sabato 30 dicembre 2006

Martini, Giuseppe (a cura di), Psicoanalisi ed Ermeneutica, Prospettive continentali.

Milano, Franco Angeli, 2006, pp. 160, € 18,00, ISBN 8846477375.

Recensione di Rodolfo Ciuffa - 30\12\2006

Psicoanalisi, Ermeneutica

Psicoanalisi ed Ermeneutica è la “conseguenza” editoriale di un seminario di studio sul tema omonimo organizzato nel 2003 dal Centro di Psicoanalisi Romano. Il volume è strutturato in due parti, “La filosofia ermeneutica alla prova della psicoanalisi”, e “La psicoanalisi contemporanea alla prova dell’ermeneutica”, ciascuna delle quali si conclude, dopo la serie di contributi, con un’intervista: Paul Ricoeur e Sergio Bordi, spentisi prima della pubblicazione del volume, ma fondamentali per la sua redazione, ne sono i protagonisti.

Il primo contributo, di Gaspare Mura, cerca di “mappare” diverse forme di ermeneutica – metodica, ontologica, e trascendentale – e precisa come il dosaggio delle tre sia presente negli autori più significativi di questa tradizione, e segnatamente in Betti, in Heidegger ed in Ricoeur, che esprimono paradigmaticamente quei tre orientamenti. Le costanti dell’atteggiamento ermeneutico, portato a dare rilievo alla dimensione ontica ed esperienziale, alla pur necessaria interpretazione, ed alla complessa stratificazione emotiva, cognitiva e relazionale cui questa dà luogo, stridono con, e presuppongo una critica di, quella posizione tipicamente psicoanalitica, che tende a fare della coscienza un mero sintomo e simbolo, impoverendo e svalutando la vita più immediatamente cosciente e la dimensione più direttamente esperienziale, e che, con la visione di un’umanità pulsionale, snatura e misconosce la profonda soggettività dell’oggetto di conoscenza del sapere psicoanalitico, che non può essere ridotto a cosa, a homo natura, a res inerte.

Domenico Jervolino, nel secondo saggio, si giova della sua esperienza nel campo dell’ermeneutica per tracciare prima una breve sintesi della storia della disciplina, per poi dedicarsi a Gadamer ma soprattutto a Ricoeur, a quel Ricoeur lettore di Freud che a più fasi e con variazioni si era dedicato allo studio ed all’esegesi del “maestro del sospetto” viennese. La lettura originale che il filosofo francese offre si snoda soprattutto nell’opera matura “Dell’interpretazione” dove il pensiero freudiano è analizzato sistematicamente, e promosso a luogo di confronto irrinunciabile per nuova filosofia, per la quale la coscienza deve rappresentare un “compito”, e non più l’ “origine”; in alcuni scritti più tardi Ricoeur prenderà in esame tematiche psicoanalitiche più specifiche.

La prima parte del volume si conclude con la trascrizione (non integrale) di una recente intervista di Giuseppe Martini a Ricoeur. A suo dire, l’ “avvenimento” della psicoanalisi sarebbe il passaggio dai conflitti energetici ai conflitti di senso. Il ruolo del linguaggio ne discende direttamente: esso è lo strumento essenziale dell’analista che interpreta e del paziente, che, verbalizzando e mettendo in forma le proprie sofferenze, riesce a trasformarle. In questo quadro il linguaggio non va inteso in senso semplicisticamente comunicativo, perché esso rappresenta anche il veicolo per accrescere ed accettare il mistero e l’opacità; non esiste, in psicoanalisi, una sola e trasparente verità; narrazioni alternative possono servire agli scopi euristici e terapeutici, ed il linguaggio che le concreta permette il salto da una “opacità chiusa” ad una “opacità aperta”, più accettabile, consapevole e confacentesi alle esigenze biografiche del paziente.

La seconda parte del volume, “La psicoanalisi contemporanea alla prova dell’ermeneutica”, fa il punto sulle nuove tendenze che nelle diverse scuole psicoanalitiche hanno soppiantato o modificato quelle “classiche”, cercando di chiarire il rapporto di parentela che esse intrattengono con l’ermeneutica: Sergio Bordi insiste in particolar modo sul passaggio da un soggetto monadico ad uno la cui costituzione è radicalmente relazionale, mentre l’intervento seguente, affidato a Giovanna Goretti Ragazzoni, sottopone a disamina critica il paradigma narrativista che negli ultimi anni si è fatto strada nella psicoanalisi, soprattutto d’oltreoceano. Ancora, Aldo Cono Barnà analizza le ripercussioni di alcune analisi e scoperte sull’esame e la gestione del setting psicoanalitico. Ultimo e tra i più originali, l’intervento di Giuseppe Martini cerca di superare, proponendo una particolare concezione di inconscio, le mistificazioni e le unilateralità con le quali la psicoanalisi si è impossessata dell’insegnamento ermeneutico. A chiudere la seconda parte, come era avvenuto per la prima, e con essa il volume, un’intervista: parla Sergio Bordi, che raccoglie qualche elemento di autobiografia professionale, intellettuale, umana.

Pur non brillando per rivoluzionaria novità, e soffrendo di quell’incedere disorganico che libri tratti da seminari e conferenze presentano non di rado, il volume può essere un utile strumento di orientamento e di chiarimento di alcune tematiche – sostanzialmente la presenza dell’ermeneutica nella psicoanalisi - per chi abbia già dimestichezza tanto con l’una che con l’altra disciplina.

Indice

Presentazione, di Anna Maria Nicolò
Prefazione, di Giuseppe Martini

Parte prima
La filosofia ermeneutica alla prova della psicoanalisi
1. Il contributo dell’ermeneutica esistenziale alla psicoanalisi e alla psicoterapia, di Gaspare Mura
2. Discorrendo di ermeneutica e psicoanalisi: Gadamer, Ricoeur, Freud, di Domenico Jervolino
3. Conversazione sulla psicoanalisi, di Paul Ricoeur, a cura di Giuseppe Martini

Parte seconda
La psicoanalisi contemporanea alla prova dell’ermeneutica
1. Nota introduttiva. L’ermeneutica nella comunità psicoanalitica, di Sergio Bordi
2. Le trasformazioni della teoria e l’avvento dell’ermeneutica, di Sergio Bordi
3. Una ermeneutica o molte?, di Giovanna Goretti Ragazzoni
4.Ermeneutica, crisi della metapsicologia e fattori terapeutici dell’analisi, di Aldo Cono Barnà
5. L’ermeneutica come ponte tra narratività e irrapresentabilità, di Giuseppe Martini
6. La persona dell’analista: intervista a Sergio Bordi, a cura di Gabriela Gavazza e Giuseppe Martini


L'autore

Giuseppe Martini è psicoanalista, primario di psichiatria a Roma, ed insegna all’Università di Ancona presso la Scuola di Specializzazione in Psichiatria.
Anna Maria Nicolò è neuropsichiatra infantile.
Gaspare Mura è docente di Filosofia presso la pontifica Università Urbaniana e di Ermeneutica presso l’Università Lateranense.
Domenico Jervolino insegna Ermeneutica e Filosofia del linguaggio presso l’Università Federico II di Napoli.
Paul Ricoeur (1913-2005) è uno dei massimi rappresentanti della filosofia del novecento.
Sergio Bordi è uno dei più eminenti membri della Società Psicoanalitica Italiana, noto, fra l’altro, per i suoi lavori in ambito epistemologico.
Giovanna Goretti Ragazzoni è medico specialista in malattie nervose e mentali.
Aldo Corna Barnà è psichiatra e psicoanalista, già presidente del Centro di Psicoanalisi Romano.

venerdì 29 dicembre 2006

Tomatis, Francesco, Come leggere Nietzsche.

Milano, Bompiani, 2006, pp. 203, € 7,80, ISBN 88-452-5751-7.

Recensione di Giuseppe Pulina – 29/12/2006

Storia della filosofia (contemporanea)

Nietzsche è uno dei pensatori oggi più letti e apprezzati anche da quanti si occupano non professionalmente di filosofia. Nietzsche è però non solo uno dei punti per così dire cruciali e terminali dell’attuale dibattito filosofico, ma anche uno dei pensatori meno facili del nostro tempo. Ecco perché il titolo del libro che Francesco Tomatis gli ha dedicato, Come leggere Nietzsche, può essere non impropriamente seguito da un segno interrogativo. Tomatis ovviamente sa come rispondere al quesito, e il suo libro può essere letto come un repertorio di risposte alle tante domande, curiosità interpretative, vertenze filosofiche che la lettura delle opere nietzscheane fa emergere in buon numero.

Sono diversi i tratti del pensiero nietzscheano sui quali Tomatis pone l’accento. C’è il Nietzsche inattuale, il pensatore abissale e vertiginoso, e c’è anche il filosofo sperimentale. Un aspetto, quest’ultimo, che fa di Nietzsche un filosofo vero come pochi altri. «Nietzsche – scrive, infatti, Tomatis – è un filosofo vero. Nonostante la filologia, che non ne accademizzò il pensare, nonostante la malattia, che ne accompagnava istruttiva la vita matura, nonostante l’interpretazione, troppo spesso indegna dei seri operai della filosofia, delle cui scorie lavorative piuttosto sopravvive quale parassita. Vero non nel senso soltanto di essere amico dei sapienti o amante devoto e anelante della sapienza. Bensì in quanto filosofo sperimentale, che vive profondamente in sé, che assume nell’esperienza su di sé il carico problematico da affrontare, facendo del pensiero vita. Ma non perché la sua esistenza si riduca al pensare o creda di tradurre praticamente delle teorie, piuttosto nello sperimentare corporalmente ogni intuizione nuova o antica, in un’indissolubile unione inunificabile di ogni aspetto vitale: dal sonno all’emozione, dall’alimentazione alla solitudine, alle idee e alla creazione attraverso un’estasi di gioia amorevole e onnicointuitiva o la stessa dolorosa morte animale» (p. 142).

Se Nietzsche è un pensatore sperimentale, nel senso che ha fatto del pensiero vita, quello che gli può essere dedicato deve allora essere non una biografia intellettuale, ma un saggio interpretativo che tenga conto della stretta, indissolubile identità tra filosofia e esistenza. Leggendo il Nietzsche dei frammenti postumi, quello che Tomatis più frequentemente cita, scopriamo che la vita è irriducibile al pensiero, perché «ogni informazione data dagli uomini della conoscenza ha proprio soltanto il senso di impedire che ogni nuovo uomo della conoscenza debba prima rifare tutte le esperienze già fatte» (p. 147). Alla filosofia non resta allora che trasformarsi in un sapere sperimentale, in una disciplina che incessantemente si detta regole nuove, oltrepassando limiti e rinunciando anche alle conquiste più recenti. La si potrebbe chiamare opera di autoredenzione. «Redimersi dai redentori, ma anche dai redentori dei redentori, redimere se stesso addirittura da sé occorre a Zarathustra, redimersi dal proprio volere – persino se non volente che a ritroso, e disillusamene, quale un poeta compositore, organizzatore del caso e della frammentarietà» (pp. 65-66).

Eterno ritorno, nichilismo, volontà di potenza, amor fati, oltreuomo, prospettivismo, bene/male, genealogia dei valori morali: il libro di Tomatis non trascura nessuno dei temi più classici della filosofia nietzscheana. La ricca bibliografia riportata in appendice ne fa inoltre un’utile introduzione al pensiero di Nietzsche, di cui ripropone anche una ricca selezione di brani.

Indice

L’origine del male in Dio
L’emiplegia e il pervertimento della ragione
La provenienza della verità dalla menzogna e l’arte tragica di sognare sapendo di sognare
Il passo indietro nella metafisica
L’oblio e la storia
I dietromondisti e la morte di Dio
Il discepolo di Dioniso e Zarathustra
Lo spirito di gravità
Il pensiero simbolico della possibilità
L’eternità di tutte le cose
Il coraggio della redenzione
La compassione, il grande disprezzo e il grande amore
La sapienza selvaggia
La decisione del circolo nihilistico nell’attimo abissale
Il divenire ciò che si è
La potenza incognita del sé
Le tre metamorfosi del ritorno al sé e la nuova sapienza creativa
Il riso del fanciullo e il gioco del mondo
Le parole che cantano di danzante gioia
Il grande meriggio e l’estasi conoscitiva dei misteri
L’intuizione mistica nell’autonegazione amorevole dell’anima
L’uno divenne due
La sofferenza e il piacere tragico della creativa sapienza dionisiaca
La volontà di potenza, al di là dell’inorganico e dell’uomo
La noia di Dio e l’amore della potenza
Il prospettivismo e l’interpretazione
Il carattere dell’essere impresso al divenire
La femmina o la natura dell’oltreuomo
L’oltreuomo
Il corpo, il senso della terra e il volo
La creazione di ciò che è eterno
La non-resistenza di Gesù e la nuova innocenza della volontà di potenza
L’Europa e la grande politica, la guerra, la pace e la cultura ecumenica
La globalizzazione, la civiltà schiavizzatrice e l’aristocrazia interiore
Il regno di Zarathustra
La verità del filosofo sperimentale
Cronologia della vita e delle opere
Bibliografia


L'autore

Francesco Tomatis insegna filosofia teoretica all’Università di Salerno. È stato il fondatore a Cuneo del Seminario angelus novus. Ha all’attivo numerosi scritti su Pareyson e Schelling, di cui ha recentemente curato la nuova edizione di Filosofia della Rivelazione. Fra i suoi scritti si ricordano Kenosis del logos (1994), Ontologia del male (1995), L’argomento ontologico (1997) e Escatologia della negazione (1999). Per la casa editrice Bompiani ha pubblicato Filosofia della montagna e curato l’edizione dell’opera nietzscheana Su verità e menzogna.

martedì 26 dicembre 2006

Duhem, Pierre, Verificazione e Olismo, (a cura di Mirella Fortino).

Roma, Armando, 2006, pp. 144, € 15,00, ISBN 8860810973.

Recensione di Silvano Zipoli Caiani – 26/12/2006

In questa raccolta curata da Mirella Fortino sono pubblicati, per la prima volta in italiano, due saggi del fisico e filosofo Pierre Maurice Duhem. I due lavori, risalenti rispettivamente agli anni 1892 e 1894 e antecedenti alla comparsa della grande Théorie Physique del 1906 (trad. It. La teoria Fisica: il suo oggetto, la sua struttura, Il Mulino Bologna, 1978), ne anticipano alcuni tratti salienti, giungendo a delineare quelle che saranno le riflessioni dell’epistemologo francese sia rispetto alla connotazione olistica della conoscenza, sia rispetto all'impostazione generale del problema del realismo.

L'importanza del pensiero di Duhem è ben rappresentata, oltre che dall'ammirazione espressa da vari esponenti dell'empirismo logico e da autori come Ernst Cassirer nella prima metà del secolo, anche dal rinnovato interesse per le dinamiche relative ai modelli olistici seguito alla comparsa dei celebri lavori di Quine.

Il pensiero di Duhem affonda le proprie radici nella cultura positivistica tardo ottocentesca, una certa aderenza a una forma di riduzionismo trova infatti espressione attraverso le pagine di questi saggi giovanili (nei primi anni novanta Duhem è poco più che trentenne). L'originalità della concezione duhemiana emerge però attraverso le peculiari conseguenze che l'epistemologo francese trae dall'analisi dei processi di formazione che caratterizzano la teoria fisica. L’insopprimibile presenza di una funzione astrattiva, operata sul dominio delle esperienze immediate, al fine di maturare le condizioni per una descrizione oggettiva dei dati sperimentali, rappresenta infatti per Duhem il principio di una serie di riflessioni sulla natura stessa della conoscenza scientifica, sul suo metodo di conferma nonché sulla sua portata ontologica.

Leggendo i saggi qui raccolti è possibile seguire l'evoluzione del pensiero duhemiano lungo il percorso che lo condurrà, nell'arco di dodici anni, alla formulazione matura della sua celebre tesi olistica. Se il punto di partenza, sia nel saggio del '92 che in quello del '94, è lo stabilirsi di un’eliminabile origine osservativa della conoscenza scientifica, l'accostamento dei due lavori lascia emergere il ruolo svolto dal complesso dei fattori contestuali. Da un primo riscontro di quella caratteristica che andrà poi sotto il nome di sotto-determinazione del complesso teorico, Duhem giunge alla formulazione di un primo abbozzo della sua concezione olistica, escludendo la possibilità di una coordinazione univoca tra ipotesi individuali, isolatamente prese, e il piano dell'esperienza disponibile. In questa prospettiva il saggio del 1894 rappresenta un punto di svolta, il suo accostamento con il lavoro precedente lascia emergere l’originalità che il percorso duhemiano prenderà in seguito, fino al suo compimento nella celebre opera del 1906.

Per meglio comprendere quale sia il percorso teorico intrapreso da Duhem in questa fase, bisogna fare attenzione alla concezione simbolica della conoscenza adottata dal fisico francese. Nel saggio del '92, così come in quello successivo, il processo di genesi delle teorie scientifiche è assimilato allo stabilirsi di una correlazione tra il piano astratto delle nozioni e quello osservativo dei dati sperimentali. L'instaurarsi di una corrispondenza costituisce il momento iniziale nella formazione delle ipotesi teoriche, ma è al contempo causa dell'impossibilità d'instaurare un rapporto diretto e naturale tra le leggi di una data disciplina e l'oggetto suoi dei suoi studi.

Nel saggio del 92, particolarmente rappresentativo è l'esempio riguardante lo statuto della nozione di temperatura. La possibilità di delineare una misurazione oggettiva delle grandezze legate alla sensazione di calore passa infatti attraverso l’idealizzazione delle proprietà fisiche possedute dall'oggetto che s'intende osservare. Solo concependo ciascuno dei punti di un corpo come se fosse «più caldo, meno caldo, o altrettanto caldo di ogni altro punto» (p. 57) sarà infatti possibile attribuire un valore determinato alla nozione di temperatura, permettendone la successiva manipolazione matematica necessaria allo sviluppo della teoria fisica.

La relazione che si viene a instaurare tra la sensazione di calore provata dal soggetto e l'astrazione matematica associata alla nozione di temperatura perde così qualsiasi connotazione naturale. Essa viene sostituita da un rapporto di traduzione simbolica, grazie al quale a ogni ideale dato d'esperienza è associabile in modo convenzionale una certa grandezza numerica.

La perdita di una relazione immediata tra natura e descrizione ha inoltre come conseguenza quella di stabilire un'importante limitazione concettuale al valore dell'impresa scientifica. Una buona teoria è infatti una teoria che simbolizza in maniera approssimata un insieme esteso di leggi fisiche, e ciò in funzione sia della precisione dei dati disponibili sia del campo di applicazione in cui s'intende collocarla. Il ruolo mediatore svolto dal soggetto nella scelta delle convenzioni permette inoltre un importante grado di libertà nella definizione delle diverse ipotesi generabili a partire da un identico set fattuale. Ciò stabilisce la possibilità di giungere a descrizioni differenti accomunate da una stessa sotto-determinazione osservativa.

Nel saggio del '94 la constatazione del pluralismo linguistico alla base della conoscenza scientifica trova un assetto maturo attraverso la distinzione tra osservazione e interpretazione dei dati sperimentali. La distanza che separa enunciati teorici come «l'esperienza c'insegna che sostituendo a un H della benzina il gruppo acido CO-OH, si ottiene l'acido benzoico» (p. 95) da constatazioni empiriche immediate, diviene sempre più marcata con il progresso delle conoscenze scientifiche. La pretesa di separare l'osservazione di un fenomeno fisico da qualsiasi assunzione di natura teorica diviene secondo Duhem nient’altro che un tentativo illusorio.

Il ruolo del fattore interpretativo nella genesi della conoscenza scientifica è però discriminante nell'economia dei due saggi. La crescente consapevolezza da parte di Duhem riguardo all'impossibilità di ripercorrere a ritroso il processo conoscitivo, muovendo fino alla constatazione di una memoria puramente sperimentale, lo porta nel saggio del '94 a conclusioni più articolate. Due in particolare sono le differenze che occorre sottolineare, la prima riguardante il riconoscimento della condizione solistica, cui soggiace la valutazione di ogni ipotesi scientifica, la seconda riguardante il giudizio rispetto alla portata ontologica di una conoscenza astratta e simbolica come quella della fisica moderna.

Nel saggio del 1892, proprio la concezione simbolica dei processi conoscitivi rappresenta per Duhem il principale fattore di separazione tra i contesti scientifico e metafisico. Affermando che la fisica non è la spiegazione del mondo materiale, ma piuttosto una delle possibili rappresentazioni delle leggi scoperte dall'esperienza, Duhem prende posizione rispetto all'adozione di un'ingenua valutazione ontologica della conoscenza sperimentale. Ad una scienza intesa come metodo per svelare la natura intima del mondo, Duhem contrappone un atteggiamento coordinativo e classificatorio, caratteristico dell’impronta positivista che contraddistingue questa fase del suo pensiero.

Il tono e il giudizio della polemica cambiano però nel saggio del 1894. Ferma la concezione simbolica della conoscenza, per cui ogni legge fisica è un costrutto astratto e provvisorio rispetto all'evoluzione dei dati osservativi, Duhem rivolge l'attenzione al ruolo essenziale dei processi storici di modifica che segnano il progresso della scienza. Questa non muta infatti come la geometria, aggiungendo proposizioni logicamente certe a quelle che essa già possedeva, piuttosto progredisce attraverso una lotta incessante tra ipotesi rivali nell'intento di superare ogni volta il grado di accordo tra teoria e realtà precedentemente raggiunto. Questa cura dell'esattezza analitica trova ora un punto di contatto con il presupposto realista. Ciò avviene attraverso l’introduzione di una verità ultima e mai definitivamente attingibile rispetto alla quale troverebbero approssimazione i risultati della conoscenza scientifica. Una citazione tratta da Pascal in chiusura del secondo saggio impedisce di appiattire il giudizio duhemiano su posizioni ancora positiviste, rappresentando un'anticipazione di quel dilemma tra le “ragioni del cuore” e della scienza presente in modo compiuto nel capolavoro del 1906.

Sulla scorta della caratteristica sotto-determinazione osservativa e della pluralità linguistica che contraddistingue il formarsi delle teorie scientifiche, solo nel saggio del 1894 Duhem pone l'accento sulla caratterizzazione olistica dei processi di valutazione sperimentale. Se nel primo dei due lavori l'epistemologo francese conserva ancora fiducia nella strategia falsificazionista quale criterio di scelta teorica, nel lavoro successivo un paragrafo fondamentale è dedicato ai limiti di applicabilità di tale metodo a ipotesi prese isolatamente.

Il ragionamento adottato da Duhem segue la constatazione dell'indissolubilità tra interpretazione e formazione delle teorie. Un fisico che si proponga di dimostrare l'inesattezza di una proposizione si troverà infatti costretto a valutare l'adeguatezza di tutto l'insieme di assunzioni che accompagnano tale proposizione. Se il fenomeno previsto secondo una data ipotesi non si produce, «non è soltanto la proposizione in contestazione che è messa in scacco, ma lo è tutta la strumentazione teorica di cui il fisico ha fatto uso» (p. 97). La scienza fisica diviene così «una sorta di organismo da prendersi nella sua interezza» (p. 100). Esclusa la possibilità di metterne alla prova ciascun elemento isolatamente, occorre valutare l'impatto di ogni modifica rispetto alla globalità delle ipotesi che costituiscono la teoria, considerandola un complesso connesso e non frammentabile.

È impossibile evidenziare in quest'occasione l'importanza che la concezione duhemina riveste nell’economia dell'attuale discussione filosofica, però due parole possono essere spese nel sottolineare la sensibilità dell’epistemologo rispetto ai risvolti relativistici della propria concezione. Diversamente da quanto avvenuto successivamente, alla ripresa della discussione sui problemi del “theory laden”, Duhem, fin dal saggio del '92, ha cura di arginare le possibili derive relativistiche associabili alla condizione di sottodeterminazione. Il rifiuto per l'equiparazione di formule dotate di un’identica base osservativa si manifesta attraverso l’appello a principi razionali quali guide nella scelta di soluzioni dotate di maggiore adeguatezza. Ciò lascia emergere ancora una volta la peculiarità del pensiero duhemiano, vicino ad una concezione empiristica della conoscenza scientifica, ma al contempo ancorato a una prospettiva metafisica (quella tomistica), che lo spinge verso una rappresentazione definitiva e unitaria della realtà.

Indice

Indice:
Introduzione di Mirella Fortino
Nota biografica
Nota di edizione
Alcune riflessioni sulle teorie fisiche (1892)
Alcune riflessioni sulla fisica sperimentale (1894)
Bibliografia


La curatrice

Mirella Fortino si è laureata in filosofia presso l’Università degli Studi della Calabria, i suoi interessi di studio in particolare riguardano la critica alla scienza fra Ottocento e Novecento. Ha pubblicato, oltre a saggi su diverse riviste, i volumi Convenzione e razionalità scientifica in Henri Poincaré (1997) e, come curatrice, il volume Il caso da Pierre Simon Laplace a Emile Borel (1814-1914) (2000). È stata inoltre curatrice di Essere, apparire e interpretare. Saggio sul pensiero di Duhem (2005).

lunedì 25 dicembre 2006

Butler Judith, La disfatta del genere.

Roma, Meltemi, 2006, pp. 287, € 21,50, ISBN 88-83-53500-6.

Recensione di Ottavia Spisni - 25/12/06

Filosofia politica (femminismo)

Undoing Gender viene presentato in traduzione italiana con il titolo La disfatta del genere. Si tratta di una raccolta eterogenea di saggi, scritti in anni diversi, in cui l’autrice riflette sulla differenza sessuale (cap. I), il genere e la sessualità (cap. II), mettondo in campo una descrizione importante e dettagliata dell’attuale situazione europea e americana. Le discussioni comprendono la situazione attuale legale e medica degli Intersessuali e Transessuali (cap. III e IV), il dibattito sui PACS, sul matrimonio tra omosessuali, sull’adozione e la procreazione omosessuale (cap. V), e importanti confronti con altre teoriche femministe (ad esempio la replica a Metamorfosi di Rosi Braidotti contenuta nel nono capitolo). Le posizioni contemporanee sono descritte a partire dalle molteplici premesse teoriche che orchestrano il dibattito sviluppatosi negli ultimi anni in un contesto globale.
Judith Butler si propone di ripensare alcune posizioni contenute nel testo Gender Trouble, scritto quattordici anni prima di Undoing Gender e che venne proposto al pubblico italiano nel 2004 con il titolo Scambi di Genere. Questo primo libro prende significativamente il nome da un film di John Waters, Female Trouble, recitato dalla drag queen Divine (all’anagrafe Harris Glenn Milstead). Butler argomenta come la coerenza delle categorie di sesso, genere e sessualità sia una costruzione culturale prodotta dalla ripetizione di atti performati nel tempo. Si tratta dunque di discorsi che hanno una forza regolativa e normativa dal momento in cui decidono a priori quali tipi di orientamento sessuale e di genere siano consentiti o meno dalla società (cap. X).
I saggi contenuti in Undoing Gender sono focalizzati sulla questione di cosa potrebbe significare disfare (undo) il genere, intendendo con il termine ‘genere’ le concezioni socialmente acquisite e riperformate acriticamente che normalizzano la vita sessuale e i generi sessuali. Con il termine ‘becoming undone’, i saggi intendono anche l’essere moralmente ed emotivamente distrutti, sottolineando, però, il potenziale non solo distruttivo, ma anche creativo dell’esperienza negativa del ‘disfacimento del genere’. Butler nota come le questioni irrisolte e problematiche del femminismo contemporaneo (il quale non prevede una gamma condivisa di premesse per dare atto ad un programma politico coerente) siano il suo punto di forza, e sottolinea l’importanza di ‘mantenere il valore democratico di un movimento che può contenere, senza addomesticarle, interpretazioni contraddittorie su questioni fondamentali’ (p. 207). E’ democratico il tentativo di riappropriazione dei termini che la modernità ha escluso.
La teoria per Butler non si discosta mai dalla pratica della vita reale e concreta, ed è per questo che l’accento è sempre posto sui termini ‘possibilità’ e ‘vivibilità’. La domanda delle possibilità concrete e immaginarie, corporee e simboliche della vita possibile è posta costantemente e nemmeno si elude la questione problematica della ‘violenza di genere’ cui la comunità GLBQTI (Gay, Lesbiche, Bisessuali, Queer, Trans, Intersessuali) sembra essere particolarmente esposta (cap. X). La pratica di fare e disfare il proprio genere è dunque una modalità di azione creativa e politica individuale e collettiva che può e deve essere costantemente performata. Ciò accade perché, come ha già messo in luce Foucault, il genere non è alieno dal binomio sapere/potere e il corpo nella sua esistenza sociale è sempre sessuato e sottoposto ad assoggettamento normativo. Ad esempio il transgender rientra nella sfera politica ‘non solo perché ci costringe a domandarci cosa sia o debba essere considerato reale, ma perché ci mostra come si possano mettere in discussione le attuali concezioni della realtà e istituirne di nuove. La fantasia non rappresenta solo un esercizio cognitivo, un film interiore che proiettiamo all’interno del teatro della mente. Essa struttura la relazionalità e partecipa alla stilizzazione dell’incarnazione stessa. I corpi non sono spazialità date. Nella loro spazialità, essi si attuano nel tempo: invecchiando, cambiando forma, cambiando significato – a seconda delle loro interazioni – e la rete di relazioni visive, discorsive e tattili che diviene parte della loro storicità, del loro passato, presente e futuro’ (p. 249).
La corporeità è la dimensione fondamentale dell’umano, e collegata ad essa è la questione della memoria,e dunque del racconto. La corporeità può essere raccontata in miriadi di modi, può occupare la norma, o eccederla, rielaborarla, oppure trasformarla. La norma dipende dalla sua ripetibilità; di qui l’importanza del ‘fare’ e del ‘disfare’ il genere. Il ‘becoming undone’ deve dunque essere costantemente riperformato, perché i ‘generi che ho in mente esistono da lungo tempo, ma non hanno ancora avuto accesso al linguaggio che governa la realtà. Quindi si tratta di sviluppare un nuovo lessico, nell’ambito della legge, della psichiatria, della sociologia e della teoria letteraria, che legittimi la complessità di genere che da molto tempo stiamo vivendo’ (p. 251).
I problemi che Butler si pone sono dunque concreti e si pongono sul filone contemporaneo della giustizia distributiva. Il contenitore sociale non può essere messo da parte ‘Il fatto stesso che io sia in grado di agire è reso possibile dalle circostanze stesse della mia formazione, la quale ha origine in un mondo sociale che non ho mai scelto. Il fatto poi che la mia agency sia lacerata dal paradosso non significa che sia impossibile. Significa solo che il paradosso è la condizione della sua possibilità. Ne consegue che l’“Io”, che io sono, si ritrova, a un tempo, costituito da norme e da queste dipendente, ma si sforza anche di vivere in modo da mantenere con esse un rapporto critico e trasformativo’ (p. 27). La pratica dell’agency è dunque sempre condivisa e questa condivisione presuppone riconoscimento (Anerkennung).
Il tema del riconoscimento (che presuppone un rapporto di simmetria tra le parti) trova formulazione nella Fenomenologia dello Spirito di Hegel e arriva fino alla teoria critica francofortese. Il tema viene discusso da Butler nel capitolo sesto ‘Desiderio di riconoscimento’. Butler dissente sul fatto che la relazione debba presupporre necessariamente un termine medio, un terzo, un mediatore tra le parti, e sostiene che le problematiche legate alle molteplici sfumature che la vita di chi è transgender mette in luce, sono una prova evidente di questa carenza intrinseca della metodologia hegeliana (ma anche strutturalista e psicoanalitica). L’utilizzo del termine queer ad esempio muove in una direzione liberatoria perché in grado di comprendere il desiderio non come esclusivamente eterosessuale o omosessuale, ma fluttuante e trans-gender (in senso letterale) e mai legato e incardinato in maniera esclusiva o conseguente alla sessualità. Il desiderio è fluttuante, mobile, instabile, non può essere catalogato, è nomade. Questo discorso teorico è volto a scardinare gli assunti principali della psicoanalisi e dello strutturalismo quali il complesso di Edipo (capitoli settimo e ottavo ‘Dilemmi del tabù dell’incesto’ e ‘Confessioni del corpo’) e a mettere in discussione i presupposti psichiatrici (diagnosi di disturbo di identità di genere contenuta nel DSM-IV, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali IV revisione) e legali della medicalizzazione degli Intersessuali e Transessuali (FTM, Female to Male o MTF, Male to Female).
La riflessione di Butler ha una profonda finalità pratica e trasformativa della realtà sociale e politica. A questo scopo è importante agire concretamente a livello sociale e istituzionale, e l’attività teorica è solo un presupposto per la trasformazione al fine di una maggiore ‘vivibilità’. In questo senso il femminismo è una riflessione propriamente filosofica perché si pone le domande fondamentali su cosa si intenda per vita buona e si interroga sul problema della violenza (sulla scia delle riflessioni foucaultiane sul nesso che intercorre tra sapere e potere).
Una proposta e una sfida importante è ad esempio quella di riportare nel contesto dei diritti umani internazionali le problematiche sulla priorità teorica della differenza sessuale rispetto al genere, del genere sulla sessualità, della sessualità sul genere, (cap. IX). La sfida alla regolazione del genere, che ha sempre fatto parte dell’attività normativa eterosessista, è esemplare perché contiene in sé il filo rosso e il paradosso di tutta la riflessione sul ‘genere’ e sui ‘queer studies’: la differenza sessuale non è né totalmente data né totalmente costruita e non è possibile istituire un confine tra biologico e psichico, tra discorsivo e sociale. Per Butler è di fondamentale importanza tenere conto del fatto che la differenza sessuale ‘non è un dato, né una premessa, né un fondamento su cui costruire una teoria femminista’ (p. 210).

Indice

Prefazione. La disfatta del gender e la questione dell’umano
Ringraziamenti
Introduzione. Agire di concerto
I. Al di là di se stessi: i limiti dell’autonomia sessuale
II. Regole di genere
III. Fare giustizia: riattribuzione di sesso e allegorie della transessualità
IV. Dilemmi diagnostici
V. La parentela è già da sempre eterosessuale?
VI. Desiderio di riconoscimento
VII. Dilemmi del tabù dell’incesto
VIII. Confessioni del corpo
IX. La fine della differenza sessuale?
X. La questione della trasformazione sociale
XI. L’“Altro” della filosofia può parlare?
Bibliografia

L'autore

Judith Butler (1956) insegna Retorica, Letteratura comparata e Women’s Studies all’Università di Berkeley in California. Ha una formazione filosofica: ha studiato in Germania con Hans George Gadamer e ottenuto il Ph.D. in Filosofia all’Università di Yale nel 1984 con una dissertazione su ‘Desiderio e riconoscimento’ nella Fenomenologia dello Spirito di Hegel. E’ la maggiore teorica Queer e femminista contemporanea. Sono stati tradotti in italiano Corpi che contano (1996), Scambi di genere (2004), Vite precarie (2004), La vita psichica del potere (2005), Critica della violenza etica (2006).

Links

Wikipedia - Judith Butler Voce "Judith Butler" su Wikipedia (in inglese)
Wikipedia - Queer studies Voce "Queer studies" su Wikipedia (in inglese)
theory.org.uk - Judith Butler Bibliografia e altre risorse su Judith Butler (in inglese)
Judith Butler: A Bibliography Bibliografia completa di Judith Butler (in inglese)
Human Rights Campaign Associazione statunitense per la tutela dei diritti degli omosessuali e transgender (in inglese)
Intersex Society of North America Associazione statunitense di supporto agli intersessuali (in inglese)
International Gay and Lesbian Human Rights Commission ONG per la tutela dei diritti degli omosessuali (in inglese)
Movimento identità transessuale Associazione per la tutela dei diritti di transessuali, travestiti e transgender

Filmografia

Female Trouble, diretto da John Waters (1974)
The Rocky Horror Picture Show, diretto da Jim Sharman (1975)
My beautiful Laundrette, diretto da Stephen Frears (1985)
Mery per sempre, diretto da Marco Risi (1989)
Paris is Burning, diretto da Jennie Livingstone (1990)
Stonewall, diretto da Nigel Finch (1994)
Go Fish, diretto da Rose Troche (1994)
But I am a cheerleader, diretto da Jamie Babbit (1999)
Boys don’t cry, diretto da Kimberly Peirce (1999)
Todo sobre mi madre, diretto da Pedro Almodóvar (1999)
Hedwig and the Angry Itch, diretto da John Cameron Mitchell (2001)
Le fate ignoranti, diretto da Ferzan Ozpetek (2001)
The Hours, diretto da Stephen Daldry (2002)

mercoledì 20 dicembre 2006

Ermini, Flavio (a cura di), Il racconto ulteriore. Ovvero, il gesto narrativo del filosofo.

Bergamo, Moretti e Vitali, 2006, pp. 136, € 18,00, ISBN 88-7186-393-3.

Recensione di Rosa Lanzafame – 20/12/2006

Estetica

La proposta che questo libro presenta al pubblico consiste nel riportare in auge, per la ricerca filosofica, l’attualità del gesto narrativo. Con un’implicita sollecitazione né impropria, se si osserva, come invita a fare il curatore Flavio Ermini, che le fondamenta dei più svariati edifici teoretici tradiscono segni, indelebili come fossili, di una storica provenienza del sapere “fondato sul logos e sul dibattere intersoggettivo” (p. 10) da un precedente, arcaico, sapere narrativo di miti e storie popolari; né inattuale, se si considera che, nella nostra contemporaneità, discorso scientifico e prassi politica hanno sospeso quel “logos dell’anima” (ivi) cui mirava il passaggio epocale dall’antica sapienza alla nuova forma del theorein. E tuttavia di impegnativa realizzazione. Giacché il ritorno al gesto narrativo da parte del filosofo esige una rinuncia a quadri rassicuranti di facili certezze per disporsi all’ascolto, lungo la via che a ritroso si appresta all’origine meravigliosa delle cose, del senso perduto.
L’idea che percorre l’antologia è, infatti, che solo qui, presso le cose, al limitare del dire poetico, vichianamente “inaugurale rispetto al discorso” (p. 14), le parole del racconto possono restituire la drammatica tensione di un’esistenza umana contrita in una finitezza inaggirabile e al contempo inesauribilmente propensa a compiersi nella libertà del gesto creatore di senso e azione. È in questa “volontà di cogliere ancora una volta la pienezza della vita” (p. 18) che il racconto è ulteriore. Di fronte al paesaggio odierno di una ragione che “annette territori sempre più estesi” (p. 12) al dominio del suo calcolo funzionale – di cui è proto-immagine la cinquecentesca cosmografia in copertina –, di fronte ai profili, oramai consueti, del “volto meduseo della tecnica” e del “muro di condizionamenti” (ivi) in cui veniamo a trovarci, il gesto narrativo s’impegna a declinare il mondo secondo le modalità del possibile per dischiudere nuovi significati da interpretare e attraversa la “terra desolata” (p. 12) di una quotidianità meccanicamente auto-alimementantesi per fare ritorno “verso quel punto indicibile in cui sapere e creazione produttiva si trovano in una connessione scambievole” (p. 16).
Che ogni racconto delinei un percorso era un dato noto alla sapienza poetica greca, per la quale, ricorda Ermini, racconto (oíme) e via (oîmos) avevano la stessa radice; ma affermare che oggi “occorre narrare per percorrere quel cammino che è ricerca di verità” (p. 17) è il dato di lucida consapevolezza contemporanea che questo libro offre al lettore. Solo con la maturazione, storica, dell’attuale pervasività del linguaggio denotatore e della sua volontà causale, contrapporre la forza disvelante del linguaggio apofantico (che “promette un senso più lontano di ciò che è pensato, antecedente all’intelligibilità”, ivi) ha lo spessore di una presa di posizione insieme teoretica ed etica: “Voce di una dinamica aperta e di un vuoto pulsante” (p. 20). In un reperto indiviso di codice logico emozionale e immaginativo, i dodici interventi procedono all’analisi di questioni radicali del nostro tempo, offrendo con una “concretezza costruttiva” (p. 13) il messaggio propositivo di una speranza di riscatto dell’‘uomo funzionale’ nell’autenticità di una seconda nascita.
Nessuna facile risoluzione però, come avverte lo spiazzante interrogativo inaugurale di Yves Bonnefoy: “Cosa posso saperne?” (p. 27). Al lettore non resta che indossare l’abito della cornice narrativa, consegnatagli non per arbitrio stilistico ma per accedere a scenari di luoghi e personaggi immaginari e nello spazio della loro radura presagire il respiro dell’Inizio. Come “acqua dove ciò che è sembra offrirsi una seconda volta ma oramai solo di riflesso, con poco tremolio nella forma che si dislava nei giochi di luce e ombre” (p. 28), la forza evocativa del racconto vuole restituire il sottrarsi, nell’immagine, del silenzio primordiale a ogni tentativo di dire l’origine della condizione umana mediante parole nate con essa: “Una diffrazione misteriosa si fa gioco di noi, si vede la nostra mano irresistibilmente scartata dall’oggetto del nostro desiderio” (ivi). Sotto il segno di questo drammatico scarto al cuore dell’esperienza umana, si svolge anche l’intervento di Félix Duque. In esso viene raccontata la parabola di una umanità che, nel suo affaccendarsi a plasmare un mondo antropocentrico, ha sfumato la possibilità di conoscere se stessa (“Le porte dell’origine sono rotte, scardinate” p. 33), e preparato il suo destino di assedio nella solitudine di una luce fredda “che acceca la notte” (p. 29). Il racconto annuncia il consumarsi del miracolo dell’‘avere-coscienza’ nell’esplosione in frammenti della divisione a essa costitutiva, e al contempo, assente che solo passando attraverso l’esilio in una terra senza distinzioni né confini l’uomo può risalire alla profondità della sua esperienza e incontrarvi la sua identità di singolo e di condivisione. Come nel viaggio indicibile di Philippe Lacoue-Labarthe: attraverso una “vasta pianura” (p. 35) di smarrimento frammisto a nostalgia del tutto ricorsivamente in direzione di una spersonalizzazione, nel cui fondo ogni deserto si converte in orizzonte – lascia pensare quando scrive: “Era ormai evidente che non sarebbe finita lì, che non ci sarebbe stato ritorno, che bisognava ricominciare...” (p. 37). Ma il racconto non si arresta a recitare l’indicibilità dello scacco dell’esistenza, radicata in un’abissale divisione, lasciando poi a qualche proposizione logica il compito di occultare quest’impossibilità costitutiva. Bensì, s’impegna a trasfigurarla in una soglia di forme meravigliosamente espressive. Ne dà esempio l’immagine, “di un’alterità sognata e inesistente” (p. 42), dell’arcangelo nella narrazione di Antonio Prete. Armonica perfezione, atto e azione che, mentre decide di distrarsi dalla sua beatitudine “nel divenire e consumarsi della materia” (p. 39) per patire insieme all’umanità l’inesorabile “scarto tra il desiderio e l’azione, tra il sogno e l’esperienza” (p. 41), prepara la comprensione della “sua stessa dissipazione” (p. 42), metafora dell’esistenza.
In questo senso, nel racconto la celebrazione di un afasico inizio si trasforma nel limitare della “luce del consistere” (p. 46) che si espande nello spazio aurorale della mancanza e invita il lettore a riflettere sull’apparire vibrante delle cose. “Una cosa che è come è, che solo quello, è. Bellissima” (p. 54), echeggia il sogno di una rumorosa piazza italiana in un passo di Roberta De Monticelli. Appare chiaro, allora, il richiamo a un movimento di faustiana memoria, la Discesa alle Madri, il discendere alla radice delle esperienze, al loro stato nascente, all’incompiuto, per liberare ciò che in esse è prigioniero. Nello scenario fantastico di una città, Ginevra, in cui l’Idea di Stato si fa corpo visibile accanto al discorso che la evoca, la De Monticelli può così acutamente osservare che le idee sono “lontane dalle cose: eppure senza Idee non vivono, le cose” (ivi) e, al contempo, ammonire con amaro presagio, quanto “ammainare le Idee e distruggere le cose sia un tutt’uno” (p. 49). Come a dire che ignorare la voragine originaria che si para innanzi all’astrazione del pensiero contro i suoi tentativi di afferrare la vita e risolverla nelle sue connessioni, significa rinunciare alla vita o, secondo l’immagine di Andrea Tagliapietra, cadere nel pozzo come il protofilosofo mentre contemplava “la sfavillante e rigorosa intelligibilità degli astri” (p. 56), specchio ideale dell’atto del pensare. Non peraltro, si chiede Tagliapietra, cosa rimane “quando il mosaico bizantino della logica si disgrega e va in pezzi o, come assai più frequente, non riesce neppure a formarsi” (p. 57), se non il gesto del racconto a salvare le circostanze e a dare loro voce nuova? Le parole di una trama. Che accolgono le sollecitazioni profonde dell’animo, e, nel corrisponderle, le trasformano in tessuto narrativo. A riprova della forza euristica di questo procedere, dal profondo verso la superficie, accorrono anche l’esperienza teatrale e letteraria di Sergio Givone, messe a disposizione del lettore con una similitudine dal tono autobiografico: come sono i fili delle marionette a trasmettere alla mano del marionettista impulsi sui loro movimenti futuri, così sono le parole nella loro evenienza a guidare lo svolgimento di ogni racconto.
A questo punto, osservato che solo un legame vivo con la trascendenza, con un’afasica aurora dell’esistenza, porta il racconto ulteriore alle radici dell’esperienza, si può forse dire che la verità di ogni narrazione consista nel recitare ripetitivo di un’assenza d’Inizio? “‘C’era una volta un re; chiamò un paggio e gli disse: raccontami una storia, e il paggio cominciò: c’era una volta un re; chiamò un paggio e gli disse: raccontami una storia, e il paggio cominciò...’” (p. 71), ricorda ironicamente al lettore Carlo Sini per svelare la ‘virtuosità’ del circolo in cui si svolge la finzione narrativa. Secondo il suo suggerimento, nella cornice del racconto l’istantaneità di ogni cominciamento è il tramite espressivo di una pratica precedente che lo comprende e sostiene, ossia di quell’interazione di narratore e ascoltatore che riattiva il senso di ciò che è stato, ma che non c’è più, “con l’intesa che c’è stato così come lo si racconta” (p. 70). In una prospettiva analoga si apre la meditazione diaristica di Jean-Luc Nancy, che con una rilettura della Creazione viene a riproporre l’enigma del primo giorno: esso non c’è mai stato, “poiché il tempo non gli preesisteva o non gli preesiste” (p. 75), e purtuttavia rinnova la sua nascita a ogni sorgere del sole. Tra le annotazioni quotidiane del suo diario, però, la persistenza cadenzata del procedere del tempo (come “un eterno ritorno”, p. 77) rivela drammaticamente anche il suo rovescio, la cifra di lacerazione che ogni giorno porta con sé nascendo nella “spartizione della luce e delle tenebre” (p. 79) e riversa sulle distanze di luoghi e tempi, sullo sbriciolarsi del quotidiano, sull’estraniarsi del corpo umano all’occhio medico.
Il senso non-intimo, ma radicale ed epocale dei contributi di questo libro emerge con decisione dalla plasticità con la quale le tematiche trattate non si risolvono che in ulteriori risvolti. L’ambivalente sospensione del dies, attesa di distinzione e definizione, scivola in un’ombra senza corpo, come la verità, che trascorre ogni giorno nella ricerca di definizione di se stessa nel racconto di Massimo Donà; per riemergere nelle quattro figure scolpite su legno di Matisse, ove l’artista sperimenta la possibilità di sottrarre “anche se stesso, il suo lavoro di sottrazione” (p. 116), per giungere poi a specchiarsi nella desolata Città degli Immortali sospesa tra terra e cielo, di cui scrive Vincenzo Vitiello. Si può pertanto leggere l’aspirazione del racconto ulteriore nell’impegno di offrire uno spazio in cui coltivare il valore dell’esistenza umana come evento e storia, in alternativa alla quotidianità spersonalizzata e frammentata di una “cultura centrata sull’autoriferimento rappresentativo e sull’imposizione tecnica propria di una volontà di potenza” (p. 109, Aldo Giorgio Gargani) caratteristica dell’uomo occidentale. Accogliere, però, quest’aspirazione a partire dalle sue possibili derivazioni dal nutrito terreno delle filosofie novecentesche, avrebbe il limite di non restituire pienamente l’intenzionale distrarsi dall’impianto teoretico dell’argomentare filosofico che s’incontra in questo libro. La sua comprensione appare piuttosto inevitabilmente legata allo spessore etico di uno sforzo di espressione che è risposta a un bisogno, assunzione di responsabilità, relazione con altri: “Noi raccontiamo nella nostra scrittura le vicissitudini di una passione etica che richiede il coraggio di una nuova via e il sacrificio di quello che eravamo stati” (p. 100).

Indice

Un’esperienza di verità. Prefazione di Flavio Ermini
Una variante per la cacciata dal giardino di Yves Bonnefoy
La luce che acceca la notte di Félix Duque
Allusione a un inizio di Philippe lacoue-Labarthe
Tre storie sul tempo e sull’apparenza di Antonio Prete
Un amore a Ginevra di Roberta De Monticelli
La risata di Spinoza di Andrea Tagliapietra
Il marionettista di Sergio Givone
Il bambino e il re di Carlo Sini
Diario di Jean-Luc Nancy
Il lamento dell’erranza di Massimo Donà
La vita scritta di Aldo Giorgio Gargani
Le finzioni della memoria di Vincenzo Vitiello


Il curatore

Flavio Ermini, poeta e saggista, nasce a Verona dove lavora in campo editoriale. Impegnato presso la Moretti & Vitali e la Cierre Grafica, dirige la rivista di ricerca letteraria “Antarem” e fa parte del comitato scientifico delle riviste “Osiris”, “Panoptikon” e “Testuale”. Tra le sue opere più recenti di poesia ricordiamo Poema n. 10. Tra pensiero (Roma 2001), e di saggistica Il moto apparente del sole (Bergamo 2006) e Antiterra (Genova 2006).

Buttarelli, Anna Rosa (a cura di), La passività. Un tema filosofico-politico in María Zambrano.

Milano, Bruno Mondatori, 2006, pp. 182, € 18,00.

Recensione di Stefano Santasilia - 20/12/2006

Filosofia teoretica

Il testo, curato da Annarosa Buttarelli, ha come tema la questione della passività nell’opera di María Zambrano e si connota come una molteplice lettura di tale problematica esposta secondo un ventaglio di possibilità. Queste si articolano in modo da non costituire solo uno sguardo teoretico ed ermeneutico di carattere filosofico ma, in alcuni casi, una comprensione di tale connotazione dal punto di vista biografico. Il volume raccoglie gli atti del convegno, tenutosi presso l’Università degli Studi di Verona verso la fine del 2004, che ha avuto, appunto, come tema quello della ruolo della passività nel pensiero zambraniano, presentandosi come una ricca esposizione del pensiero zambraniano e della passività come suo asse centrale, sebbene in alcuni punti l’interpretazione possa apparire un po’ troppo “femminile” (nel senso in cui la caratterizzazione del pensiero viene ascritta alla femminilità come carattere determinante).

Come ricorda la Buttarelli, sin dall’introduzione, la scelta di tale tema non ha una motivazione squisitamente teoretica o casuale: la passività si propone come tema centrale nella riflessione della Zambrano e allo stesso tempo ci indica una possibile risposta all’angoscia generata dal “vivere nel nostro tempo”. Lo scopo del volume, a parere della curatrice, è dunque quello di ridare dignità a tale tema che sta ormai “guadagnando terreno” anche in altri campi, quale per esempio quello fenomenologico. L’apprendere ad essere “correttamente passivi”, cosa che la Zambrano ha mostrato nel suo itinerario biografico, è l’unica possibilità per non essere sovrastati da una passività nella quale siamo addirittura incapaci di patire (p. 2), e che per questo ci provoca angoscia e depressione. Tale incapacità si traduce nell’impossibilità di riscattare la nostra stessa esistenza. «María Zambrano è la grande pensatrice che ha saputo salvare la passività», collocandola all’origine del pensare e del vivere autentico, restituendo al patire «la dignità di passione prioritaria e costitutiva dell’essere umano» (p. 3). La passività viene, dunque, considerata come fonte dell’attività, il che mostra la necessità di «imparare a patire per imparare ad agire» (p. 5). La proposta che accomuna i saggi contenuti in questo volume è, dunque, quella di rivolgere lo sguardo alla riflessione zambraniana, ripartendo da essa, per imparare a patire e riconoscere un sentire che è primum rispetto al conoscere.

In base a tale suggerimento (che allo stesso tempo è suggestione), i saggi, che costituiscono l’opera in questione, possono essere considerati e ripartiti, secondo il loro contenuto, in due classi: quelli che trattano della questione della passività dandone una lettura generale a partire dall’opera della pensatrice spagnola, e quelli in cui l’autore tenta l’analisi di un momento particolare della produzione zambraniana rilevando in tale parte la centralità della “dimensione passiva”.

Alla prima classe appartiene il saggio di Elena Laurenzi, che apre il volume, e nel quale si pone il problema della libertà nel suo essere legato alla passività. Riconoscendo la libertà come paradosso (in quanto sempre condizionata) (p. 15), l’autrice mostra come attraverso le proprie scelte di vita María Zambrano abbia sempre mostrato una profonda fede nella libertà, senza misconoscere il “patire attivo” che in essa si cela (p. 18). In tale patire, l’uomo deve imparare a “patire il tempo” affinché interiormente possa dare vita a quello che poi si manifesterà come azione. Attraverso l’analisi di figure femminili quali Antigone ed Eloisa, che percepiscono la vita come un “oscuro patire”, la Zambrano delinea una concezione dell’azione autentica dispiegatesi come un “sostenere” la propria passione per tutta la vita. La Laurenzi mostra come la pensatrice spagnola, ribaltando schemi concettuali precostituiti, porti alla luce una concezione della vita come “passione”, che è quindi allo stesso tempo azione. L’essere passione dell’esistenza, fa sì che essa non possa mai tradursi completamente in teoria o ideologia. La libertà, dunque, come rivelatrice del patire che soggiace ad ogni azione e che è esso stesso “sostenere”, si manifesta come la “forma delle forme dell’umano” (p. 19). L’uomo, però, non è mai libertà assoluta, ma sempre condizionata, o meglio “incarnata”; incarnazione nella quale si manifesta il perenne anelito ad andare oltre i propri limiti, riconoscendo che il proprio essere si radica nella necessità. La vita umana, si attualizza, come «tensione tra necessità e speranza, tra la gravità che ci tiene vincolati a ciò che esiste e la speranza che è ansia di superamento» (p. 25). Tale tensione mostra il rapporto della libertà con la storia, per la quale «la condizione ontologica della libertà si traduce in una dimensione tragica che la vede necessariamente coniugata alla passione» (p. 27). Come nota la Laurenzi, la libertà zambraniana è, dunque, “passione del mondo”: gettatezza e vocazione, che ci rendono unici e ci impongono di non eludere il compito di vivere.

La lettura della passività come condizione dell’essere libero, la indica come la fonte dell’umano agire, e quindi anche del filosofare. Di questo si interessa Luigina Mortari nel suo saggio sulla passività come metodo. A partire dalla riflessione sull’uomo, come essere avente un preciso posto nel cosmo, María Zambrano considera la vita umana come un “farsi”. Analizzando come, da tale questione, derivi quella del metodo, Mortari propone una lettura dell’opera zambraniana come distanziamento radicale da quella che si può definire la “ricerca della verità extratemporale” (p. 102). Il metodo deve permettere di fare filosofia in maniera aderente all’esistenza nel suo svolgersi. A partire da Platone, il metodo si è andato sviluppando come uno “sguardo innaturale sulle cose”, contrario alla vita, e Cartesio «per il quale il metodo non è che un esercizio della mente, non fa che esasperare questa lontananza dal mondo» (p. 103). Tale di stanziamento provoca il chiudersi su se stessa, da parte della ragione. Si tratta di una “violenza teoretica” che produce un’alienazione definita dalla Zambrano con l’espressione “entrare in ragione”. A tale logica autoreferenziale, la Zambrano oppone il principio dell’“entrare in realtà”, ovvero ridare voce anche a quella realtà che la violenza della mente aveva zittito: il cuore. La Mortari nota come tale metodo si dispieghi come manifestazione di un peculiare “realismo” amoroso”, unica possibilità di effettuare un sapere “vivificante e vivo”. Entrare nella realtà significa riprendere contatto con l’umana condizione; per questo motivo, tale metodo «è essenziale per cogliere quella verità capace di rischiare la vita» (p. 104). Solo il pensiero che si lascia condizionare dal corpo, dal cuore, e dalla mente può conoscere la vita umana e il suo dispiegarsi. Il criterio di un tale metodo consisterà nel mantenersi, il più possibile, aderenti alle cose attraverso un atteggiamento di continua “circumnavigazione del reale”. Un “girare attorno alle cose” (p. 106) che sostituisce la “penetrazione del reale” con una lettura-contemplazione che non manipoli il mondo: «strano movimento, dunque, questo girare attorno, che non solo è un muoversi sempre su una circonferenza che si mantiene a rispettosa distanza dall’oggetto, ma addirittura si porta sempre più all’esterno fino a sfumare nell’orizzonte» (p. 107). Tale sfumare comporta un riposizionamento dell’io che non può più concepirsi come centro della realtà. Il conoscere diviene, dunque, attenzione (p. 108) e passività (p. 111), laddove quest’ultima consiste nell’apprendere quell’ascolto del reale che solo può svelarcelo: «quando ti trovi nel bosco fitto dei problemi per i quali non c’è ancora una risposta, Cartesio suggerisce di camminare il più diritto possibile in una certa direzione, che una volta scelta non va cambiata; (…) Zambrano, invece, evita ogni modo affrettato, non sente alcuna ansia del trovarsi nella penombra del bosco e suggerisce di stare “senza progettare tragitti, senza inciampi, né contorsioni”» (p. 113).

Un metodo che non concede possibilità ad una filosofia sistematica. Questo l’argomento centrale dell'ultimo dei saggi che possiamo ascrivere a quella che abbiamo definito la prima classe, nel quale Oscar Adán mostra il pensiero della filosofa spagnola come un “transito” nel quale non si dà spazio alla dialettica, intesa come violenza. A partire dal confrontarsi della Zambrano con i testi di Platone, si va delineando la distanza della pensatrice da quella filosofia che manca di rispetto (p. 122). Seguendo l’interpretazione che la Zambrano dà del mito platonico della caverna, cogliendo il filosofare come “estasi fallita a causa di uno strappo”, Adán riporta l’attenzione sulla questione del sacro come possibilità di cogliere il vincolo che lega l’uomo alla realtà. Il mondo, prima della nascita della filosofia, era percepito come il sacro. Percezione spezzata dall’irrompere di una ragione che attua una “violenza della verità”, segnando una modalità del rapporto tra uomo e mondo: il desiderio di possesso, «desiderio, potere e violenza si trovano alla base del logos a partire da Platone» (p. 125). Tale violenza, espressa dal concetto, è quello che la Zambrano mette in dubbio proponendo un sentire originario che non sia segnato da quella hybris che nasce da «movimento della ragione di per sé, distaccata ormai già da tutto» (p. 129). Espressione di tale sentire è quella forma di amore che si incarna nella contemplazione del reale.

Tale contemplazione non si dà, se non a partire dal verbo come logos incarnato. Questo il tema del saggio di Silvano Zucal, nel quale la questione della passività viene letta attraverso la lente del “verbo” come parola accolta nelle proprie viscere. Così, María Zambrano è colei che ha saputo accoglierlo, che lo ha ascoltato e «con-respirato, in una “passività” attiva» (p. 58). Tale logos non è quello trionfante che non conosce la condizione umana e che dall’alto si impone con “violenza”, ma quello del «verbo che si nasconde», appunto, nella passività accogliente (p. 59). Al di là della passività come atteggiamento personale, tale logos manifesta una passività riguardante la parola stessa, e che ne caratterizza la sua autenticità come parola della vita. Nel suo costituirsi come ratio discorsiva, la parola filosofica si è allontanata dalla vita, la quale è ancora presente in quel dire che non è concetto ma che permette di concepire (p. 60). Solo attraverso un atto essenziale di auto-svuotamento si può permettere alla verbo di sorgere dal fondo della nostra esistenza. Tale condizione esige il crollo dell’ego-latria, così caratteristica della filosofia occidentale moderna. Il disfarsi dell’io è iniziazione alla passività che permette di ritrovare la “parola perduta”, parola della vita che si mostra come “verbo dell’amore” (di qui il riferimento a Cristo), nel quale tutte le altre parole si inverano. Zucal sottolinea come l’opera della Zambrano inviti a un nuovo imparare a parlare che, necessariamente, deve partire da un “autentico” balbettio, voce di chi ha «deposto volutamente ogni onnipotenza del logos» (p. 66). La parola accolta nella passività, rintracciata attraverso sentieri mistici, richiede un atteggiamento di pudore in quanto epifania della parola originaria (p. 73). Essa è parola ormai perduta per quella filosofia che non sa ascoltare, ma parola iniziale, rivelata nella passività, che permette un’autentica costruzione di relazioni umane: «libera dal narcisismo autoprotezionistico del soggetto, priva di ogni protezione solipsistica, potrà finalmente “dire qualcosa e [soprattutto] dirla a qualcuno”» (p. 77). Tale saggio fa da cerniera tra le due tipologie contenute in tale volume, mostrandosi come epilogo necessario di un dire alternativo e soglia di quelle analisi che prendono il loro avvio dal rivolgersi di questo dire al particolare.

A tale “rivolgersi” fa riferimento l’intervento di Chiara Zamboni, che mette in evidenza la domanda, presente in tutto l’itinerario speculativo della pensatrice spagnola, riguardante il sogno e la veglia. Focalizzando l’attenzione su tale questione, Zambrano non fa altro che inserirsi in una tradizione, quella spagnola, che da sempre si interessava a tale questione, nella quale confluivano anche gli apporti del mistico raccontare. È in questa storia, “altra” rispetto al racconto della ragione, che la Zambrano si radica per dare il via alla sua riflessione (p. 35). Attraverso un’autentica fenomenologia del sogno, la Zambrano mostra la passività come tratto distintivo del sognare. Passività che si connota come «condizione paradossale per la quale non è l’io a sognare il mio sogno, ma è il sogno a sognare il mio io» (p. 36). Il sogno si manifesta come il momento in cui colgo quel residuo di vita originaria, di cui sono minimamente consapevole ma che non posso manipolare. Vita spontanea che sgorga dall’anima, ma che viene da essa trascinata (p. 37). Nel sogno siamo chiamati all’accoglienza di ciò che non conosciamo, oppure al tralasciarlo: «l’essere porta con sé, in quanto sogno l’enigma della rivelazione e l’indizio di una vocazione, di un destino». Il sogno è la garanzia che l’essere è eccedenza (p. 39). Tale eccedere ed ecceder-ci dell’essere, attraverso il sogno, riapre al questione della trascendenza come autentico dimensione dell’umano, a patto che l’uomo sia disposto ad accogliere tale “passività”. Una passività rivelatrice dell’oltre, che la Zamboni analizza confrontando l’interpretazione zambraniana del sogno, con quella di Simone Weil. Tale comparazione mette in risalto la peculiarità che nella riflessione della pensatrice spagnola assume la passività, come rivelazione di una vita “autentica”.

Altra analisi della concretezza attraverso la quale si manifesta la parola della vita è quella di Rosa Rius Gatell, riguardante l’allegria e il dolore come poli della dimensione emotiva dell’uomo. La questione dell’allegria e del dolore tocca qualcosa che va oltre la mera emozione. A partire dal testo Alegría y dolor, la Gatell mostra come la Zambrano concepisca questi due sentimenti «criteri di giudizio capaci di donarci sapienza» (p. 84), in quanto esigono una ragione capace di pensare l’essere umano nella sua integrità. Entrambi, allegria e dolore, fanno parte della condizione umana, che è passività ricettrice. Essi si mostrano, dunque, come dimore «dove accade sempre qualcosa di essenziale» (p. 87). In queste dimore avviene una trasformazione “educativa”, che ci permette di riconoscere la “rinascita” che segue l’attraversamento cosciente di ogni dolore, rinascita che si manifesta soprattutto con i tratti dell’allegria (p. 89). Seguendo il dipanarsi del discorso zambraniano attraverso altre due opere (Note di un metodo e L’uomo e il divino), siamo condotti alla scoperta dell’allegria come ciò che intensifica le nostre forze (p. 90) in una vita che sempre è connotata dal dolore, letto attraverso gli eventi particolari della morte (come sottrarsi ai nostri occhi della persona stessa) e della malattia. Riguardo tali dimensioni dell’umano esistere, la Gatell mette in atto un dialogo tra la pensatrice spagnola e il pensiero tragico di Nietzsche, mostrando come la prima fosse riuscita ad accogliere, nella sua scrittura, anche la lezione nietszcheana e, in maniera estremamente peculiare, anche la concezione spinoziana dell’allegria come passaggio ad una maggiore perfezione (p. 95). Così, «la parola adeguata per definire chi ha attraversato queste dimore, secondo Zambrano, è iniziato», in quanto dolore e allegria permettono di “soffrire un’iniziazione” alla profondità dell’umana vita.

Alla malattia è dedicato anche il saggio di Wanda Tommasi. Qui, l’analisi del vuoto creato dallo stato di malessere, permette di osservare come la riflessione della Zambrano si delinei sempre come l’attraversamento di un vuoto, di un deserto, all’interno del quale già si percepisce la possibilità di una “rinascita”. Il vuoto si manifesta come “lacerante” apertura di un nuovo orizzonte che in quando tale è “dono”, «rivelazione che è possibile riscattare la passività risvegliandola» (p. 160). La passività, dunque, non è “totalmente passiva”, o meglio non lo è quando è assunta. A partire da disfare realizzantesi nella malattia, preludio di una nuova esistenza, la Tommasi si sposta poi ad analizzare la questione dell’esilio, come momento in cui si mostra in maniera evidente la possibilità del “risvegliare la passività” (p. 162). Anche l’esilio, proprio nell’essere questa possibilità, è dono: apertura di un orizzonte nel quale ogni uomo si riconosce come esiliato rispetto alla patria originaria, e per questo mosso a vivere autenticamente la sua ricerca. Ricerca che si realizza attraverso separazione e sacrificio, tentando di coltivare quelle radici della speranza che, come mostra chiaramente nel suo saggio Riccardo Panettoni ripercorrendo in maniera agile il pensiero zambraniano, solo può essere «ponte fra il deserto dell’anima e la riapertura del senso» (p. 166). La speranza è possibilità del senso e il senso è luce gettata sulla realtà, ma questa luce non si incarna nella violenza del concetto, bensì nella penombra dei “chiari del bosco”. Il pensiero, dunque, come mostra Rossella Prezzo, è per Zambrano un “saper guardare”, «conoscenza che si ottiene solo patendo e compatendo; che si fa nel sentire, il patire la verità della vita prima che si presenti» (p. 176). Per questo, nel suo saggio, Javier Ruiz, amico personale di María Zambrano, può affermare che l’opera della filosofa è come un tracciato, un sentiero dell’ascolto, lungo il quale tutte le cose sono disposte come in «una sorta di partitura» (p. 53). Un ascolto che non è luce accecante, ma “limpido intravedere” nella penombra dell’esistenza.

Indice

Introduzione
Il paradosso della libertà. Note su libertà e passione in María Zambrano (Elena Laurenzi)
Le vie ambigue della passività nella forma del sogno (Chiara Zamboni)
Il sentiero dell’ascolto (Javier Ruiz Sierra)
La passività del Verbo (Silvano Zucal)
Dell’allegria e del dolore in María Zambrano (Rosa Rius Gatell)
Verso un metodo della passività (Luigina Mortari)
Passività o sistema. María Zambrano e la violenza (Oscar Adán)
Il patimento della separazione e le leggi del sacrificio (Riccardo Panattoni)
Il dono della malattia e dell’esilio: il riscatto della passività (Wanda Tommasi)
Nel labirinto della luce (Rossella Prezzo)


La curatrice

Annarosa Buttarelli fa parte della Comunità filosofica Diotima dell'Università di Verona, presso la quale collabora con il Dipartimento di Filosofia. Alla filosofa spagnola Maria Zambrano ha precedentemente dedicato il saggio Una filosofa innamorata. Maria Zambrano e i suoi insegnamenti (Bruno Mondadori, Milano 2004). Impegnata nel pensiero e nella politica della differenza, sta curando, insieme con Luisa Muraro e Liliana Rampello, il volume Duemilaeuna. Donne che cambiano l'Italia (Pratiche). Ha pubblicato recentemente, con Laura Boella, Per amore di altro. L'empatia a partire da Edith Stein (Cortina, 2000).

Links

Sito di filosofia in lingua spagnola e ispanoamericana.

Sito della Fondazione María Zambrano

martedì 19 dicembre 2006

Mansfield, Harvey, Virilità. Il ritorno di una virtù perduta.

Milano, Rizzoli, 2006, pp. 359, € 19,00, 88-17-01446-X.

Recensione di Enrico Biale - 19/12/2006

In questo testo Harvey Mansfield, professore di filosofia politica presso la facoltà di Harvard, tenta, attraverso l’analisi del pensiero di filosofi quali Platone ed Aristotele e letterati come Omero o Hemingway, di analizzare e difendere una virtù, a suo parere, dimenticata: la virilità.
La virilità è per definizione una virtù maschile ed ha quindi subito negli ultimi anni (dall’affermazione del femminismo in avanti, secondo Mansfield) profonde critiche da parte dei teorici di una società non sessista. Questi ultimi non possono infatti accettare alcun elemento che sia sessualmente connotato; che demarchi un’essenziale differenza tra i sessi: uomini e donne sono uguali (o meglio ancora indifferenziati) ed affermare il contrario è frutto di un pregiudizio che deve essere smascherato. La virilità inoltre spinge gli uomini a comportarsi in modo violento ed irrazionale non riconoscendo alcun diritto a chi non la possiede. Meglio quindi sbarazzarsene escludendola dal dibattito pubblico.
A parere di Mansfield questo è un errore concettuale e politico commesso dai teorici della società non sessista a causa del proprio pregiudizio sull’assoluta indifferenza tra uomini e donne.
Uomini e donne sono diversi e non solo a livello fisico. Mansfield cita una serie di studi empirici che analizzano le interazioni tra soggetti mostrando come gli uomini tendono ad imporsi con più facilità, ad asserire con più frequenza mentre le donne sono più relazionali, attente al contesto ed equilibrate. Tali differenze verrebbero spiegate proprio dalla virilità, la quale non solo non deve essere confusa con la cieca violenza ma risulta essere il miglior modo per difendersi da quest’ultima (ecco la sua utilità politica). Gli uomini virili sono spinti ad affermare se stessi e le proprie ragioni di fronte ad un pubblico; gli altri sono visti come un uditorio davanti al quale bisogna imporsi piuttosto che come qualcuno con cui dialogare. Tali caratteristiche sono fondamentali in un ambito politico concepito da Mansfield come terreno di scontro, dove è necessario possedere la forza e non aver paura di utilizzarla.
A sostegno delle proprie tesi Mansfield cita Platone ed Aristotele ma ricorda anche come Locke, padre del liberalismo moderno, pur riconoscendo a tutti pari diritti, ponesse al centro del corretto funzionamento dello Stato una virile società civile in grado di vigilare ed intervenire con fermezza nei momenti di maggiore difficoltà. Senza la virilità, ripete Mansfield, il liberalismo è vuoto e non può affrontare i momenti di grande difficoltà come quelli che stiamo vivendo ora (Twin Towers e terrorismo internazionale).
Le tesi di Mansfield mi sembrano molto problematiche non tanto per la loro scorrettezza politica quanto per la loro inconsistenza concettuale. L’analisi dei testi filosofici è parziale, fondata su interpretazioni faziose e superficiali; più convincente risulta lo studio delle opere letterarie che però non possono, in quanto finzione, giustificare la forte rivalutazione della virilità voluta da Mansfield. Al fine di rafforzare la propria posizione l’autore fa quindi spesso ricorso ad una serie di luoghi comuni, sostenendo per esempio, a conferma della diversità uomo/donna, che «oltre ad essere più deboli degli uomini i corpi femminili sono fatti per attrarre e soddisfare gli uomini. Questi dati di fatto [corsivo mio] non possono che influenzare l’autonomia delle donne» (p. 202). Quest’ultima verrebbe anche minata dal fatto che «alle donne piacciono ancora molto le faccende domestiche, il cambio dei pannolini, e anche gli uomini virili» (p. 30).
Virilità più che una seria indagine filosofica mi sembra un pamphlet politico fondato più sulla persuasione che sulla ragione. Per comprenderlo appieno mi pare necessario capire quale sia il suo vero obiettivo polemico; potrebbe sembrare strano che un tale apparato retorico venga messo in campo contro un movimento, come quello femminista, ormai minoranza sia a livello politico che concettuale. Non si deve però dimenticare, e non lo fa Mansfield che lo ricorda spesso all’interno del testo, che alcune delle istanze del femminismo sono state accolte all’interno del liberalismo di matrice egualitaria. Questo è il vero obiettivo polemico di Mansfield il quale, ponendo al centro della scena (sarebbe meglio dire lotta) politica la virilità, mette in dubbio che i problemi, quelli seri, possano essere risolti dalla ragione strumentale e dal dialogo: strumenti tipici delle democrazie liberali. È tanto chiaro che il femminismo sia solo un uomo di paglia che nell’ultimo capitolo l’autore sostiene come i veri nemici dei gentiluomini virili non siano le femministe radicali quanto piuttosto i professionisti: coloro che di fronte al pericolo si mettono a fare conti e non sguainano immediatamente la spada. A parziale difesa del liberalismo mi sembra opportuno ricordare come anche in guerra possa essere utile ragionare e non partire immediatamente all’attacco; raggiungere un compromesso piuttosto che voler vincere a tutti i costi la battaglia. In ambito politico, inteso non solo come lotta ma anche come spazio comune e condiviso, è necessario valutare pregi e difetti delle azioni attuate a seconda degli effetti che queste hanno sulla vita degli altri individui, del pubblico. Considerando quindi non solo quello che la virilità è (decisione, assertività, forza…) ma anche quello che non è (ragione, ponderazione, attenzione verso gli altri) bisognerebbe chiedersi se sia meglio essere guidati da dei professionisti che valutano le conseguenze delle proprie azioni oppure da una serie di gentiluomini che vedono negli altri un pubblico di fronte al quale affermare la propria forza.

Indice

Prefazione
La neutralità di genere
La virilità come stereotipo
Assertività virile
Nichilismo virile
Nichilismo femminile
Il liberale virile
La virtù virile
Conclusione. La virilità disoccupata


L'autore

Harvey Mansfield studia ed insegna filosofia politica all’Università di Harvard. Ha scritto saggi sul pensiero di Edmund Burke e la natura dei partiti politici, Niccolò Machiavelli e l’invenzione del governo indiretto. E’ stato uno dei primi a sostenere la necessità di utilizzare le categorie della scienza politica nello studio delle opere costituzionali.

giovedì 14 dicembre 2006

Arendt, Hannah, La menzogna in politica. Riflessioni sui «Pentagons Papers», a cura di Olivia Guaraldo.

Testo originale a fronte, traduzione di Veronica Santini, Genova-Milano, Marietti,  2006, pp. 85, €. 12,00, ISBN 8821194426.

Recensione di Francesca Rigotti, 14/12/2006

Filosofia politica, Verità, Morale

L'uomo è un essere capace di mentire, lo dice persino la Bibbia: “omnis homo mendax” (Salmo 115, 11). Deve e può per questo mentire? In politica, il luogo delle scelte collettive e che interessano la collettività, si può mentire, certo. Si deve per questo farlo? Devono la pratica della menzogna e del mendacio essere, in politica, tollerate e perdonate se non addirittura incoraggiate? Deve essere la menzogna, per politici e diplomatici, un'arte del mestiere da apprendere ed esercitare?
Secondo Hannah Arendt pare di sì, a leggere il testo di questa conferenza, trasformata nel 1972 in articolo per la «New York Review of Books» e diretta a commentare la pubblicazione avvenuta l'anno prima di alcuni documenti relativi all'impegno americano nel sud-est asiatico dopo la seconda guerra mondiale (i «Pentagons Papers»). In quell'inglese stilisticamente duro e farraginoso nel quale si ostinava a scrivere personalmente, forse per accentuare la sua identificazione con il pubblico americano (“we were conducting a war in Vietnam”, (p. 30)). “We” chi? “We Americans”, lascia intendere Arendt che evidentemente tale si sentiva, nonostante le dichiarazioni pubbliche di tenore contrario (tra cui la celebre “ci resta la lingua”, alludendo alla lingua tedesca), Hannah Arendt giustifica la dissimulazione, l'inganno e la menzogna in quanto strumenti legittimi per l'ottenimento di fini politici, come ci ha ampiamente dimostrato l'ex (sia ringraziato il cielo) presidente Berlusconi.
Spiega Olivia Guaraldo nell'ottima prefazione che per l'A. l'uso politico della menzogna era autorizzato per es. in delicate operazioni di segretezza. Non lo era invece nel caso di una deliberata volontà – come quella dimostrata dagli uffici strategici di Washington – di trascurare se non addirittura disprezzare i fatti. Insomma la Arendt dimostra di sostenere la classica posizione dei “due pesi, due misure”, come se la menzogna saltuaria che copre un aspetto della realtà politica fosse moralmente lecita, quella che sostituisce la realtà invece no.
Ora, che a una corretta pratica democratica sia consentita e perdonata la torbidità invece della trasparenza, la dissimulazione e la segretezza al posto della visibilità è un pessimo segnale dello stato di salute della democrazia, che dovrebbe essere sempre limpida e trasparente. In circostanze di democrazia sana il bugiardo non soltanto è sconfitto dalla realtà, ma viene messo subito in ridicolo quando la altera, come nel caso della menzogna berlusconiana sullo stato dei conti pubblici nel trascorso (per fortuna) governo.
Un altro argomento arendtiano sostiene che la menzogna è lecita se rivolta verso il nemico, condannabile invece se praticata a uso interno nei confronti dei propri concittadini. Posizione morale molto consequenzialista e utilitarista, per non dire opportunistica e camaleontica. Ovviamente questa è una critica rivolta a Arendt dalla postura di chi assegna un posto fondamentale al dovere nella propria posizione morale, postura deontologica rigorosa e per la quale tra la menzogna tradizionale (mentire per ragion di stato) e la falsificazione dei fatti per ragioni di immagine non sussiste una differenza di qualità, come sostiene invece Hannah Arendt.
Se la distinzione di Arendt non è quindi moralmente generalizzabile né sostenibile da un punto di vista kantiano, più attraente risulta la posizione, messa in rilievo da Olivia Guaraldo alla fine della prefazione, che afferma l'importanza della radicale pluralità degli uomini (la “legge della terra”) che non esistono nemmeno in teoria come Uomo al singolare, ma sempre e unicamente al plurale, e nemmeno, scrive Guaraldo, come “entità fra loro slegate, bensì come esistenti unici costitutivamente in relazione l'uno con l'altro” (p. XXXVIII).

Indice

Le verità della politica
di Olivia Guaraldo

Lying in Politics
Reflections on the Pentagon Papers

La menzogna in politica
Riflessioni sui Pentagons Papers

L'autore

Hannah Arendt (Hannover 1906-New York 1975), allieva di Heidegger e Jaspers, lasciò la Germania nel 1933. Dopo un soggiorno in Francia nel 1941 arrivò negli Stati Uniti dove rimase anche dopo la fine della guerra insegnando nelle più prestigiose università d'oltreoceano.Tra le sue opere principali: Le origini del totalitarismo, Vita Activa, Sulla rivoluzione, La banalità del male, Tra passato e futuro, La vita della mente.

La curatrice

Olivia Guaraldo, dottore di ricerca in Political Science all’università di Jyvaskyla, Finlandia, insegna Filosofia Politica all’Università di Verona. Ha pubblicato Politica e racconto. Trame arendtiane della modernità, Meltemi, Roma 2004; con Leonida Tedoldi, Lo stato dello Stato. Riflessioni sul potere politico nell’era globale, ombre corte, Verona 2005. Ha inoltre curato e introdotto J. Butler, La disfatta del genere, Meltemi, Roma 2006.

Links

Berlin Arendt Networking Group (in tedesco e inglese)

Ghilardi, Marcello, L’enigma e lo specchio. Il problema del volto nell’esperienza artistica contemporanea.

Padova, Esedra editrice, 2006, pp. 156, € 15,50, ISBN 8860580102.

Recensione di Mario Tanga – 14/12/2006

Estetica (filosofia dell’arte)

Il testo di Ghilardi è frutto di un’articolata e attenta riflessione su un tema sicuramente di frontiera, che si colloca all’intersezione tra etica, estetica, semiotica, filosofia dell’arte, e dimostra come il tentativo di circoscrivere (nettamente) e di ipostatizzare (definitivamente) certe discipline (filosofiche e non) sia destinato, se non al fallimento, quantomeno ad essere ripensato; questo perché nella storia del pensiero non si possono costruire cronologie rigorose e rigorosamente lineari e progressive.
La traccia argomentativa che l’A. struttura si appoggia su solidi pilastri, richiamandosi al pensiero di Autori che nella tradizione vengono considerati (diversità dei periodi storici a parte) tutt’altro che strettamente correlati. Si tratta, per citare solo i principali, di Plotino, Cusano, Descartes, Hegel, Eckhart, Lévinas, Weil, Merleau-Ponty, Calvino. Eppure, nell’economia del discorso di Ghilardi, questi stessi Autori si incastrano perfettamente nel fornire gli elementi necessari per lo sviluppo del discorso.
Sostanzialmente il testo propone l’arte (contemporanea) come territorio che consente di rimuovere vecchi dualismi dati sovente per scontati, tanto si sono sedimentati nella consuetudine.
Il lavoro dell’A. consiste soprattutto nello scandagliare la profondità del rapporto che si pone in essere tra il “soggetto” e l’“oggetto” dell’atto percettivo, nel caso particolare in cui l’oggetto sui generis è il volto (tanto il volto dell’altro in presenza, quanto il volto ritratto nell’opera d’arte), e in questa analisi ricerca e rende evidente la complessa trama dei fattori che entrano in gioco.
Rifacendosi spesso a sottili implicazioni etimologiche e/o semantiche, l’A. invita a ripensare molti termini usati spesso distrattamente, fino talvolta all’abuso, a cominciare proprio dalla definizione di “ritratto”. Ciò innesca quello che pare un mero gioco di parole, ma che in realtà è la rivelazione di parentele e legami dimenticati, che come sottili (ma feconde) ife sotterranee legano queste parole in una rete dalle geometrie concettuali talvolta sorprendenti. Sulla deriva di questa onda si giunge a scoprire punti di contatto (se non addirittura di interscambiabilità) tra aesthesis e ethos, tra aesthesis e estasi, tra eros e fede.
C’è più di un motivo per correlare le tesi di Ghilardi a quelle di altri ambiti del pensiero contemporaneo e di altri Autori, non solo a quelli che egli cita espressamente. Viene in mente una certa impostazione pragmatica della semiotica, ma anche quello del rapporto tra potere e vedere, che ritroviamo in Comolli (cfr. Vedere e potere, Roma, Donzelli editore, 2006) o, diversamente sviluppato, in Foucault. E ancora si potrebbe citare il tema dell’ambivalenza, che Umberto Galimberti ha spesso affrontato e approfondito. E proprio sul filo dell’ambivalenza sembra snodarsi il filo rosso dell’intero testo.
Tale ambivalenza si verifica tra l’immanenza (del significante, nella semiotica, o dell’esperienza corporea in genere) e la trascendenza (del significato o dell’ulteriorità di ogni differimento, di ogni astrazione), dato che ogni immagine, ogni opera d’arte, è una finestra che guarda su entrambi questi mondi: a seconda del lato da cui ci si affaccia si contempla o l’uno o l’altro, senza che si possa prescindere da nessuno dei due.
L’implicazione della corporeità come imprescindibile contraltare dei processi conoscitivi viene in molti punti ripreso e approfondito. L’A. traccia una vera e propria continuità tra questi due aspetti, rimuovendo ogni residuo di dualismo dalla scena non solo della conoscenza, ma anche della percezione, dell’immagine, dell’arte.
L’ambivalenza è anche quella dello sguardo che io rivolgo al mondo, all’oggetto (o a quello che convenzionalmente viene considerato tale) e che l’oggetto (nella fattispecie un oggetto particolarissimo qual è il volto dell’altro) rivolge a me, fino al punto di non poter distinguere le due cose. Lo sguardo perde così ogni connotato che lo fa intendere secondo un modello “balistico”, come un’azione che, partendo da un soggetto che la intraprende, va a “cadere” sull’oggetto che la “subisce”. Diviene piuttosto un campo di forze, dove, in più direzioni, fluisce l’energia che coinvolge “soggetto” e “oggetto”, ne scambia i ruoli, li implica reciprocamente in modo indissolubile e profondo.
L’ambivalenza è nel ritratto e, per estensione, nell’immagine in genere, che mostra e nasconde. Pur inscrivibile nel paradigma di un segno denotante che rappresenta un oggetto, cioè lo rende presente, l’immagine nello stesso tempo dice anche della sua assenza, anzi è identificabile con la sua assenza. Il ritratto ci porta così al paradosso (apparente) del “ritrarsi” di chi vi è raffigurato, in antitesi con la proprietà (che sembra così ovvio attribuirgli) di custodirne quanto meno l’essenza, in quanto raffigurazione o rappresentazione. Ciò almeno è quanto la probabile etimologia germanica del verbo “guardare” (warden o warten) sembra indicare. Ma si va anche oltre: cecità e capacità di vedere sono l’una condizione dell’altra, come l’A. afferma richiamandosi a Derrida. Farsi ciechi alla superficie per poter andare oltre, per poter vedere oltre, tralasciare l’apparente per cogliere l’essenza, non tanto però in un’alternativa dualistica di reciproche esclusioni, quanto piuttosto in una prospettiva di complementarità e reciproca implicazione. In più di un punto viene infatti richiamato il principio del terzo escluso per evidenziarne i limiti logici e pragmatici, nonché la necessità di superarlo.
Un’ulteriore ambivalenza si gioca nel rapporto di “causazione” tra sguardo e immagine, tra sguardo e volto. Esiste un’immagine (o un volto) perché c’è uno sguardo che viene rivolto ad essa (o ad esso) o c’è uno sguardo perché c’è un’immagine da guardare? Entrambe le cose, potremmo dire, è la risposta di Ghilardi. E questo potere di causazione viene inteso in modo tutt’altro che vago, fino ad essere concepito come determinante nel far sorgere la stessa identità del soggetto (anzi, di entrambi i soggetti coinvolti, dato che non c’è un soggetto e un oggetto nel senso tradizionale), in una sorta di processo iniziatico.
Ambivalente è la conoscenza che l’opera d’arte offre. Si tratta di una lama di luce che rivela quanto raffigura (secondo i criteri della mimesis), ma è anche lo sprofondare nell’abisso dell’assenza, dell’irraggiungibilità. Nell’insieme ciò che offre l’opera d’arte non è un oggetto “neutro” e inerte, né un qualcosa che appaga i sensi e lo spirito. L’opera d’arte, e più precisamente il volto ritratto che da essa ci “guarda”, ha una funzione spaesante, è motivo di turbamento, obbliga il nostro sguardo ad abbandonare quelli che credevamo i riferimenti sicuri per spingerlo su un itinerario incerto e pericoloso. In un processo che assume da un lato i toni della catarsi e dall’altra quelli della tragedia. E ciò introduce ad un altro concetto, l’ambivalenza dell’io.
L’io, che pur avendo come riferimento di partenza la propria identità, nasconde infatti dentro di sé il germe della differenza e della distanza da se stessi. Rivolgere il proprio sguardo (materiale, per mezzo di uno specchio, o interiore, per mezzo della riflessione) a se stessi, significa già sdoppiarsi, prendere le distanze da sé. Soggettività e soggettivismo trovano qui l’inizio del proprio disfacimento, della propria decostruzione, nell’esigenza di un coraggioso ma necessario abbandono della centratura sull’io come condizione per entrare nel gioco dell’immagine e dello sguardo. L’inevitabilità di questo spogliamento dalla soggettività, intesa in senso assoluto, ha secondo Ghilardi la sua dimostrazione nel fatto che si può rintracciarla tanto in chi l’aveva teorizzata (come Plotino che, nella contemplazione, vede dissolvere i confini tra sé e ciò che è fuori di sé) quanto in chi è riconosciuto, invece, come uno dei padri del soggettivismo (Descartes che, postulando come necessario punto di partenza per ogni conoscenza l’autocoscienza del cogito, già divide, all’interno di questo, soggetto e oggetto, creando uno sdoppiamento e una distanza da se stessi). La monoliticità e l’indissolvibilità dell’io perdono così i loro fondamenti per aprire prospettive radicalmente alternative.
Soggetto e oggetto, nel gioco del guardare (e dell’essere guardati che è l’ineliminabile reciproco di ogni sguardo che si rivolge al volto di un altro), vedono cadere questa distinzione di ruoli: il soggetto, ogni soggetto tradizionalmente inteso, perde la propria titolarità per entrare in un più complesso e dinamico gioco di relazioni, di incroci, di scambi. Non si può essere soggetto senza essere oggetto e viceversa.
L’enigma e lo specchio è una lettura indubbiamente interessante, sul filo del discorso che Ghilardi, autore attento e meticoloso, porta avanti lentamente. Si sofferma su ogni aspetto della questione, fino a esplorarne tutti i risvolti, anche i più piccoli. Questo, se da una parte giova a richiamare e trattenere l’attenzione del lettore fin sugli aspetti più minuti, dall’altra rischia di concedere forse un po’ troppo ad una modalità ridondante dietro la quale l’impalcatura argomentativa rischia di rimanere leggermente sfocata. Quest’ultima nota vuole solo essere un avvertimento per il lettore che, per profittare pienamente del contenuto, deve saper organizzare autonomamente la visione macroscopica dell’insieme.

Indice

L’immagine ritratta
Immagine, corpo, volto
Il ritratto in (rel)azione
Il conflitto del ritratto
Il dell’altro


L'autore

Marcello Ghilardi (Milano, 1975) è dottorando in Estetica e Teoria delle Arti presso l’Università di Palermo. Collabora alla Cattedra di Estetica dell’Università di Padova. Con lo stesso editore ha pubblicato Cuore e acciaio. Estetica dell’animazione giapponese (2003).