lunedì 1 gennaio 2007

Bucchi Massimiano, Scegliere il mondo che vogliamo. Cittadini, politica, tecnoscienza.

Bologna, Il Mulino, 2006, pp. 190, € 12,00, ISBN 88-15-11085-2.

Recensione di Vincenzo Pavone

Sociologia

Uomini più resistenti ai tumori o un mondo più salubre? Allungamento dell’aspettativa di vita o società più attente al disagio sociale? Credo che il modo migliore di iniziare ogni commento a questo ottimo lavoro di Bucchi sia partire dalla sua conclusione. Massimiano Bucchi pone al centro della riflessione sul rapporto tra tecnoscienza e società una questione che rivaluta con coraggio e saggezza la necessità di un approccio politico allo sviluppo delle nuove biotecnologie. Il libro, scritto con un linguaggio puntuale e preciso ma mai eccessivamente tecnico, si articola attorno a una tesi fondamentale: l’essenziale fallimento dei tentativi, generalmente basati o sulle commissioni di bioetica o su modelli di governance tecnocratici, di gestire efficacemente sia i dilemmi sociali sia le nuove modalità di partecipazione che accompagnano l’avanzamento delle nuove biotecnologie.
In un lavoro articolato su quattro capitoli, Bucchi sostiene che la natura stessa delle questioni, degli attori coinvolti e delle modalità di partecipazione che si sono delineate negli ultimi anni rendono necessario innanzitutto il riconoscimento del ruolo che la politica, nella sua definizione più ampia basata su democrazia, partecipazione e policy-making, può effettivamente svolgere in questo campo. In secondo luogo, Bucchi sostiene che, per meglio svolgere questo nuovo compito, la stessa politica necessiti di un processo di revisione che la renda capace di accogliere con maggiore efficacia le istanze partecipative e deliberative di nuovi soggetti. Ma, avverte Bucchi, coinvolgere scienziati, istituzioni di ricerca, multinazionali farmaceutiche e policy-makers in un processo di discussione e deliberazione politica, quindi non meramente tecnocratica o etica, significa essenzialmente chiedersi in quale mondo vogliamo vivere.
Tornerò sulla conclusione del libro in un secondo momento, preferendo adesso soffermarmi sul percorso che porta Bucchi a simili conclusioni, peraltro da noi ampiamente condivise. Nel primo capitolo, dove si affrontano la debolezza e l’incoerenza degli argomenti proposti dall’approccio tecnocratico, Bucchi incalza con rigore, e una sottile vena di ironia, l’idea di fondo che i cittadini rifiutino i progressi della scienza per ignoranza o disinformazione. Negli anni cinquanta, la conoscenza o l’informazione scientifica dei cittadini era certamente molto meno diffusa ed accurata di quanto non sia oggi, ma questo non ha impedito alla scienza di ottenere un enorme sostegno sociale, peraltro acritico, in nome del progresso e del benessere. Pertanto non ci sono garanzie che una maggiore partecipazione od una maggiore informazione scientifica renda i cittadini meno critici sui risvolti delle nuove biotecnologie. Se anzi qualcosa può essere inferito dalle ultime analisi condotte nei vari paesi europei, è che i cittadini, per quanto lontani da una conoscenza approfondita e tecnica delle ultime applicazioni della tecnologia, si dimostrano comunque più informati, interessati e consapevoli di quanto non fossero anche solo quindici anni fa. Inoltre, in altri settori, che pure presentano livelli di complessità tecnico-scientifica elevata come le politiche energetiche, i cittadini e gli attori politici vengono spesso chiamati continuamente a partecipare e a prendere decisioni senza suscitare l’ira funesta degli esperti e degli addetti ai lavori. In questo senso, condividiamo la preoccupazione dell’autore relativa alla diffusione di modelli di governance che si basano sulla partecipazione del pubblico a dibattiti di questioni scientifiche se questi ultimi vengono condotti con l’idea che la partecipazione degli stakeholders [i soggetti attivamente coinvolti in un progetto o impresa NdR] costituisca per se condizione necessaria e sufficiente per proseguire quella stessa politica di stampo tecnocratico che prima veniva condotta nei corridoi appartati dello scambio politico.
Il problema reale è che la scienza e la tecnologia, o meglio la tecnoscienza come recentemente capita di leggere quasi a sottolineare la sempre più stretta connessione tra le due discipline, hanno perso quell’aurea di neutralità, progresso e oggettiva positività di cui, a torto o a ragione, avevano goduto sin quasi alla fine degli anni ottanta. Questo cambiamento, sostiene Bucchi, lo si deve principalmente due fattori congiunti. In primo luogo, scienza e tecnologia hanno mostrato sempre più chiaramente di essere parte di un intreccio sociale molto complesso in cui i fattori di profitto, mercato e sviluppo economico emergono nitidamente. Non si può certamente parlare di una scienza totalmente asservita ad interessi e logiche di produzione, vendita e mercato ma è almeno possibile rintracciare una chiara correlazione tra produzione scientifica e attori e settori di mercato in crescita, che ha trasformato la scienza in una attività economica. Forse Bucchi, sottolineando l’importanza del cambiamento, a tratti pare sottovalutare il fatto che anche in passato la scienza era spesso orientata dalle tendenze del mercato. Tuttavia, egli ha pienamente ragione nel ravvisare una tendenza attuale chiaramente intesa a trasformare la scienza in un attività guidata dal mercato. È senza dubbio valida la definizione di scienza post-accademica quando più della metà delle risorse di ricerca a sviluppo mondiale sono erogate da società multinazionali e quando alcune università dispongono di un budget comparabile a quello di alcune piccole multinazionali. D’altronde, esiste una sostanziale differenza tra sostenere la fattibilità economica e finanziaria di determinati progetti di ricerca e iniziare progetti di ricerca a causa della loro potenziale e futura redditività in base a degli studi di mercato. A questo quadro generale di cambiamento, va aggiunta la progressiva scomparsa di una comunità scientifica omogenea e separata dal resto della società, anche perché gli stessi scienziati utilizzano gli strumenti mediatici per esercitare pressioni sull’opinione pubblica e sui soggetti politici.
Quest’ultima asserzione, ancora una volta puntualmente giustificata dai dati e dagli esempi che Bucchi adduce nel suo testo, introduce il lettore al secondo fattore che ha contribuito al declino della idea di neutralità della scienza. La recente partecipazione nell’arena sociale e politica da parte degli scienziati, accompagnata da un parallelo coinvolgimento dei cittadini nelle dinamiche di laboratorio, dimostra in maniera eloquente quanto sia cambiata l’identità della comunità scientifica non solo nella percezione esterna ma anche nella propria autopercezione. Gli scienziati ed i ricercatori si sentono attori pienamente legittimi all’interno del processo decisionale pubblico mentre ugualmente legittimati si sentono i cittadini interessati a sollecitare o respingere lo sviluppo di determinati prodotti tecnoscientifici. Questo ha dato vita ad un vero e proprio sistema di co-produzione scientifica e tecnologica che sicuramente rappresenta un passo avanti rispetto alla lontana e poco trasparente cornice tecnocratica basata sulla presupposta neutralità della scienza. E tuttavia, questa nuova cornice partecipativa necessita riconoscimento e organizzazione. E se, come sostiene lo stesso Bucchi, non è concepibile né disciplinare la società affinché si adatti alla scienza né la situazione inversa allora le nuove forme di aggregazione e partecipazione necessitano nuove forme di dibattito e produzione decisionale.
Quello che appare immediatamente evidente è che, a causa di un’atavica diffidenza nei confronti della politica secondo una forte contrapposizione tra sapere e potere, manca nella comunità scientifica la consapevolezza che le nuove tecnologie producono conseguenze sociali e politiche, oltre che etiche e culturali, che la scienza stessa non è assolutamente in grado di comprendere e gestire. Il fallimento commerciale dei prodotti geneticamente modificati, che non è tanto dovuto al timore per la salute o al pregiudizio quanto alla estraneità di questo tipo di prodotti rispetto alle abitudini culturali e sociali europee legate al cibo, ci ricorda che spesso la scienza e la tecnologia hanno sottovalutato elementi culturali fondamentali che nulla hanno a che vedere con pregiudizi atavici o ignoranze endemiche. La partecipazione degli scienziati al dibattito ed alle dinamiche decisionali pubbliche è certamente un evento positivo ancorché necessario ma richiede che gli attori della tecnoscienza abbadonino un approccio tecnocratico e accettino le regole dello spazio pubblico, basato su pluralismo, diversità, negoziato e compromesso. Esattamente, ci sentiamo di aggiungere, come fanno gli attori che partecipano allo spazio pubblico in altri settori, come le pensioni, i salari, i trasporti o l’istruzione.
Ma certamente scienziati e tecnici non sono gli unici che hanno responsabilità in questa direzione. L’insistenza con cui gli attori politici hanno tentato di demandare alle commissioni di bioetica la ricerca di soluzioni a dei problemi che in realtà sono più di pertinenza sociale costituisce l’altra faccia della medaglia di cui sopra. Il tentativo maldestro di molti attori politici di scaricare le responsabilità o sui pareri tecnici degli esperti o sui pareri etici delle relative commissioni ha impedito alla spazio politico pubblico di assumersi le proprie responsabilità in ambito biotecnologico. Ed ha impedito altresì di formulare nuovi strumenti di partecipazione democratica e governance che fossero pienamente capaci di includere, gestire e sostenere le nuove istanze di partecipazione e coinvolgimento che emergono chiaramente dal contesto sociale. Ci troviamo pienamente d’accordo con Bucchi quando afferma che coloro che appoggiano posizioni permissive rispetto alla libera applicazione delle nuove biotecnologie devono avere il coraggio di difendere la visione politica di trasformazione della società che queste tecnologie implicano.
Ogni invenzione o nuova tecnologia incorpora il modello sociale di priorità in cui è stata concepità, anche la più banale come ad esempio il cicalino che avverte il conducente della necessità di allacciare la cintura di sicurezza. E così quando scegliamo politicamente di aumentare i finanziamenti alla ricerca che si pone come obiettivo di allungare l’aspettattiva di vita dobbiamo altresì decidere a quali altri settori sottrarre fondi e sostegno. Queste, a prescindere dalle questioni morali o tecniche sottese allo sviluppo delle varie tecnologie, sono scelte che richiedono la formulazione di una visione politica chiara basata su obiettivi e priorità nitidamente politiche. Per questa ragione (e legittimamente, a nostro avviso) Bucchi conclude proponendo che si accetti che ogni tecnologia incorpora una visione del mondo e che solo su questa base si possa poi sceglierne l’accettazione, il rigetto o l’adattamento. D’altronde, immaginiamo di porci la questione se, al fine di migliorare la qualità della vita di una determinata società, si potesse scegliere tra la selezione di individui geneticamente più resistenti o l’adattamento della società alle esigenze dei meno fortunati. Ammettendo la perfetta equivalenza tecnica e morale delle due soluzioni, non ci rimarrebbe che scegliere sulla base di criteri politici che comportano una visione di quale delle due società ci piacerebbe sostenere. Anzi, ci preme aggiungere, bisognerebbe non solo accettare che ogni tecnologia incorpora una visione del mondo ma che ogni tecnologia già contribuisce concretamente a realizzare questa visione del mondo. Ed è infatti quantomai necessario ed urgente impegnarsi in studi di impatto sociale e politico che accertino in che misura la diffusione di queste tecnologie già oggi stia alterando la visione del mondo che ci sentiamo di difendere e la società che su essa è stata costruita.
In sintesi, il libro di Bucchi rappresenta un eccellente contributo al dibattito in un tema che, come spesso accadde, ha recentemente monopolizzato l’attenzione pubblica senza registrare apprezzabili progressi né in termini di chiarezza teorica né in termini di chiarezza analitica. Con questa pubblicazione, introduttiva certamente ma anche profonda e ben articolata sia da un punto di vista analitico sia da quello teorico, Bucchi si muove precisamente nella direzione auspicabile di chiarire senza semplificare, ridurre o adattare, le problematiche in corso. E sebbene alcuni temi, come quello della biomedicalizzazione, avrebbero forse richiesto maggiore attenzione il contributo di Bucchi si può considerare ampio, solido e altamente stimolante. Qualità cui va aggiunta uno stile ed una leggibilità che lo rendono adatto e interessante ad un pubblico molto più ampio di quello che la tematica permetterebbe. E questo senza dubbio contribuisce a prendere coscienza a riflettere e, si spera, a scegliere il mondo che vogliamo.

Indice

Introduzione: Scienza-società come scontro di civiltà?
La risposta tecnocratica: tutto il potere agli esperti (con la benedizione dei cittadini, purché beneducati)
“Einstein has left the building”: fare i conti con la scienza post-accademica
Cittadini in laboratorio, scienziati in piazza
Scegliere il mondo che vogliamo: la democrazia nell’epoca della tecnoscienza
Riferimenti bibliografici

L'autore

Massimiano Bucchi (Ph.D. Scienze Politiche e Sociali, Istituto Universitario Europeo, 1997) è Professore Associato di Sociologia della Scienza e Sociologia della Comunicazione presso la Facoltà di Sociologia dell'Università di Trento. Ha pubblicato sei monografie, tra cui Science and the Media (London and New York, Routledge, 1998; ed. it. La scienza in pubblico, McGraw-Hill, 2000), Scienza e Società (Il Mulino, 2002, ed. int. Science in Society, London and New York, Routledge, 2004), Scegliere il mondo che vogliamo (Il Mulino, 2006) e numerosi saggi in riviste internazionali quali History and Philosophy of the Life Sciences, Nature, New Genetics and Society, Science and Public Understanding of Science.

Links

Homepage dell’autore - 
Public understanding of science - http://pus.sagepub.com/
Governance della tecnoscienza basata sul Deficit Model - 

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