martedì 28 marzo 2006

Meier, Georg F., Contributi alla dottrina dei pregiudizi del genere umano.

Pisa, ETS, 2005, pp. xl+190, € 18,00, ISBN 88-467-1309-5.
[Ed. or.: Beyträge zu der Lehre von den Vorurtheilen des menschlichen Geschlechts, a cura di H. Hinske, N. Delfosse, P. Rumore, Frommann-Holzboog, Stuttgart]

Recensione di Salvatore Stefanelli - 28/03/2006

Filosofia teoretica (ermeneutica)

È possibile vivere senza pregiudizi? Attenzione però, non è mia intenzione riferirmi ai pregiudizi negativi nei confronti di gente di diversa razza o fede; al contrario, la mia domanda nasce da una delle situazioni più banali e quotidiane: ci troviamo a camminare lungo una strada poco affollata, quasi deserta e ad un tratto vediamo qualcuno che ci viene incontro dall’altro capo del marciapiede. Immediatamente, oserei dire fisiologicamente, scatta in noi un automatismo atavico. Come faceva notare William James nei suoi Principi di Psicologia: ”Ognuno di noi divide l’Universo intero in due metà, e per ognuno di noi quasi tutti gli interessi si riferiscono all’una o all’altra di queste metà […] Basta che io dica che tutti chiamiamo le due metà con gli stessi nomi, cioè me e non me, rispettivamente, perché si veda a colpo d’occhio ciò che intendo” (Milano 1909, p. 222). Questo dicotomizzare deriva dal fatto che psicologicamente parlando quanto proviamo e quanto sentiamo è esclusivamente nostro, non abbiamo possibilità di instaurare una specie di contatto wireless per comunicare con l’altro e far uscire dall’isolamento i flussi di pensiero. Pertanto, da questa relazione naturalmente privilegiata con se stessi e dalla impossibilità di una condivisione diretta di coscienza con l’altro, nasce quella immediata registrazione di input sensoriali relativi all’età, razza, genere, corporatura e al modo di incedere di quella persona, quindi elaboriamo una serie di pre-giudizi (n.b. uso questa connotazione per indicare l’accezione tecnico-giuridica di sententia praecedens o kantianamente vorläufiges Urteil) in base ai quali giungiamo ad una conclusione circa una persona che non abbiamo mai conosciuta né mai vista prima nella nostra vita. Sicché, c’è proprio da chiedersi se sia possibile trascorrere anche un solo giorno senza pre-giudizi. Evidentemente non è possibile perché sono proprio questi pre-giudizi che consentono un’apertura verso ciò che deve essere compreso. Essi agiscono da strutture anticipatorie che permettono di afferrare in una forma preliminare quanto deve essere interpretato o compreso. Comunque, tenendo presente che anche nell’altro deve essersi attivato un identico meccanismo, c’è da sperare che i reciproci pre-giudizi vengano messi alla prova nel processo conoscitivo in modo che si realizzi la gadameriana Horizontverschmelzung (fusione di orizzonti). 
Da questa accezione positiva di pregiudizio si può passare facilmente alla sua accezione negativa, cioè quella intesa come opinione formata o accolta in modo sfavorevole. L’elaborazione ‘privata’ dei dati che riceviamo dall’esterno può degenerare trasformando il necessario pre-giudizio in egotismo puro e semplice: vediamo una parte, e la consideriamo per il tutto; ci frulla in testa qualcosa di casuale e frammentario e vorremmo comunque che il mondo intero sostenesse la nostra opinione, in modo da sentirci più saldi nella nostra conclusione;  formuliamo un giudizio dal nostro ristretto punto di vista senza sentire ragioni o accogliere l’altrui sentire e ci arrovelliamo sul perché tutti gli altri non seguano il nostro stesso modo di pensare.
Il significato del termine pregiudizio inteso come giudizio affrettato, senza fondamento e fallace diventa oggetto consueto del dibattito filosofico e genera una feconda discussione in particolare nel periodo che intercorre fra il ‘600 e il ‘700 e in special modo, come fa notare Paola Rumore – curatrice dell’edizione italiana – “attraverso il ductus cartesiano il termine pregiudizio viene consegnato alla modernità grosso modo con il significato di errore ovvero di opinione accolta in maniera precipitosa e fonte di ulteriori giudizi fallaci” (p. vii). Mi permetto, comunque, di far notare la mancanza di rimando ad un caposaldo fra “le origini più prossime di questa concezione del pregiudizio”(p. vi) ravvisabile nella lotta portata avanti da Spinoza contro ogni tipo di pregiudizio e in particolar modo contro il “pregiudizio finalista” fonte anche di tutti i pregiudizi etici ed estetici. Riflettendo un attimo, è probabile che su questa assenza abbia influito il paradigma leibnitziano-wolffiano in cui si colloca il filosofo Georg Meier autore dei Contributi alla dottrina dei pregiudizi, opera che è oggetto di questa breve nota.
Innanzitutto, un grazie va rivolto alla Edizioni ETS per aver proposto questa co-edizione critica dei Contributi (Beyträge) di Meier, senz’altro stuzzicante per il tema trattato ma anche gratificante l’interesse antiquario, spesso non soddisfatto in termini di accessibilità per la maggioranza degli appassionati. La kantiana “liberazione dai pregiudizi” prende avvio nell’Illuminismo tedesco con Christian Thomasius, secondo il quale l’attività cognitiva richiede aufräumen, laddove si deve porre ordine e strutturare le proprie opinioni e quindi si deve decidere della loro validità. Per raggiungere ciò che per Kant sarà il Selbstdenken, Thomasius sollecita a porre in essere una attività di autocritica verso i praejudicia praecipitationis e i praejudicia auctoritatis, consigliando contro questi morbi dell’intelletto l’uso della Logica quale farmaco d’elezione. Nella scia thomasiana, che attribuisce alla Vernunft-Lehre la competenza in materia di analisi dei pregiudizi, troviamo Wolff e i wolffiani che, tuttavia, per cieca fiducia nella ragione peccarono di “brama di onniscienza, di superbia filosofica”, se non incorsero addirittura nel “più riprovevole tra i pregiudizi dell’uomo: il praejudicium infallibilitatis” (p. xiii). 
Con Georg Meier si sviluppa un modo differente di considerare il pregiudizio. Infatti, benché egli riconosca il dovere da parte di ogni persona istruita di scoprire la verità mediante il Selbstdenken, tuttavia accetta l’inevitabilità di alcuni dei nostri pregiudizi, dato che non possiamo, in ogni preciso momento, sottoporre tutta la nostra conoscenza al tipo di critica richiesta proprio dal Selbstdenken. La riflessione meieriana sui pregiudizi assume toni antropologici ed al proposito è rinvenibile un’intonazione da manifesto nel §2 dei Contributi nella parte in cui recita: “L’utilità della dottrina generale dei pregiudizi del genere umano consiste dunque in ciò: mediante essa si può far luce sulla conoscenza della natura umana in generale meglio di quanto non sia possibile fare in sua assenza” (p. 15). Nell’articolare la sua sottile argomentazione, l’autore individua un punto di svolta nel §15 relativo al pregiudizio fondamentale della conoscenza empirica in base al quale “si suppone che le nostre sensazioni ci rappresentino la qualità e la quantità degli oggetti delle nostre sensazioni” di modo che “ognuno denomina gli oggetti sulla base della qualità delle sensazioni che ne ha” (p. 49). Al riguardo, viene correttamente fatto notare dai curatori del testo meieriano come questa individuazione di un tale pregiudizio abbia “esercitato un’influenza decisiva sull’elaborazione della dottrina kantiana delle antinomie della ragione e dei fondamenti del criticismo in generale” (p. xxxv). Oltre alla puntuale identificazione di influenze e nessi riconducibili al trattato meieriano, a quale conclusione si può giungere alla fine della lettura di questo scritto? La risposta, che è più vicina al pensiero di Meier,  è rintracciabile in Reflections on the French Revolution (1790) laddove Edmund Burke afferma: ”You think you are combating prejudice, but you are at war with nature” (Collier, 1914, § 80). Se è vero come è vero che noi riusciamo a fare bene qualcosa solo quando non poniamo più mente a come si fa a fare quello che facciamo, se dovessimo pensare a come i muscoli funzionano nell’atto del camminare rimarremmo bloccati come delle statue di sale, altrettanto vero è che in tutto ciò che facciamo, sentiamo o pensiamo c’è del lievito che si chiama pregiudizio (in forma più o meno estesa); un qualcosa di implicito di cui non conosciamo o abbiamo dimenticato la causa. Senza l’aiuto di pregiudizio e consuetudine, non sapremmo come comportarci in ogni circostanza, né cosa provare in una qualsiasi relazione umana. Quindi va senz’altro ascritto a merito di Meier l’aver posto in essere questa “riabilitazione del pregiudizio” ante litteram, cercando di eliminare ogni dualismo mediante l’impostazione di un concetto generale di pregiudizio che è parimenti riscontrabile nella conoscenza comune come in quella erudita e dichiarando apertamente nel §48: ”Spero tuttavia di dimostrare a sufficienza che spesso è assai ragionevole risparmiarsi quella coscienziosità senza cui nessun pregiudizio potrebbe essere evitato, e lasciarsi quindi andare in qualche caso alla precipitazione, cadendo vittima del pregiudizio” (p. 141, c.m.).

Indice

Introduzione
Nota al testo e alla traduzione
Indice dei Beyträge
Testo originale a fronte e traduzione 
Emendazioni
Glossario italiano-tedesco
Glossario tedesco-italiano
Indice dei nomi dei Beyträge
Sigle delle opere

L'autore

Georg Friedrich Meier (1718 – 1777) filosofo tedesco che con il suo insegnamento si prefisse di  rendere accessibile a tutti il pensiero di Leibniz già reso praticabile da parte di Wolff. I suoi interessi di studio furono rivolti all’ermeneutica e alla logica. L’oggetto della sua opera più nota Vernunftlehre e della edizione ridotta ad uso universitario Auszug aus der Vernunftlehre, non consiste solo nell’elaborazione degli aspetti formali della logica, bensì nell’individuazione degli elementi del pensiero e del linguaggio che rendono possibile la conoscenza. Meier ha svolto ricerche sull’epistemologia, l’estetica e sui pregiudizi con i Beiträge.  Va ricordato che la Logik e la Kritik der reinen Vernunft dello stesso Kant risentirono della influenza del pensiero di Meier.

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