Recensione di Luigi Marfé - 25/07/2006
Estetica
In una delle tante locande delQuijote (II, XXVI), Cervantes mette il suo hidalgo davanti a uno spettacolo di burattini. A esservi rappresentata è l’impresa del cavaliere francese Gaifero, che si mette in viaggio verso Saragozza per liberare dai mori la sposa Melisendra. Quando vede il compagno di cavalleria pericolosamente circondato dai nemici, tuttavia, don Quijote s’immedesima a tal punto nel racconto che sale sul palco per dargli man forte e devasta la scena a forza di fendenti e manrovesci. Se i momenti del romanzo in cui Cervantes mescola verità e finzione sono numerosi, la confusione di livelli di realtà viene qui a descrivere la dialettica di ruoli che s’instaura nell’esperienza estetica del teatro. L’atmosfera in cui è calato lo spettatore è infatti quella dellasuspension of disbelief. Non diversamente dal cavaliere mancego, l’immaginazione di chi si siede a teatro si stacca dal mondo reale, per vagare in un universo che è assieme lucido e stralunato: la vita è sogno, ha scritto Calderόn de la Barca.
Nella traduzione attenta di Andrea Fantini e con la limpida prefazione di Francesca Falchi,Idea del teatro ripropone al lettore italiano il testo della conferenza omonima che José Ortega y Gasset lesse il 13 aprile 1946 a Lisbona e il 4 maggio successivo a Madrid. Il volume è impreziosito inoltre da due importanti testi in appendice: mentre nel primo Ortega indaga sull’origine delle maschere nel teatro greco, l’altro è un’acuta riflessione, purtroppo incompiuta, sul tempo che passa. Il punto di partenza del filosofo spagnolo è la constatazione dello stato rovinoso in cui versa il teatro contemporaneo. La conferenza è letta all’indomani della conclusione della seconda guerra mondiale; nel conflitto, Ortega non vede però la causa, ma l’effetto di una crisi che aveva già descritto nella Rebelión de las masas (1930). La storia del teatro sembra coagularsi intorno a momenti di splendore inatteso, circoscritti nel tempo e nello spazio: l’Atene del V secolo di Eschilo, Sofocle ed Euripide, l’Inghilterra di Shakespeare e Ben Johnson, il Siglo de oro di Lope de Vega e Calderόn, la Francia del Re Sole con Corneille e Racine, la Venezia di Goldoni e la Germania di Goethe e Schiller. Per uscire dall’impasse, Ortega insiste sulla stessa soluzione che aveva già proposto per la crisi del romanzo nelle Ideas sobre la novela (1925). Ciò che più gli sta a cuore è la continuità con il canone del passato. La scommessa è che non ci siano altri bagagli da portare verso il futuro, se non i tesori della tradizione: “Continuare non significa ancorarsi al passato e neppure al presente significa muoversi, andare oltre, innovare, ma rinunciando al salto e al partire dal nulla; prima di tutto affondare i piedi nel passato, poi decollare dal presente, e pari passu, un piede dopo l’altro, mettersi in marcia, camminare, avanzare” (p. 16).
Contro le ripartizioni della retorica classica, secondo cui la letteratura si distingue nei tre grandi generi dell’epica, della lirica e del dramma, Ortega rivendica con forza la peculiarità anti-letteraria del teatro. Diversamente dagli altri tipi di scrittura, le sceneggiature non sono fatte per essere lette, ma recitate. Mentre un libro colpisce il lettore solo attraverso le sue parole, uno spettacolo teatrale affastella nella mente di chi lo guarda le sensazioni visive più rapide e molteplici. A contare di più nella visione di Ortega è il riconoscimento del teatro come fantasia solidificata. Il carattere di differenza dell’esperienza scenica rispetto alle altri arti riposa infatti nella concretezza con cui il suo discorso simbolico prende vita attraverso i gesti degli attori. In questa capacità del teatro di costituirsi come universo finzionato in sé conchiuso, per cui lo spettatore è nello stesso tempo davanti all’attrice e davanti all’eroina che questa impersona, c’è per Ortega un sapore magico straordinario. Rap-presentare significa che la presenza dell’attore serve non per presentare se stesso, ma un altro essere. Come il monte Tabor, ogni teatro, per umile che sia, è sempre un luogo dove si compiono trasformazioni. Il processo di metaforizzazione col quale l’attore entra nel suo personaggio consiste nella riduzione di due realtà a un’unica irrealtà. L’effetto è quello di una tregua dalle urgenze della vita che trascina verso un ultramondo parallelo al mondo del quotidiano. In questo senso, il teatro svolge quella funzione di divertissement che già gli avevano riconosciuto i moralisti del XVII secolo. Invece di condannarne l’inutilità, tuttavia, Ortega ne loda con accenti baudelairiani il carattere di divino espediente, che permette di sfuggire alla noia e concede allo spettatore un momento di felicità. Andare a teatro significa lasciarsi avvolgere dall’universo allestito sulla scena e uscire così dalla propria stessa vita: “L’essenza del teatro sta nell’uscire di casa e andarvi – andare nell’irreale” (p. 57).
Se l’arte è comunicazione di esistenza, il teatro ne è l’esempio più fulgido e brillante, dal momento che ha natura dialogica ed eleva la polifonia a legge del suo universo. Come viene formulando negli stessi anni Michail Bachtin a proposito della letteratura carnevalesca, Ortega riflette sul ruolo della farsa nell’estetica del teatro, che reclama il diritto all’equivoco ed esprime il suo punto di vista ironico e multiforme sul reale attraverso la dimensione di sospesa leggerezza del gioco. Il rapporto tra l’attore e lo spettatore è così quello tra il farsante e il farsato; la passività dello spettatore è però riscattata dalla natura stessa della farsa, che chiama chi guarda a entrare a far parte del proprio ultramondo. “Anche il pubblico, dunque, è farsante, esce dal suo essere abituale per andarsene in un essere eccezionale e immaginario, e partecipa a un mondo che non esiste, a un ultramondo; e in questo senso non solo la scena, ma anche la sala e il teatro divengono fantasticheria, ultravita” (pp. 66-67).
La prima delle due appendici è dedicata al tema delle Maschere nel teatro greco. Più di Nietzsche, il modello cui si rifà Ortega è l’antropologia di Lucien Lévi-Bruhl; dal filosofo tedesco deriva però il riconoscimento dello stretto rapporto tra il teatro e il culto di Dioniso. Divinità trascendente capace di annichilire l’uomo e convincerlo ad abbandonarsi a sé, Dioniso è il simbolo di un’esperienza che è insieme culto, orgia, arte e divertimento. La natura più autentica del teatro è per Ortega ancora una volta la farsa, che esprime la verità contraddittoria della con-fusione: un pensiero sincretico in cui tutto si tiene in una totalità organica, complessa e sfaccettata.
Partendo dall’etimologia di O Século, la rivista che gli ha commissionato la conferenza, la seconda appendice svolge invece una riflessione sul tempo. Dal momento che è creatore del nuovo, il tempo è per sua stessa natura generoso: dalla stanza delle infinite possibilità, istante dopo istante il futuro diventa presente, offrendosi unico e irripetibile alla vita degli uomini. La chiave esistenziale del discorso non impedisce però a Ortega di polemizzare con Heidegger. Contro gli accenti melodrammatici del vivere-per-la-morte, il discorso cade sull’importanza pratica di cogliere l’attimo e il filosofo spagnolo indugia così sul rapporto tra il corpo e le antiche unità di misura del tempo. L’invito su cui si chiude il testo è infatti di resistere alla tirannia del tempo che passa, scommettendo ironicamente su una sua misurazione accurata: “poiché abbiamo le ore contate, siamo costretti a contarle” (p. 119).
Secondo Ortega, che aveva già sviluppato il tema nelle Meditaciones del Quijote (1914), il peccato del cavaliere di Cervantes nell’episodio citato in precedenza è proprio quello di salire in scena e porre fine alla rappresentazione. Il teatro e il mondo reale sono universi alternativi e completi, susseguenti da logiche diverse che ciascuno si dà da sé, e non vanno quindi confusi o giustapposti. Nondimeno, l’opposizione ontologica tra realtà e finzione va ribaltata in chiave funzionale: i due universi restano infatti complementari l’uno all’altro, come orizzonte di comprensione reciproco. Ortega rammenta come la lezione più autentica dell’ultimo Platone sia nel gioco di parole che lega la cultura (paideía) al gioco (paidía): se è dalla vita che prende la materia delle sue storie, d’altra parte il teatro si offre a essa come strumento di conoscenza. Chi non sospende almeno talvolta la serietà della vita e ha smesso di credere nella fantasia del teatro, dimentica la verità più profonda dell’ironia, secondo cui il mondo è più vasto e contraddittorio di ogni certezza precostituita. Nei Diapsalmata, Kierkegaard racconta che una volta in un circo scoppiò un incendio. Il buffone fu incaricato di avvisare il pubblico, ma la gente credette che fosse una pagliacciata e tutti morirono nel rogo.
Indice
Prefazione di Francesca Falchi
Idea del teatro. Un accenno
Appendice I. Maschere
Appendice II. O Século
Note
L'autore
José Ortega y Gasset (1883-1955) è saggista e filosofo spagnolo, docente di metafisica all’Università di Madrid dal 1910. Nella sua filosofia ha sviluppato una sintesi di pensiero e azione, dando notevole importanza al vitalismo. Tra le sue numerose opere si ricordano: Meditazioni del Chisciotte (1914), Lo spettatore (1916-1934), La disumanizzazione dell’arte (1925), Idee sul romanzo (1925), Che cos’è filosofia (1928-29), La ribellione delle masse (1930), Goethe. Un ritratto dall’interno (1932).
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