Recensione di Filippo Scarselli – 22/01/2006
Il testo di Ariemma si pone di fronte ad un tema centrale per la riflessione teoretica, con evidenti ricadute sul piano dell’estetica e dell’epistemologia: “la questione del questo sensibile e della sua ideazione linguistica, ossia l’intreccio di singolarità e articolazione del senso, dove la prima, eminentemente sensibile e sempre più d’una, appare innanzitutto al di là del senso, non utilizzabile come semplice veicolo di questo, e tuttavia costituente insieme al senso una soglia d’indecidibilità” (pp. 11-12). L’estremo nominato dal titolo è dunque la pura singolarità di ciò che appare in quanto tale, da intendersi all’interno di un ripensamento della dimensione stessa dell’apparire. Il pensiero filosofico classico pensa infatti il fenomeno, l’apparizione, in funzione di un qualcosa d’altro che vi si manifesta come ciò che più conta (il significato, l’essenza, l’idea, il concetto etc.); questo significa che ciò che appare è soltanto in quanto altro da sé, nel momento in cui si cancella per dare a vedere l’essenziale. Al contrario l’Autore sostiene che un pensiero autenticamente fenomeno-logico dovrebbe tematizzare l’articolazione e il rapporto tra apparenza e discorso, senza che nessuno degli estremi di questa coppia oppositiva neghi o riduca l’estremo stesso, ovvero l’originaria e indissolubile complicazione tra “questo” sensibile (l’apparenza, il fenomeno) e ideazione linguistica (il discorso, il logos).
Il progetto di Ariemma si articola in due momenti, che si sovrappongono pressoché totalmente alle due parti in cui è diviso il testo: una pars destruens, in cui si critica la trattazione del tema dell’apparire nel pensiero di Heidegger (cap. I) e nell’estetica trascendentale fenomenologica di Husserl (cap. II, pp. 55-70), individuando alcuni elementi alternativi nell’estetica di Bergson (cap. II, pp. 71-81); una pars construens,in cui si propone, attraverso Rilke e Cézanne, la tematizzazione dell’estremo da parte di un’estetica basata sull’opera d’arte (cap. II, pp. 77-84; capp. III e IV).
In Heidegger la questione sembra farsi evidente allorché l’autenticità del pensiero è individuata nel pensare l’inapparenza stessa, l’Essere in quanto sottrazione che lascia apparire l’ente. L’Essere, in quanto al di là del pensiero, si configura nel pensatore tedesco come un Dire originario che ci chiama a pensare, ovvero a udire, a corrispondere all’Essere stesso nel suo sottrarsi, distogliendo dunque lo sguardo dall’ente in quanto semplicemente presente. Scrive l’Autore: “L’unum necessarium – per dirla teologicamente – , l’unica cosa che merita di essere pensata è questo Uno-Tutto che si sottrae, l’essere prima, cioè al di là, dell’ente, il Logos prima di ogni parola pronunciata con una voce singolare. Questa privazione dovrebbe gettarci tra le braccia del mondo sensibile, privandoci di un pensiero ‘autentico’, come se un dio fuggito ci restituisse il mondo che ci siamo riguadagnati. Ma Heidegger prende posizione a favore di questo dio fuggito, che attrae, rivendicando in qualche modo una certa […] appartenenza” (p. 30).
La filo-logia heideggeriana, l’assoluta primarietà e anteriorità di un linguaggio sottratto a ciò che appare, tipica della produzione posteriore a Essere e tempo, cancella il mondo come conglomerato di singolarità sensibili e con esso l’opera d’arte, in quanto produttrice anch’essa di singolarità: “la singolarità dell’opera, il suo ‘che’, si mostra solo come significante dell’essere, nel suo ‘che è’. […] La singolarità di un’opera non consiste in nient’altro che nell’essere segno dello storicizzarsi della verità” (p. 49).
Per quanto riguarda l’estetica trascendentale di Husserl, i cui esiti problematici sono messi in luce con molta precisione dall’Autore, sebbene la hyle possa essere considerata come “il continuo differenziarsi di singolarità, quello sfondo temporale latente nel quale ogni coscienza è da sempre invischiata” (p. 64), quella riserva attraverso cui l’ideazione coscienziale “può fondare delle oggettività trascendenti la sfera immanente e soggettiva della coscienza” (p. 65), essa è ricondotta nell’alveo di un vissuto di coscienza che non a caso la ‘anima’ – la porta cioè all’essenziale – attraverso la morphé intenzionale. In questo movimento Ariemma, sulla scorta di Derrida, rileva tutta la potenza aporetica di una retrocostituzione, consistente nel “posizionare, sempre fallimentare, ciò che nello stesso posizionare della coscienza è già latentemente all’opera e necessario” (pp. 65-66). Husserl tuttavia risolve questo momento aporetico affidando il primato all’intenzionalità, strutturata secondo le modalità dell’afferramento concettuale su base linguistica, secondo quella metafisica della presa che sarà poi dello stesso Heidegger.
Il tentativo dell’Autore di recuperare il sensibile attraverso una parola, attraverso un dire che non sia meramente astrattivo o ricostruttivo rispetto al continuum di singolarità, prende a concretizzarsi nelle pagine dedicate all’estetica di Bergson, in cui si mettono in luce tutte le difficoltà di una dottrina dell’intuizione radicale, capace cioè di essere interna alla durata, all’ “affermativo differenziarsi delle qualità sensibili” (p. 75) senza perciò ridurla, come nella fenomenologia, a un medium omogeneo e neutro rispetto alla concettualizzazione. Ecco che allora “affinché ciò che è unico non dilegui davanti ad una coscienza assoluta, o sia lasciato da un’esperienza in vista di un significato, deve essere portato nella presenza: l’unico deve diventare essenziale, senza esserlo. Deve essere mantenuto, curato da un linguaggio che libera, posto al limite del linguaggio generalizzante, e vicino alla singolarità pur non essendola propriamente in quanto contaminazione insopprimibile” (p. 76).
Tale compito può essere assolto soltanto dall’arte, in particolare dalla poesia, da un dire disseminante, in grado di mettere in tensione il tessuto linguistico dell’ideazione concettuale fino a smagliarlo. Infatti, nella seconda parte del testo, Ariemma prende in esame, come proposta positiva di fenomeno-logia dell’estremo, la produzione poetica di Rilke e quella pittorica di Cézanne: l’opera di questi due autori è in grado di esporre il “questo” sensibile senza per ciò porlo nell’orizzonte dell’utilizzabilità e della funzionalità, di presentare e non presentare insieme il singolare (cfr. p. 92).
Per quanto riguarda Rilke l’Autore si misura in una serrata analisi di molti testi, mettendo in luce quel lungo apprendistato verso la trasgressione mai pienamente realizzabile del linguaggio, che porta il poeta a farsi carico del compito infinito della restituzione del sensibile entro e contemporaneamente oltre l’orizzonte del dire: “ Un poeta che sappia del suo poetare è consapevole che la sua opera è un seme che non produce Un significato, ma più d’Uno per la sua fondamentale intenzione di voler toccare, di trattenere sensibilia che disturbano il comUNIcare riuscendo a ‘babelizzare’ il voler dire. L’effetto babelico è la conseguenza dell’impossibilità di raggiungere e contenere la creazione, di farne un contenuto, mentre l’opera trattiene, contaminando” (pp. 99-100).
Il punto più alto è raggiunto però, secondo Ariemma – che segue a questo proposito l’interpretazione dello stesso Rilke – dalla pittura, in particolar modo da quella di Cézanne, in grado di concretare il linguaggio ponendosi “in una zona di indiscernibilità interiore ed esteriore. L’immagine di Cézanne è differenza in sé” (p. 108). Il pittore francese dipinge ripetutamente quello che sembra essere lo stesso soggetto, come nel celeberrimo caso della montagna Sainte-Victoire, per mostrare al contrario l’irriducibilità l’una all’altra delle singole visioni, dei singoli momenti che compongono la visione: “Perché la pittura racchiude il segreto dell’impressione, che non è mai riducibile alla mera ricettività, ma è già essa stessa com-posizione. Cézanne assume su di sé, così, il gravoso compito dell’inizio, un inizio mai puro e che è già una ripetizione, un motif” (p. 110).
La proposta alternativa che Ariemma elabora a partire dall’opera di Rilke e Cézanne, sembra concretarsi quando, discutendo l’interpretazione di Merleau-Ponty dell’opera del pittore francese, ne ribalta radicalmente la prospettiva: Cézanne “non vuole parlare; […] i sensi restituiscono di più di quanto il quadro per noi dice, poiché Cézanne è Cézanne per una differenza eminentemente sensibile; […] cominciamo con il non comprendere perché la pittura non parla pur organizzando i colori, cioè pur usando impropriamente, ossia al 'singolare', un linguaggio” (p. 113)
Possiamo annotare in conclusione che quello di Ariemma è un libro ben scritto, molto fine e accurato, nonché chiaro nelle analisi, soprattutto in fase critica – davvero notevoli le pagine relative all’estetica fenomenologica di Husserl e l’Appendice 1,dedicata all’evoluzione della questione del mondo nel pensiero di Heidegger; pur centrato su Husserl, Heidegger e Bergson, questo lavoro ha il pregio di discutere, seppur brevemente, molte altre posizioni filosofiche classiche sul problema del “questo” sensibile (Platone, Aristotele, Duns Scoto, Cartesio, Kant, Hegel) contribuendo così a chiarire i punti nodali della questione.
Se qualcosa possiamo lamentare è relativo alla pars construens, che, nell’analisi dell’opera di Rilke e di Cézanne, spesso lascia implicito l’impianto filosofico di fondo su cui si regge. In alcuni passaggi la proposta fenomeno-logica alternativa di Ariemma, soprattutto nelle pagine dedicate al pittore francese, sembra scivolare in una sorta di fenomenismo, anticamera di un silente misticismo dell’arte. Attenzione, scriviamo “sembra” proprio perché siamo convinti che l’Autore non abbracci la semplicistica soluzione di ribaltare il logocentrismo fenomenologico classico in un fenomenocentrismo, che di fatto riprodurrebbe la stessa struttura rispetto a cui è critico. Purtroppo però troviamo che certi fraintendimenti, a nostro avviso possibili, non siano sufficientemente discussi; in questo senso rileviamo che la proposta filosofica di Derrida, sebbene Ariemma faccia uso di molti “concetti” provenienti dalla decostruzione, sia utilizzata attraverso numerosi riferimenti nella prima parte del testo, per poi però rimanere nell’ombra quando, nella seconda parte, maggiormente servirebbe renderne espliciti i punti di contatto e di eventuale disaccordo.
Indice
Introduzione
PARTE PRIMA. LOGICA DELL’ESTREMO: L’AL DI LÀ DEL PENSIERO E LA VERITÀ DEL LINGUAGGIO
I. Dalla parte del Logos: la filo-logia di Heidegger
II. Il pensiero dell’essere e l’abbondanza del sensibile. La situazione limite della poesia e dell’arte
PARTE SECONDA. ESTETICA DELL’ESTREMO: RILKE E CÉZANNE
III. Il trasgredire dell’angelo
IV. Il compito di Cézanne
Conclusione
Appendice 1. Il “mondo” di Heidegger dall’ermeneutica della fatticità all’apertura dell’essere
Appendice 2. Henry e Derrida interpreti delle Lezioni del 1905 di Husserl
L'autore
Tommaso Ariemma (Napoli 1980) svolge un dottorato di ricerca presso la facoltà di Filosofia dell’Università degli Studi di Parma. Collabora inoltre con la cattedra di Estetica dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. È co-fondatore e direttore della rivista di filosofia, arte e letteratura “Ameba”. Ha pubblicato diversi saggi e articoli su questioni riguardanti l’estetica, il pensiero tedesco e francese contemporaneo.
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