Recensione di Sergio A. Dagradi - 14/03/2006
Sociologia (tecnica)
Il libro, come ricorda il curatore del volume nella sua introduzione, nasce come raccolta dei differenti punti di vista che, attorno al tema mcluhaniano cultura e tecnologia, si sono confrontati presso l’Istituto Nazionale di Architettura in un ciclo di dieci seminari. Scopo «ascoltare, interrogare, dialogare sulle dimensioni sociali, politiche e culturali dei nuovi media» (p. 5). Obiettivo senza dubbio ambizioso data la vastità degli orizzonti indagati e, come detto, l’eterogeneità dei partecipanti e delle posizioni da loro espresse. L’interesse allora del libro, diremo subito, risiede più nel tentativo di offrire trame di percorrenza di quella che il curatore, richiamandosi a Heidegger, chiama la contrada dei nuovi media, che non nell’abbozzare punti fermi (del resto difficilmente prospettabili parlando di temi che, ontologicamente oserei dire, sfuggono a ogni statica pratica definitoria e assertoria).
Su questi presupposti neppure una recensione a un testo così impostato può avere la pretesa di ricondurre a discorso comune la dispersione delle posizioni, pena il ridursi a mera elencazione dei contenuti. Mi soffermo pertanto a indicare quei saggi che, a parere ovviamente di chi scrive, sono sembrati i più stimolanti, soprattutto in relazione al dibattito attuale attorno all’impatto avuto dalle nuove tecnologie dell’informazione sulla società e la cultura.
Di rilievo mi è quindi parso anzitutto il saggio di Pierre Lévy, volto ad illustrare il progetto al quale sta attualmente lavorando, Digitong, ossia il tentativo di costruire attraverso «una lingua digitale, un linguaggio visuale di indicizzazione semantica dell’informazione» (p. 31), uno spazio semantico attraverso il quale porre in relazione le varie comunità operanti in rete. Pur consapevole della difficoltà di realizzare un simile progetto – anche in dipendenza della particolare dimensione ontologica della rete – questo presenta anche una forte attrattiva per le implicazioni che potrebbe avere ben al di là dell’applicazione informatica. Come non vedere, infatti, nella realizzazione di un sistema universale di coordinate per lo spazio semantico un possibile ausilio al confronto di culture, in luogo dello scontro di civiltà? Di contro, il pericolo dell’uniformazione del messaggio e della unidimensionalizzazione della codifica del pensiero potrebbero apparire quali rischi da ponderare adeguatamente.
Sulla dimensione comunitaria di esistenza, a cui le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione aprirebbero, si sofferma anche il contributo di Maria Luisa Palombo, a partire dall’acquisizione dei risultati delle ricerche di Derrick de Kerckhove sul rapporto tra tecnologia e processi di soggettivazione. La nostra parola, nel nuovo orizzonte comunicativo proprio delle nuove tecnologie, è infatti una parola che, smaterializzandosi dal supporto cartaceo precedente, si dispone ad essere già da sempre parte di un flusso informativo, di una condivisione potenziale, portando con sé anche delle implicazioni per la costruzione dell’identità personale: «Se “esistere” significa essere fuori (ek-sistere), quell’esistere al di fuori di un ambiente dato e stabilizzato dall’istinto, che è forse ciò che è già più proprio dell’uomo (o ciò a partire da cui è possibile l’uomo), la parola sullo schermo è allora una nuova parola che, dopo quella parlata e quella scritta, apre per l’uomo una forma ulteriore di ek-sistenza: quella al di fuori dell’individualità connaturata alla scrittura, e propria di una nuova dimensione connettiva» (p. 57). Anche perché lo schermo esemplifica quella rete tecnologica – costituita non solo di computer, ma anche di cellulari, navigatori satellitari, i-pod etc. – della quale la nostra realtà è intessuta e la nostra esistenza intramata. La trascendentalità della virtualità si traduce nella trascendentalità di ogni identità statica, stabile, atomisticamente pensata in un piano non comunitario: è in questa prospettiva che si invera il senso più autentico della vita umana come ex-sistenza, ossia eccedenza, possibilità, trascendentalità, appunto (con un celato richiamo forse all’Heidegger di Sein und Zeit). La costruzione ontologica della realtà appare inoltre come relazionale, rendendone in tal senso possibile la pensabilità a partire dagli assunti teorici della fisica quantistica, che proprio su questo aspetto aveva posto l’attenzione già nei primi decenni del secolo scorso: non è data pensabilità del mondo che possa ignorare il carattere costitutivo che in essa presenta il rapporto soggetto-oggetto e il suo determinato dispiegarsi; come non è data relazione che non sia già anche conoscitiva, configuratrice del mondo, di una forma del reale.
Ma questa costruzione ontologica della realtà, come lascia intendere il curatore del volume nel suo contributo incentrato su un interpretazione estetica dei nuovi media alla luce della lezione di Gadamer, è anche costruzione che si staglia sempre in un orizzonte storico. Proprio la lettura che Gadamer ha dato dell’opera d’arte lascia intravedere come ogni opera sia legata al farsi storico del senso del mondo (idea ripresa anche da Alberto Abruzzese nel suo contributo), riconoscendo implicitamente un legame altresì tra arte e tecnologia. L’opera d’arte, detto altrimenti, non prescinde mai da una relazione vitale con il proprio contesto, con la propria datità storica, portando sempre in evenienza nel proprio essere l’incidenza del progresso tecnologico. L’arte è anche tecnologia, sperimenta la tecnologia del proprio tempo, le sue possibilità, portando queste, in un certo senso, appunto all’evidenza. Il discorso, da questo punto di vista, si rende affine, in modo assolutamente interessante, a quanto sostenuto da Manuel Castells nella sua trilogia sull’Information Age circa il modo con il quale la tecnica entra nel tessuto sociale: le tecnologia riconfronta sempre con dinamiche e relazioni consolidate, all’interno delle quali viene ad essere sperimentata e a produrre le sue ricadute in termini di trasformazioni sociali. Se abbiamo inteso correttamente il saggio di Tursi, e in particolare il richiamo gadameriano all’autorappresentazione che l’opera d’arte condividerebbe con ogni momento ludico, l’arte si presta a manifestare, a testimoniare storicamente questa sperimentazione: diviene l’evento di come la tecnologia è in atto in un dato contesto storico, mostra il circolo dell’interpretazione che un preciso contesto sociale fornisce delle potenzialità tecnologiche. Evento al quale ogni “spettatore” è al contempo chiamato a parteciparvi, a fornire ulteriore interpretazione, e quindi sperimentazione. E al contempo a istituire comunicazione e, come notavamo in precedenza a proposito del saggio di Maria Luisa Palombo, nuovi legami sociali: «L’opera d’arte è sempre un’opera comune, l’opera di una potenziale comunità, di quella oikoumene che è il tutto del mondo abitato» (p. 77).
Il tema della soggettività, come si evince, è quindi tema centrale e per certi versi anche sottile filo conduttore del libro, ben al di là dei contributi della seconda parte espressamente dedicata a tematizzarla, tra i quali merita anzitutto attenzione quello di Leo Reitano. L’impostazione del contributo risente dell’acquisizione della lettura del già citato Castells sull’avvenuto mutamento di paradigma tecno-sociale. A caratterizzare l’attuale paradigma sarebbero pertanto: «[…] la pervasività degli effetti delle nuove tecnologie in tutti gli aspetti della vita umana, lo sviluppo della network logic in ogni sistema organizzativo; la crescente tendenza alla convergenza e alla reciproca integrazione delle tecnologie d’avanguardia (dalla biotecnologia alla nanotecnologia); l’aumento della flessibilità e della fluidità organizzativa di istituzioni e strutture produttive» (pp. 135-136). Questo mutamento si sarebbe riversato anche nel sapere e nella pratica politica. Secondo Reitano, infatti, nel secolo scorso ogni forma anche di contestazione sociale e politica si era pensata secondo il modello di matrice industriale della macchina: questo implicò la produzione di un soggetto politico scisso tra l’etica del desiderio e dei bisogni soggettivi e le istanze politiche della macchina partito, dell’apparato come entità sovraordinata e indiscutibile. In questa scissione tra regno dei fini e regno dei mezzi, e «al di là dell’equivoco filosofico si palesa, nell’itinerario dei pensatori che hanno costruito e immaginato la macchina rivoluzionaria, la mancanza di sensibilità necessaria a capire che l’apertura di un nuovo orizzonte sociale era strettamente legata alla capacità di immaginare forme di produzione e gestione del potere e del consenso radicalmente diverse da quelle offerte dal mondo industriale» (p. 133). Conclusione forte e crediamo, tuttavia, anche azzardata e ingenerosa nei confronti di quei pensatori come Rosa Luxenburg o Karl Korsch estremamente negativi e critici verso un modello di organizzazione politica che dovrebbe forse essere maggiormente circoscritta come leninista (e accenniamo solo di sfuggita a tutto il dibattito sul superamento del leninismo che interessò anche l’Italia negli anni settanta, in molti casi proprio attraverso la riscoperta anche del pensiero di Korsch); o nei confronti di quell’Herbert Marcuse che già nei suoi primi scritti, nei quali si proponeva di conciliare marxismo e fenomenologia, esprimeva heideggerianamente proprio l’esigenza che la rivoluzione, fin dalla sua teorizzazione, si accompagnasse ad una sovversione totale dei modelli cogenti d’esistenza. Proprio quel Marcuse che sarà anche – e non casualmente - tra gli ispiratori di quei movimenti libertari e anarchici, sviluppatasi sulla west coast statunitense, che daranno vita a quella nuova cultura del lavoro alla quale Reitano si richiama per individuare il nuovo e attuale paradigma politico. Il riferimento è all’etica hacker, divulgata da Pekka Himanen come alternativa all’etica protestante del lavoro che ha informato l’età industriale. Questa nuova etica, riproponendo gli elementi di creatività, vitalità e socialità come centrali nell’organizzazione del lavoro, starebbe contribuendo molto più dei movimenti anticapitalisti del secolo precedente a forme inedite e libertarie di partecipazione dell’uomo appunto all’attività lavorativa, consentendo lo sviluppo di quell’intelligenza collettiva/connettiva – implicitamente portatrice di democrazia - che trova sia un supporto, sia una manifestazione dell’epistemologia che vi è implicita, nei network informazionali.
Ad avanzare dubbi, tuttavia, sulle implicazioni immediatamente democratiche dell’organizzazione a network determinata dalla pervasività delle nuove tecnologie concorre il saggio di Mario Pireddu. Richiamando infatti l’analisi di Eugene Thacker, Pireddu sottolinea, in particolare nella parte conclusiva del suo saggio, il misunderstanding che si è creato tra i concetti di collettività e connettività: quest’ultima, infatti, non è in sé garante della formazione di una collettività maggiormente democratica, ma, semmai, solamente un prerequisito. Il problema nella realizzazione della prima resta aperto e di natura strettamente politica.
Indice
Abitare la contrada. Per iniziare di Antonio Tursi
PARTE PRIMA: SPAZI E LINGUAGGI
Reale o virtuale? di Luigi Prestinenza Puglisi
Uno spazio, un linguaggio di Pierre Lévy
Tecnopsicologia, blog e nuova spiritualità quantica di Derrick de Kerckhove
Sulla strana realtà del virtuale di Maria Luisa Palombo
Arte e tecnica/estetica ed etica di Pietro Montani
Hans Georg Gadamer e l’estetica dei nuovi media di Antonio Tursi
Una rete di traduzioni di Franciscu Sedda
Approcci semiotico-tecnologici ai testi multimediali di János Petöfi
SECONDA PARTE: SOGGETTIVITÀ
Nuovi media: oltre la politica e l’arte di Alberto Abruzzese
Oltre il Novecento: l’avvento della ciberpolitica di Leo Reitano
Web-etnografi e identità avatar di Massimo Canevacci
La linea, l’ipertesto, il network digitale. L’esperienza dello spazio nei media di Emmanuel Mazzocchi
V = n(n-1)? Fenomenologia del corpo virtuale di Mario Pireddu
Il senso comune dell’essere cyborg di Marcello Serra
La contraddizione umanistica di Simone Mulargia
I network nella teoria dei sistemi di Alberto Marinelli
Verso un nuovo umanesimo di Umberto Cerroni
Ciberparanoia di Enrico Pozzi
L’autore
Antonio Tursi (Cosenza, 1978) è dottorando di ricerca in Teoria dell’informazione e della comunicazione presso l’Università di Macerata e senior fellow del McLuhan Program in Culture and Technology presso l’Università di Toronto. Sui nuovi media, oltre a vari saggi in riviste e volumi collettanei, ha pubblicato: Internet e il Barocco, L’opera d’arte nell’epoca della sua digitalizzazione e, insieme a Derrick de Kerckhove, Alla ricerca della sfera pubblica nell’epoca della connessioni digitali.
Links
Il gruppo Cultura e Tecnologia, curatore dei seminari - www.culturaetecnologia.it
1 commento:
Titolo per impostazione di stessa recensione che ne mostra fa da contraddetto: infatti dire di soggettività implica non contraddittoriamente una comprensione non di soli riferimenti e non solo adduce a percezione oggettivamente volta e le reti di comunicazione cui riferisce recensore odiernamente sono una scelta per una necessità cui non potersi relazionare in indecisione: decidere per uniformità e partecipare dei poteri di Rete comunicativa, o decidere altrimenti; il compromesso non reca senso filosofico e nel resto è inconcludenza sia politica che impolitica o insufficiente apolitica poiché affatto indeterminata...
Confronto di culture anziché scontro di civiltà?... Aprioristicamente non sussiste alcuna filosofica necessità etica di siffatta sostituzione, sia perché si tratta di capire quale scontro e con quali modalità ed entro quale altra situazione non di pregiudicarne, sia perché la proposta di confronto culturale a sua volta va vagliata e posta in dubbio ed ugualmente a scontri di civiltà valutata... In definitiva insistenza generica al timore degli scontri di civiltà, quale si ritrova in recensione, rivela considerazione esclusiva a realtà civile inetta a gestire propri scontri e dedita a rischiarne...
E tale si mostra la concezione civile cui fa riferimento democraticismo generico, senza luoghi di riferimento ma con tanti posti di inerenza, cui dunque non solo non è possibile sicurezza civile ma neanche completezza; ed in Europa ciò coincidendo non identificandosi con caratteristica di bastante pochezza di civiltà europea, dunque di tal democraticismo persistendo non completo rifiuto civile ma odio interno ed estraneo ad una civiltà che da parte non realmente democratica non si vorrebbe; meno che mai dopo la fine dei potentati antioccidentali marxisti i democraticisti sedicenti apostoli di civiltà disposti a reali ragioni interne a mondo civile cui non appartengono ma pertengono e con simpatie per tutto ciò che ne è incompatibile; anche perché il potere autentico delle democrazie occidentali non è un democraticismo.
Inutile paventare i rischi di uniformazioni proprio per le situazioni entro cui una necessaria uniformità comunicativa è lo scopo identificato già e da ottenere dopo le valutazioni già compiute circa i vantaggi delle comunicazioni globali. In tal senso "Digitong" rappresenta per la non-identità anti-identitaria un progetto di non riqualifica e squalifica politica comunicativa.
Per quanto resto di recensione possa contener ottimi o buoni stralci filosoficamente accettabili per una riflessione, ciò accadrebbe da parte determinante soltanto del lettore non del recensore stesso.
MAURO PASTORE
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