Recensione di Mario Tanga – 14/12/2006
Estetica (filosofia dell’arte)
Il testo di Ghilardi è frutto di un’articolata e attenta riflessione su un tema sicuramente di frontiera, che si colloca all’intersezione tra etica, estetica, semiotica, filosofia dell’arte, e dimostra come il tentativo di circoscrivere (nettamente) e di ipostatizzare (definitivamente) certe discipline (filosofiche e non) sia destinato, se non al fallimento, quantomeno ad essere ripensato; questo perché nella storia del pensiero non si possono costruire cronologie rigorose e rigorosamente lineari e progressive.
La traccia argomentativa che l’A. struttura si appoggia su solidi pilastri, richiamandosi al pensiero di Autori che nella tradizione vengono considerati (diversità dei periodi storici a parte) tutt’altro che strettamente correlati. Si tratta, per citare solo i principali, di Plotino, Cusano, Descartes, Hegel, Eckhart, Lévinas, Weil, Merleau-Ponty, Calvino. Eppure, nell’economia del discorso di Ghilardi, questi stessi Autori si incastrano perfettamente nel fornire gli elementi necessari per lo sviluppo del discorso.
Sostanzialmente il testo propone l’arte (contemporanea) come territorio che consente di rimuovere vecchi dualismi dati sovente per scontati, tanto si sono sedimentati nella consuetudine.
Il lavoro dell’A. consiste soprattutto nello scandagliare la profondità del rapporto che si pone in essere tra il “soggetto” e l’“oggetto” dell’atto percettivo, nel caso particolare in cui l’oggetto sui generis è il volto (tanto il volto dell’altro in presenza, quanto il volto ritratto nell’opera d’arte), e in questa analisi ricerca e rende evidente la complessa trama dei fattori che entrano in gioco.
Rifacendosi spesso a sottili implicazioni etimologiche e/o semantiche, l’A. invita a ripensare molti termini usati spesso distrattamente, fino talvolta all’abuso, a cominciare proprio dalla definizione di “ritratto”. Ciò innesca quello che pare un mero gioco di parole, ma che in realtà è la rivelazione di parentele e legami dimenticati, che come sottili (ma feconde) ife sotterranee legano queste parole in una rete dalle geometrie concettuali talvolta sorprendenti. Sulla deriva di questa onda si giunge a scoprire punti di contatto (se non addirittura di interscambiabilità) tra aesthesis e ethos, tra aesthesis e estasi, tra eros e fede.
C’è più di un motivo per correlare le tesi di Ghilardi a quelle di altri ambiti del pensiero contemporaneo e di altri Autori, non solo a quelli che egli cita espressamente. Viene in mente una certa impostazione pragmatica della semiotica, ma anche quello del rapporto tra potere e vedere, che ritroviamo in Comolli (cfr. Vedere e potere, Roma, Donzelli editore, 2006) o, diversamente sviluppato, in Foucault. E ancora si potrebbe citare il tema dell’ambivalenza, che Umberto Galimberti ha spesso affrontato e approfondito. E proprio sul filo dell’ambivalenza sembra snodarsi il filo rosso dell’intero testo.
Tale ambivalenza si verifica tra l’immanenza (del significante, nella semiotica, o dell’esperienza corporea in genere) e la trascendenza (del significato o dell’ulteriorità di ogni differimento, di ogni astrazione), dato che ogni immagine, ogni opera d’arte, è una finestra che guarda su entrambi questi mondi: a seconda del lato da cui ci si affaccia si contempla o l’uno o l’altro, senza che si possa prescindere da nessuno dei due.
L’implicazione della corporeità come imprescindibile contraltare dei processi conoscitivi viene in molti punti ripreso e approfondito. L’A. traccia una vera e propria continuità tra questi due aspetti, rimuovendo ogni residuo di dualismo dalla scena non solo della conoscenza, ma anche della percezione, dell’immagine, dell’arte.
L’ambivalenza è anche quella dello sguardo che io rivolgo al mondo, all’oggetto (o a quello che convenzionalmente viene considerato tale) e che l’oggetto (nella fattispecie un oggetto particolarissimo qual è il volto dell’altro) rivolge a me, fino al punto di non poter distinguere le due cose. Lo sguardo perde così ogni connotato che lo fa intendere secondo un modello “balistico”, come un’azione che, partendo da un soggetto che la intraprende, va a “cadere” sull’oggetto che la “subisce”. Diviene piuttosto un campo di forze, dove, in più direzioni, fluisce l’energia che coinvolge “soggetto” e “oggetto”, ne scambia i ruoli, li implica reciprocamente in modo indissolubile e profondo.
L’ambivalenza è nel ritratto e, per estensione, nell’immagine in genere, che mostra e nasconde. Pur inscrivibile nel paradigma di un segno denotante che rappresenta un oggetto, cioè lo rende presente, l’immagine nello stesso tempo dice anche della sua assenza, anzi è identificabile con la sua assenza. Il ritratto ci porta così al paradosso (apparente) del “ritrarsi” di chi vi è raffigurato, in antitesi con la proprietà (che sembra così ovvio attribuirgli) di custodirne quanto meno l’essenza, in quanto raffigurazione o rappresentazione. Ciò almeno è quanto la probabile etimologia germanica del verbo “guardare” (warden o warten) sembra indicare. Ma si va anche oltre: cecità e capacità di vedere sono l’una condizione dell’altra, come l’A. afferma richiamandosi a Derrida. Farsi ciechi alla superficie per poter andare oltre, per poter vedere oltre, tralasciare l’apparente per cogliere l’essenza, non tanto però in un’alternativa dualistica di reciproche esclusioni, quanto piuttosto in una prospettiva di complementarità e reciproca implicazione. In più di un punto viene infatti richiamato il principio del terzo escluso per evidenziarne i limiti logici e pragmatici, nonché la necessità di superarlo.
Un’ulteriore ambivalenza si gioca nel rapporto di “causazione” tra sguardo e immagine, tra sguardo e volto. Esiste un’immagine (o un volto) perché c’è uno sguardo che viene rivolto ad essa (o ad esso) o c’è uno sguardo perché c’è un’immagine da guardare? Entrambe le cose, potremmo dire, è la risposta di Ghilardi. E questo potere di causazione viene inteso in modo tutt’altro che vago, fino ad essere concepito come determinante nel far sorgere la stessa identità del soggetto (anzi, di entrambi i soggetti coinvolti, dato che non c’è un soggetto e un oggetto nel senso tradizionale), in una sorta di processo iniziatico.
Ambivalente è la conoscenza che l’opera d’arte offre. Si tratta di una lama di luce che rivela quanto raffigura (secondo i criteri della mimesis), ma è anche lo sprofondare nell’abisso dell’assenza, dell’irraggiungibilità. Nell’insieme ciò che offre l’opera d’arte non è un oggetto “neutro” e inerte, né un qualcosa che appaga i sensi e lo spirito. L’opera d’arte, e più precisamente il volto ritratto che da essa ci “guarda”, ha una funzione spaesante, è motivo di turbamento, obbliga il nostro sguardo ad abbandonare quelli che credevamo i riferimenti sicuri per spingerlo su un itinerario incerto e pericoloso. In un processo che assume da un lato i toni della catarsi e dall’altra quelli della tragedia. E ciò introduce ad un altro concetto, l’ambivalenza dell’io.
L’io, che pur avendo come riferimento di partenza la propria identità, nasconde infatti dentro di sé il germe della differenza e della distanza da se stessi. Rivolgere il proprio sguardo (materiale, per mezzo di uno specchio, o interiore, per mezzo della riflessione) a se stessi, significa già sdoppiarsi, prendere le distanze da sé. Soggettività e soggettivismo trovano qui l’inizio del proprio disfacimento, della propria decostruzione, nell’esigenza di un coraggioso ma necessario abbandono della centratura sull’io come condizione per entrare nel gioco dell’immagine e dello sguardo. L’inevitabilità di questo spogliamento dalla soggettività, intesa in senso assoluto, ha secondo Ghilardi la sua dimostrazione nel fatto che si può rintracciarla tanto in chi l’aveva teorizzata (come Plotino che, nella contemplazione, vede dissolvere i confini tra sé e ciò che è fuori di sé) quanto in chi è riconosciuto, invece, come uno dei padri del soggettivismo (Descartes che, postulando come necessario punto di partenza per ogni conoscenza l’autocoscienza del cogito, già divide, all’interno di questo, soggetto e oggetto, creando uno sdoppiamento e una distanza da se stessi). La monoliticità e l’indissolvibilità dell’io perdono così i loro fondamenti per aprire prospettive radicalmente alternative.
Soggetto e oggetto, nel gioco del guardare (e dell’essere guardati che è l’ineliminabile reciproco di ogni sguardo che si rivolge al volto di un altro), vedono cadere questa distinzione di ruoli: il soggetto, ogni soggetto tradizionalmente inteso, perde la propria titolarità per entrare in un più complesso e dinamico gioco di relazioni, di incroci, di scambi. Non si può essere soggetto senza essere oggetto e viceversa.
L’enigma e lo specchio è una lettura indubbiamente interessante, sul filo del discorso che Ghilardi, autore attento e meticoloso, porta avanti lentamente. Si sofferma su ogni aspetto della questione, fino a esplorarne tutti i risvolti, anche i più piccoli. Questo, se da una parte giova a richiamare e trattenere l’attenzione del lettore fin sugli aspetti più minuti, dall’altra rischia di concedere forse un po’ troppo ad una modalità ridondante dietro la quale l’impalcatura argomentativa rischia di rimanere leggermente sfocata. Quest’ultima nota vuole solo essere un avvertimento per il lettore che, per profittare pienamente del contenuto, deve saper organizzare autonomamente la visione macroscopica dell’insieme.
Indice
L’immagine ritratta
Immagine, corpo, volto
Il ritratto in (rel)azione
Il conflitto del ritratto
Il dell’altro
L'autore
Marcello Ghilardi (Milano, 1975) è dottorando in Estetica e Teoria delle Arti presso l’Università di Palermo. Collabora alla Cattedra di Estetica dell’Università di Padova. Con lo stesso editore ha pubblicato Cuore e acciaio. Estetica dell’animazione giapponese (2003).
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