazione – multiculturalismo)

Quando il soldato fa fuoco e il nemico crolla al suolo, il lettore di Sentry di Fredric Brown tira il fiato, dacché il protagonista è salvo; poi l’ultima frase gira la prospettiva: a terra è rimasto l’invasore umano e il soldato in cui ci siamo immedesimati è l’alieno. In un’epoca di rivolgimenti migratori e fondamentalismi contrapposti, il rapporto tra noi e gli altri è sempre sull’orlo dell’incomprensione e della violenza e a venir meno è soprattutto la disponibilità all’ascolto. Dacché indaga il fondo marcio delle retoriche con cui i media e il potere condannano ciò che è diverso, La guerra dei simboli di Annamaria Rivera compie lo stesso movimento del racconto e getta sulle culture altre dalla nostra uno sguardo che invita a fare esperienza di sé nell’esperienza dell’altro.
Il libro ridiscute le tesi del relativismo culturale. Idiografica piuttosto che nomotetica, l’antropologia relativista di Franz Boas si sviluppa nell’America degli anni Trenta in reazione all’evoluzionismo positivista e al razzismo hitleriano. Il metodo storiografico di cui si serve rinuncia alla ricerca di leggi generali, sottolinea la carica originale delle culture altre e ne contesta la qualifica di fossili superati dalla civiltà europea. Il discorso è ripreso da sociologi come Èmile Durkheim e Marcel Mauss; in Italia, l’autrice loda l’etnocentrismo critico di Ernesto De Martino, secondo cui l’antropologo deve liberarsi dalla prigione della storia particolare in cui è immerso per riflettere su come ciascuna cultura tagli il mondo in categorie differenti e sue proprie.
La guerra dei simboli si divide in tre parti. Il primo capitolo indaga le ragioni antropologiche del divieto del velo islamico in Francia; il secondo decostruisce i pregiudizi contro il relativismo culturale; l’ultimo si sofferma sulle contraddizioni dell’etnocentrismo occidentale.
Il divieto di ostentare segni religiosi a scuola risale in Francia al 2004, ma la questione aveva assunto una risonanza ipertrofica fin dall’espulsione di due studentesse nel 1989 a Creuil. Il libro si sofferma sulle tensioni non sopite del paese: l’emarginazione della popolazione maghrebina ha infatti trasformato la qualifica di immigrato da status di passaggio in tara ereditaria. Il timore dei francesi trasforma arabo in una categoria neoetnica che è rivendicata con l’orgoglio del verlan dai giovani beurs, secondo una dialettica di stigmatizzazione – esclusione – comunitarismo. Benché posseggano cognizioni religiose approssimative, molti si appropriano per reazione di un’identità mai vissuta e nelle banlieues si crea una trans-nazione non territoriale fautrice di un nazionalismo a lunga distanza. Il rigetto di questo comunitarismo dipende da un senso della comunità altrettanto forte nella maggioranza; la proibizione dell’hijâb è giustificata dalla pretesa di salvare l’autodeterminazione delle donne. Il richiamo alla laicità dello stato è però contraddittorio, dacché riguarda le scuole ma non gli utenti, cui è garantita libertà di culto. L’Islam è una realtà più differenziata di quanto l’isteria politica voglia far credere; simbolo polisemico, il velo re-inventa la tradizione e rovescia lo stigma: se per i francesi rappresenta un’alterità che non si lascia assimilare, di là dalle pressioni oscurantiste, talora è scelta volontaria o persino vettore di emancipazione, che fa ottenere a chi lo indossa il permesso familiare di uscire o studiare. L’hijâb è perturbante perché non risponde a nessun canone definito di bellezza; le femministe che plaudono ai divieti sembrano non accorgersi che in questa vicenda la donna è muta in mezzo a due poteri maschili in lotta per assoggettarla. La libertà femminile non cresce infatti in proporzione diretta o inversa ai centimetri scoperti; sarebbe piuttosto auspicabile che, invece di dire, i corpi tornassero ad alludere e il nascondimento del visibile servisse a rivelare la soggettività di ciascuna.
(Montata dalla baldanzosità celtica e machista della Lega e di Oriana Fallaci, in Italia la polemica è invece sempre svaporata in bolla di sapone; la retorica dei media ha puntato sull’arretratezza e l’estraneità dell’Islam alla tradizione del paese: anche la Chiesa ha insistito nella demonizzazione, per rinsaldare presunte radici cristiane indebolite dalla secolarizzazione).
Dopo l’11 settembre, il furore dell’Occidente di imporre la propria visione del mondo ha tolto il relativismo culturale dal lessico specialistico dell’antropologia per esecrarlo come quinta colonna del terrorismo. La retorica politica ha scelto l’arma dell’imperativo apodittico; giusta o sbagliata, l’imposizione della nostra civiltà a scapito delle altre è irrinunciabile, a meno di cascare in mano al nemico. Ma la forza della civiltà europea è sempre dipesa dalla capacità di crearsi da sé il vaccino alle proprie pretese di universalità; c’è una linea della perplessità, che da Erodoto e Protagora giunge prima a Montaigne e Rousseau e poi a Lévi-Strauss e Derrida, che insiste nel far passare la scoperta del sé attraverso il riconoscimento dell’altro. Per decifrare un comportamento collettivo o un fatto culturale tocca calarlo nel sistema concettuale che gli è proprio, dacché anche sentimenti reputati primari sono di solito modellati culturalmente. Attraversate da asimmetrie e differenze, numerose culture tagliano i concetti secondo dicotomie differenti dal paradigma scientifico europeo; non bisogna fare astrazione delle proprie categorie, ma relativizzarle e metterle a dialogo, dacché l’antropologia è una negoziazione bi-direzionale. Conoscere non vuol dire giustificare; il relativismo culturale non va confuso con il relativismo etico, dacché non riflette su tesi morali, ma studia comportamenti sociali. Per svelare varianti e universalizzanti antropologiche, occorre de-categorizzare e ri-categorizzare: l’universalità va articolata con la pluralità, dacché non è un concetto dato per sempre, ma un divenire policentrico e trans-culturale. 
Dacché in periodi di nazionalismo con il concetto di civiltà ciascuno ha finito sempre per indicare la propria, l’antropologia predilige oggi la categoria meno impegnativa e totalizzante di cultura. Riprendendo le tesi di Horkeimer e Adorno, il libro sostiene che fin dall’illuminismo l’Europa sia affetta da un cattivo universalismo etnocentrico e proto-razzista. L’ascesa della borghesia e l’arrestarsi moderato della rivoluzione spogliano il concetto di civiltà della sua aura di processo incompiuto e ne fanno una realtà pronta per l’esportazione. Gli anticorpi relativisti si perdono; mentre per gli illuministi il selvaggio era salvo dai pregiudizi della società e buono per natura, il xix secolo lo considera invece biologicamente inferiore. La messa in discussione della tratta degli schiavi rende necessaria una giustificazione della superiorità della razza bianca e le teorie degenerazioniste rovesciano il darwinismo; la difesa del colonialismo conduce alle aberrazioni novecentesche del razzismo crepuscolare e antisemita di Spengler e del nazismo. Non basta il richiamo a principi universali a salvare dalla barbarie, dacché in nome di questi sono stai compiuti innumerevoli orrori; occorre piuttosto che gli stati si dotino di strumenti per impedire il ritorno dei propri demoni peggiori. La civiltà è un concetto fragile e provvisorio, indifeso e sempre reversibile, da riconoscere giorno per giorno, cui dare spazio e far durare. 
La guerra dei simboli condanna la cattiva antropologia che fa dell’altro l’ipostasi metafisica colpevole del disordine del cosmo e dello sfascio della società, secondo un atteggiamento simmetrico a quello jihadista. La polemica è soprattutto con la retorica neo-conservatrice di Samuel P. Huntington, che tematizza lo scontro di civiltà tra the West and the Rest. In questo senso, la smania di vietare il velo è giudicata non lontana dalle follie di Abu Ghraib; l’Occidente deve guardarsi dal mettere la potenza di cui è capace al servizio della propria ossessione di esorcizzare ciò che non conosce.

Le tesi del libro sono nette; benché sempre misurata, la difesa del relativismo rischia però di astrarre le culture dai rapporti di forze in cui sono calati e sviluppare un gusto esotico che risolve le differenze in una collezione di farfalle. Dietro la difficoltà di far seguire al riconoscimento delle antinomie soluzioni efficaci, resta un invito al dialogo che privilegia la comprensione sulla norma e la descrizione sulla spiegazione. Lo sguardo dell’antropologo decostruisce i riti del provincialismo etnocentrico; le frontiere tra il sé e l’altro non sono rigide, ma piuttosto sottili, porose e ricettive: tocca insomma lasciarsi contaminare, immedesimarsi nell’altro per capire se stessi. Di ritorno dall’Iran, Italo Calvino ricordava come al fondo della moschea di Ispahan il luogo più sacro sia la porta che si apre sul nulla del mirhab: i giochi di vuoto dell’architettura araba esprimono la fiducia che la conoscenza non sia appropriazione, ma ascolto e seduzione, nell’attesa che il giro sul bilico dell’alterità sposti il confine del non detto un poco più avanti.

torna all'inizioIndice


Introduzione
Capitolo primo. L’interdetto del velo. Antropologia di una contesa dei simboli
Capitolo secondo. Gli spettri del comunitarismo e del relativismo culturale
Capitolo terzo. Noi, la civiltà. Fasti e nefasti di una nozione controversa
Glossario critico essenziale
Bibliografia

L’autrice

Annamaria Rivera, antropologa, è professore di etnologia nell’Università di Bari. È autrice, co-autrice e curatrice di numerosi saggi e volumi fra i quali: Estranei e nemici. Discriminazione e violenza razzista in Italia (Roma 2003), L’inquietudine dell’islam (Bari 2002), L’imbroglio etnico, in quattordici parole-chiave (Bari 2001), Homo sapiens e mucca pazza. Antropologia del rapporto con il mondo animale (Bari 2000). Fra i suoi molteplici campi di studio e di ricerca, vi è l’indagine critica di categorie e concetti-chiave delle scienze sociali e l’analisi delle metamorfosi dell’etnocentrismo e del razzismo nelle società contemporanee.

domenica 22 gennaio 2006

Ariemma, Tommaso, Fenomenologia dell’estremo. Heidegger, Rilke, Cézanne.

Milano, Mimesis, 2005, pp. 132, € 13,00, ISBN 88-8483-390-6.

Recensione di Filippo Scarselli – 22/01/2006

Il testo di Ariemma si pone di fronte ad un tema centrale per la riflessione teoretica, con evidenti ricadute sul piano dell’estetica e dell’epistemologia: “la questione del questo sensibile e della sua ideazione linguistica, ossia l’intreccio di singolarità e articolazione del senso, dove la prima, eminentemente sensibile e sempre più d’una, appare innanzitutto al di là del senso, non utilizzabile come semplice veicolo di questo, e tuttavia costituente insieme al senso una soglia d’indecidibilità” (pp. 11-12). L’estremo nominato dal titolo è dunque la pura singolarità di ciò che appare in quanto tale, da intendersi all’interno di un ripensamento della dimensione stessa dell’apparire. Il pensiero filosofico classico pensa infatti il fenomeno, l’apparizione, in funzione di un qualcosa d’altro che vi si manifesta come ciò che più conta (il significato, l’essenza, l’idea, il concetto etc.); questo significa che ciò che appare è soltanto in quanto altro da sé, nel momento in cui si cancella per dare a vedere l’essenziale. Al contrario l’Autore sostiene che un pensiero autenticamente fenomeno-logico dovrebbe tematizzare l’articolazione e il rapporto tra apparenza e discorso, senza che nessuno degli estremi di questa coppia oppositiva neghi o riduca l’estremo stesso, ovvero l’originaria e indissolubile complicazione tra “questo” sensibile (l’apparenza, il fenomeno) e ideazione linguistica (il discorso, il logos).
Il progetto di Ariemma si articola in due momenti, che si sovrappongono pressoché totalmente alle due parti in cui è diviso il testo: una pars destruens, in cui si critica la trattazione del tema dell’apparire nel pensiero di Heidegger (cap. I) e nell’estetica trascendentale fenomenologica di Husserl (cap. II, pp. 55-70), individuando alcuni elementi alternativi nell’estetica di Bergson (cap. II, pp. 71-81); una pars construens,in cui si propone, attraverso Rilke e Cézanne, la tematizzazione dell’estremo da parte di un’estetica basata sull’opera d’arte (cap. II, pp. 77-84; capp. III e IV).

In Heidegger la questione sembra farsi evidente allorché l’autenticità del pensiero è individuata nel pensare l’inapparenza stessa, l’Essere in quanto sottrazione che lascia apparire l’ente. L’Essere, in quanto al di là del pensiero, si configura nel pensatore tedesco come un Dire originario che ci chiama a pensare, ovvero a udire, a corrispondere all’Essere stesso nel suo sottrarsi, distogliendo dunque lo sguardo dall’ente in quanto semplicemente presente. Scrive l’Autore: “L’unum necessarium – per dirla teologicamente – , l’unica cosa che merita di essere pensata è questo Uno-Tutto che si sottrae, l’essere prima, cioè al di là, dell’ente, il Logos prima di ogni parola pronunciata con una voce singolare. Questa privazione dovrebbe gettarci tra le braccia del mondo sensibile, privandoci di un pensiero ‘autentico’, come se un dio fuggito ci restituisse il mondo che ci siamo riguadagnati. Ma Heidegger prende posizione a favore di questo dio fuggito, che attrae, rivendicando in qualche modo una certa […] appartenenza” (p. 30).
La filo-logia heideggeriana, l’assoluta primarietà e anteriorità di un linguaggio sottratto a ciò che appare, tipica della produzione posteriore a Essere e tempo, cancella il mondo come conglomerato di singolarità sensibili e con esso l’opera d’arte, in quanto produttrice anch’essa di singolarità: “la singolarità dell’opera, il suo ‘che’, si mostra solo come significante dell’essere, nel suo ‘che è’. […] La singolarità di un’opera non consiste in nient’altro che nell’essere segno dello storicizzarsi della verità” (p. 49).

Per quanto riguarda l’estetica trascendentale di Husserl, i cui esiti problematici sono messi in luce con molta precisione dall’Autore, sebbene la hyle possa essere considerata come “il continuo differenziarsi di singolarità, quello sfondo temporale latente nel quale ogni coscienza è da sempre invischiata” (p. 64), quella riserva attraverso cui l’ideazione coscienziale “può fondare delle oggettività trascendenti la sfera immanente e soggettiva della coscienza” (p. 65), essa è ricondotta nell’alveo di un vissuto di coscienza che non a caso la ‘anima’ – la porta cioè all’essenziale – attraverso la morphé intenzionale. In questo movimento Ariemma, sulla scorta di Derrida, rileva tutta la potenza aporetica di una retrocostituzione, consistente nel “posizionare, sempre fallimentare, ciò che nello stesso posizionare della coscienza è già latentemente all’opera e necessario” (pp. 65-66). Husserl tuttavia risolve questo momento aporetico affidando il primato all’intenzionalità, strutturata secondo le modalità dell’afferramento concettuale su base linguistica, secondo quella metafisica della presa che sarà poi dello stesso Heidegger.

Il tentativo dell’Autore di recuperare il sensibile attraverso una parola, attraverso un dire che non sia meramente astrattivo o ricostruttivo rispetto al continuum di singolarità, prende a concretizzarsi nelle pagine dedicate all’estetica di Bergson, in cui si mettono in luce tutte le difficoltà di una dottrina dell’intuizione radicale, capace cioè di essere interna alla durata, all’ “affermativo differenziarsi delle qualità sensibili” (p. 75) senza perciò ridurla, come nella fenomenologia, a un medium omogeneo e neutro rispetto alla concettualizzazione. Ecco che allora “affinché ciò che è unico non dilegui davanti ad una coscienza assoluta, o sia lasciato da un’esperienza in vista di un significato, deve essere portato nella presenza: l’unico deve diventare essenziale, senza esserlo. Deve essere mantenuto, curato da un linguaggio che libera, posto al limite del linguaggio generalizzante, e vicino alla singolarità pur non essendola propriamente in quanto contaminazione insopprimibile” (p. 76).

Tale compito può essere assolto soltanto dall’arte, in particolare dalla poesia, da un dire disseminante, in grado di mettere in tensione il tessuto linguistico dell’ideazione concettuale fino a smagliarlo. Infatti, nella seconda parte del testo, Ariemma prende in esame, come proposta positiva di fenomeno-logia dell’estremo, la produzione poetica di Rilke e quella pittorica di Cézanne: l’opera di questi due autori è in grado di esporre il “questo” sensibile senza per ciò porlo nell’orizzonte dell’utilizzabilità e della funzionalità, di presentare e non presentare insieme il singolare (cfr. p. 92). 
Per quanto riguarda Rilke l’Autore si misura in una serrata analisi di molti testi, mettendo in luce quel lungo apprendistato verso la trasgressione mai pienamente realizzabile del linguaggio, che porta il poeta a farsi carico del compito infinito della restituzione del sensibile entro e contemporaneamente oltre l’orizzonte del dire: “ Un poeta che sappia del suo poetare è consapevole che la sua opera è un seme che non produce Un significato, ma più d’Uno per la sua fondamentale intenzione di voler toccare, di trattenere sensibilia che disturbano il comUNIcare riuscendo a ‘babelizzare’ il voler dire. L’effetto babelico è la conseguenza dell’impossibilità di raggiungere e contenere la creazione, di farne un contenuto, mentre l’opera trattiene, contaminando” (pp. 99-100).

Il punto più alto è raggiunto però, secondo Ariemma – che segue a questo proposito l’interpretazione dello stesso Rilke – dalla pittura, in particolar modo da quella di Cézanne, in grado di concretare il linguaggio ponendosi “in una zona di indiscernibilità interiore ed esteriore. L’immagine di Cézanne è differenza in sé” (p. 108). Il pittore francese dipinge ripetutamente quello che sembra essere lo stesso soggetto, come nel celeberrimo caso della montagna Sainte-Victoire, per mostrare al contrario l’irriducibilità l’una all’altra delle singole visioni, dei singoli momenti che compongono la visione: “Perché la pittura racchiude il segreto dell’impressione, che non è mai riducibile alla mera ricettività, ma è già essa stessa com-posizione. Cézanne assume su di sé, così, il gravoso compito dell’inizio, un inizio mai puro e che è già una ripetizione, un motif” (p. 110).

La proposta alternativa che Ariemma elabora a partire dall’opera di Rilke e Cézanne, sembra concretarsi quando, discutendo l’interpretazione di Merleau-Ponty dell’opera del pittore francese, ne ribalta radicalmente la prospettiva: Cézanne “non vuole parlare; […] i sensi restituiscono di più di quanto il quadro per noi dice, poiché Cézanne è Cézanne per una differenza eminentemente sensibile; […] cominciamo con il non comprendere perché la pittura non parla pur organizzando i colori, cioè pur usando impropriamente, ossia al 'singolare', un linguaggio” (p. 113)

Possiamo annotare in conclusione che quello di Ariemma è un libro ben scritto, molto fine e accurato, nonché chiaro nelle analisi, soprattutto in fase critica – davvero notevoli le pagine relative all’estetica fenomenologica di Husserl e l’Appendice 1,dedicata all’evoluzione della questione del mondo nel pensiero di Heidegger; pur centrato su Husserl, Heidegger e Bergson, questo lavoro ha il pregio di discutere, seppur brevemente, molte altre posizioni filosofiche classiche sul problema del “questo” sensibile (Platone, Aristotele, Duns Scoto, Cartesio, Kant, Hegel) contribuendo così a chiarire i punti nodali della questione.
Se qualcosa possiamo lamentare è relativo alla pars construens, che, nell’analisi dell’opera di Rilke e di Cézanne, spesso lascia implicito l’impianto filosofico di fondo su cui si regge. In alcuni passaggi la proposta fenomeno-logica alternativa di Ariemma, soprattutto nelle pagine dedicate al pittore francese, sembra scivolare in una sorta di fenomenismo, anticamera di un silente misticismo dell’arte. Attenzione, scriviamo “sembra” proprio perché siamo convinti che l’Autore non abbracci la semplicistica soluzione di ribaltare il logocentrismo fenomenologico classico in un fenomenocentrismo, che di fatto riprodurrebbe la stessa struttura rispetto a cui è critico. Purtroppo però troviamo che certi fraintendimenti, a nostro avviso possibili, non siano sufficientemente discussi; in questo senso rileviamo che la proposta filosofica di Derrida, sebbene Ariemma faccia uso di molti “concetti” provenienti dalla decostruzione, sia utilizzata attraverso numerosi riferimenti nella prima parte del testo, per poi però rimanere nell’ombra quando, nella seconda parte, maggiormente servirebbe renderne espliciti i punti di contatto e di eventuale disaccordo. 

Indice

Introduzione
PARTE PRIMA. LOGICA DELL’ESTREMO: L’AL DI LÀ DEL PENSIERO E LA VERITÀ DEL LINGUAGGIO
I. Dalla parte del Logos: la filo-logia di Heidegger
II. Il pensiero dell’essere e l’abbondanza del sensibile. La situazione limite della poesia e dell’arte
PARTE SECONDA. ESTETICA DELL’ESTREMO: RILKE E CÉZANNE
III. Il trasgredire dell’angelo
IV. Il compito di Cézanne
Conclusione
Appendice 1. Il “mondo” di Heidegger dall’ermeneutica della fatticità all’apertura dell’essere

Appendice 2. Henry e Derrida interpreti delle Lezioni del 1905 di Husserl

L'autore

Tommaso Ariemma (Napoli 1980) svolge un dottorato di ricerca presso la facoltà di Filosofia dell’Università degli Studi di Parma. Collabora inoltre con la cattedra di Estetica dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. È co-fondatore e direttore della rivista di filosofia, arte e letteratura “Ameba”. Ha pubblicato diversi saggi e articoli su questioni riguardanti l’estetica, il pensiero tedesco e francese contemporaneo.