martedì 27 febbraio 2007

Simonotti, Edoardo, La Svolta antropologica. Scheler interprete di Nietzsche.

Pisa, Ets, 2006, pp. 220, € 16,00, ISBN 8846716159.

Recensione di Domenico Turco – 27/2/2007

Storia della filosofia

La “Svolta antropologica” evocata in questo interessante studio, ovvero la scoperta dell’uomo come soggetto concreto, vivo e dinamico dell’esperienza speculativa, è un nodo cruciale di quella filosofia della vita, che, ricollegandosi alla dialettica “vitalistica” di Nietzsche, è storicamente pervenuta a percorsi fortemente autonomi rispetto alla lezione del grande autore di Così parlò Zarathustra. È questo il caso, ad esempio, di uno dei maggiori filosofi del Novecento, Max Ferdinand Scheler, pensatore tedesco proveniente da una famiglia di religione ebraica, ma convertitosi in seguito al cattolicesimo. Scheler, pur senza rinunciare al dialogo con i principali leit-motiv della ricerca nietzscheana, ne offre un’interpretazione piuttosto personale, che a sua volta si identifica con la stessa filosofia scheleriana, alimentandone l’indiscutibile ricchezza contenutistica. Il rapporto con Nietzsche è essenziale per comprendere il complesso e tormentato percorso filosofico dello stesso Scheler, che è scandito da due tappe ben distinte. Mentre il primo Scheler si collega scopertamente alla tradizione cattolica ed è filosoficamente vicino al personalismo cristiano, l’ultimo Scheler sembra in certa misura accettare l’annuncio zarathustriano “Dio è morto”, che viene elaborato non già in direzione dell’ateismo, ma dell’ipotesi paradossale di una religione non-teistica.

Quale Dio è morto, argomenta Scheler nel secondo tempo della sua filosofia, se non il dio personale della tradizione ebraico-cristiana? Si tratta di quel dio inferiore, retaggio di arcaiche morali dogmatiche, che agli occhi del pensatore bavarese rappresenterebbe una caricatura del Divino autentico. Questa riflessione dell’ultimo Scheler, per quanto orientata a mantenere diversi elementi metafisici rifiutati dal profeta della morte di Dio, è chiaramente ispirata al programma di una integrazione del verbo nietzscheano all’interno del suo nuovo credo non-teistico, programma che emerge significativamente nel momento dell’abiura della religione cattolica e, più genericamente, del rifiuto della prospettiva monoteistica, per giungere a una sorta di gnosticismo paganeggiante, di origine neoplatonica, in cui l’uomo è chiamato a collaborare con il Divino per completare il piano della creazione. Tuttavia, anche precedentemente alla svolta non-teistica, l’influenza di Nietzsche era stata notevole, al punto da indurre qualcuno a definire Scheler il “Nietzsche cattolico”, sia per una certa consonanza di stile letterario che per la sostanza del suo pensiero.

Il carattere sorprendente della rilettura del confronto Scheler-Nietzsche operata da Simonotti risiede nell’aver rintracciato molti e inaspettati collegamenti tra due autentici giganti della filosofia tedesca contemporanea, e, più in generale, della cultura europea nata dalla dissoluzione del paradigma idealistico-romantico. Nello schema ermeneutico tracciato da Simonotti, la svolta antropologica del Novecento va collegata alle varie espressioni della Lebenphilosophie e dell’antropologia filosofica, che in qualche maniera anticipano le questioni affrontate in seno a più recenti indirizzi di pensiero, come l’esistenzialismo, la fenomenologia, l’ermeneutica, e il pragmatismo. La svolta antropologica novecentesca perdura sostanzialmente fino ai nostri giorni, quale tratto inconfondibile della filosofia europeo-occidentale nelle sue molteplici versioni di marca analitica o continentale. Filosofie piuttosto diverse, che però nella diversità manifestano un fondo comune, riferibile al ritorno all’uomo come chiave di volta concreta di un’esperienza speculativa finalmente sganciata da un accademismo astrattamente fine a sé stesso. Lo studio di Simonotti identifica la svolta antropologica con le sorti della filosofia tedesca dei primi decenni del Novecento, e quindi con i nomi di Dilthey, Klages, Ziegler, Splenger, e Simmel, tutti autori operanti nello stesso periodo di Scheler e che dimostrano a vario titolo di aver assorbito la lezione di Nietzsche, pur declinandola ognuno secondo la propria “equazione personale”. Ma Simonotti rileva giustamente gli aspetti estremamente originali della prospettiva scheleriana, che si caratterizza per una nuova riformulazione della svolta antropologica realizzata da Nietzsche. Simonotti fa notare come Scheler, inserito spesso nell’indirizzo speculativo neo-nietzscheano della Filosofia della Vita, non accetti del tutto l’ipoteca vitalista, segnalandosi per una spiccata personalità rispetto ad altri pensatori della stessa corrente.

Pur considerando La Svolta antropologica un’opera di notevole importanza, non possiamo non riscontrare un certo limite ermeneutico, relativo al mancato approfondimento dei rapporti tra lo stesso Scheler e Husserl, a cui nel libro ci si riferisce solo di sfuggita, aleatoriamente. In realtà, tutta la filosofia scheleriana è una versione particolare di fenomenologia, che astraendo dalla nozione astratta di epochè come e in quanto “sospensione del giudizio”, riannette le categorie dello spirito e della vita quali polarità indispensabili al funzionamento della macchina-pensante uomo, soggetto non solo razionale ma anche emozionale-pulsionale, secondo precise suggestioni nietzscheane. Non sviluppando la tematica concernente gli strettissimi legami intercorrenti tra la prospettiva di Husserl e l’antropologia filosofica scheleriana, Simonotti corre il rischio di fraintendere un pensiero che nella sostanza è profondamente debitore del paradigma fenomenologico. Ciò riguarda Scheler specialmente sul piano della sua originalissima etica materiale dei valori, che modifica l’approccio kantiano, eccessivamente formalistico, per proporre una maggiore concretezza, memore del motto husserliano “verso le cose stesse”. Appunto perché legata a doppia mandata al metodo comprendente della fenomenologia, l’antropologia filosofica scheleriana rifugge dalla concezione “riduzionista” che limita la nozione di uomo alla sua specificità biologica. Per Scheler l’uomo è in primo luogo “l’essere che trascende ogni forma di vita”. Il “trascendere” dell’uomo assume in Scheler chiari accenti spirituali e metafisici. Al proposito, Simonotti evidenzia la posizione particolare dello stesso Scheler, quando sottolinea “l’impossibilità di parlare della realtà umana senza fare riferimento alle istanze ideali dello spirito e all’esperienza religiosa” (p. 193). Dal punto di vista scheleriano, vita (Leben) e spirito (Geist) non rappresentano due dimensioni esistenziali alternative, ma risultano tra loro complementari, in quanto trovano un punto di contatto nel comune riferimento al problema antropologico, dal momento che l’uomo è il “luogo dell’incontro dello spirito con l’impulso vitale originario” (p. 195). Una caratteristica dell’uomo che non rinvia alla dimensione pulsionale della volontà di potenza è la vocazione naturale ad aprirsi al mondo. Tale apertura denota un’implicita tensione metafisica o spirituale che è in qualche modo insita alla posizione dell’uomo nel cosmo, espressione usata non a caso da Scheler come titolo di una delle sue opere principali. Differenziandosi rispetto all’Übermensch, l’Asceta della Vita è colui che si rende capace di svincolarsi o emanciparsi dalla sua realtà soggettiva, dal mondo limitato e limitante delle pulsioni vitalistiche strettamente dipendenti dall’organico. L’uomo, ogni uomo, ha in sé le qualità proprie dell’asceta, ma il suo è un ascetismo molto particolare, che si applica al dominio della vita, per orientarlo in direzione della spiritualità autentica.

Indice

Indice
Prefazione
Avvertenza
Introduzione

Capitolo primo: SPIRITO E VITA. Nietzsche e la nascita dell’antropologia filosofica
Capitolo secondo: IL PROBLEMA DELLA VITA
Capitolo terzo: La morale del risentimento
Capitolo quarto: L’etica materiale dei valori tra Kant e Nietzsche
Capitolo quinto: Apollineo e dionisiaco. Un paradigma antropologico
Capitolo sesto: Al di là del divino e dell’umano

Conclusione
Indice dei nomi


L'autore

Edoardo Simonotti è nato nel 1978. Ha studiato filosofia presso l'Università degli Studi di Genova, dove si è laureato nel marzo del 2002 discutendo una tesi sulla ricezione di Nietzsche nel pensiero di Max Scheler. Ha trascorso numerosi periodi di studio e di ricerca in Germania, presso le università di Tubinga e Friburgo in Brisgovia. Oltre a La svolta antropologica, ha pubblicato: "Se tutto è dono". Jean-Luc Marion e la fenomenologia della donazione (2003); Fenomenologia e cristianesimo. Note su Michel Henry (2004); L’ordine del cuore. Alcune considerazioni di antropologia filosofica (2005); Il problema del nulla nel pensiero metafisico-religioso di Max Scheler, in "Quaestiones disputatae" 1/2005.

Links

il sito ufficiale di Max Scheler (in lingua tedesca)

sito del Centro Interdipartimentale di studi Colli-Montinari su Nietzsche e la cultura europea – Università di Lecce

Maria Cristina Fornari, La morale evolutiva del gregge. Nietzsche legge Spencer e Mill.

Pisa, Ets, 2006, pp. 360, € 21,00  ISBN 88-467-1526-8.

Recensione di Salvatore Stefanelli – 27/02/2007

Storia della filosofia (moderna)

L’intento della valente studiosa dell’opus nietzscheano Maria Cristina Fornari, in questo testo connotato da una attenta collocazione storica, è quello di interpretare il pensiero del filosofo di Röcken nel contesto della tendenza dominante nella vita intellettuale della seconda metà dell‘800 – l’evoluzionismo e il conseguente assunto teleologico delle teorie della morale “Englisch” di fin-de-siècle. Per essere più precisi, il tema di fondo di questo volume è l’onnipresente “problema della scienza in se stessa” che in modo particolare nel XIX secolo manifestò i prodromi di come le teorie scientifiche e la correlata tecnologia avrebbero in modo massivo e invasivo inciso sull’impianto materiale e intellettuale del consorzio sociale. Un filosofo impegnato come Nietzsche, ancora una volta rivoluzionario nel collegare con mossa a sorpresa scienza e metafisica, non poteva non lanciare il guanto di sfida alle teorie scientifiche del suo tempo, affermando che “la scienza stessa esige ormai una giustificazione (con ciò non si è ancora detto che ne esista una per lei).”(F. Nietzsche, Genealogia della morale, trad. it. Milano, Adelphi 200613, p. 147)
Con La morale evolutiva del gregge - mai scelta di titolo fu più fortunata nel dare immediata cognizione di cosa nel relativo libro si voglia sostenere - l’Autrice esplora la risposta di Nietzsche ai dibattiti intellettuali innescati dalla pubblicazione de L’origine delle specie di Charles Darwin e sostiene, a ragion veduta, che ”il passaggio attraverso Spencer e Mill […] fornisce […] a Nietzsche elementi di forte correzione critica delle sue posizioni.” e, al contempo, che “il confronto con gli inglesi matura anche […] l’elaborazione e la delineazione di quel metodo genealogico del cui autentico significato Nietzsche andava prendendo progressivamente coscienza.”(p. 12-13) Per ironia della sorte, il filosofo dell’Übermensch dovette difendersi dalle critiche di chi lo classificava come un darwinien sans le vouloir ritenendo che il concetto di superuomo avesse a che fare con il concetto spenceriano di “survival of the fittest”. In pratica, dopo aver imboccato, seguendo gli inglesi, la strada alla ricerca dell’origine della morale, il filosofo della volontà di potenza, preso atto della “cattiva ricerca” ascrivibile al darwinismo spenceriano, se ne allontanerà per opporre alle indefinite teleologie la sua Genealogie der Moral. In questo “Scritto polemico” Nietzsche smonterà quel feticcio rappresentante “la bestia darwiniana e l’ultramoderno modesto esserino morale, che ‘non morde più’, [mentre] si danno educatamente la mano” (Genealogia della morale, cit., p. 45).
La tesi della Fornari, che di seguito riassumeremo, si sviluppa lungo tre capitoli partendo dall’“inglese prussiano” Paul Rée, che per Nietzsche fu la “chiave d’accesso” ai filosofi inglesi Herbert Spencer e John S. Mill, di cui si parla nel secondo e terzo capitolo quali rappresentanti dell’evoluzionismo e dell’utilitarismo, e, quindi, raggiunge una argomentazione conclusiva in cui si sottolinea l’antidarwinismo del filosofo tedesco che in “opposizione alla lettura corrente della struggle for life, precisa il suo concetto di vita come dissipazione, ma soprattutto in che senso egli intenda la cosiddetta battaglia per l’esistenza”(p. 325-6) La scrittura dell’Autrice è coinvolgente nella ricostruzione di questa sfida intellettuale, resa ancor più intensa dal ricco apparato di note e rinvii ai testi dei filosofi inglesi glossati e sottolineati dall’attento lettore Nietzsche.
Dopo aver chiuso con Wagner, un nuovo colpo di fulmine doveva lampeggiare nella vita di Nietzsche in occasione della conoscenza di Paul Rée, che servì a trarlo fuori dall’isolamento in cui era precipitato a seguito della rottura con l’entourage wagneriano. Questo inconsueto personaggio ebbe un ruolo particolare nell’evoluzione mentale di Nietzsche che lo considerò un giovane “molto riflessivo e dotato” e culturalmente lo ritenne “una guida esperta attraverso mondi nuovi” in special modo nel tentativo di trattare i valori morali in una prospettiva relativistica ed evoluzionistica che Rée concretizzò nell’opera L’origine dei sentimenti morali definita da Nietzsche, mediante un neologismo, come un manifesto di Réealismo. Il significato dell’itinerario speculativo intrapreso da Rée è individuabile nel tentativo, da un lato, di affrancare da ogni assunto metafisico i rilevanti spunti di spiegazione fisiologica della vita morale presenti nella filosofia schopenhaueriana e, dall’altro lato, nella riformulazione di questi aspetti in una teoria evolutiva degli istinti rifacentesi ampiamente al darwinismo. Il punto di incontro intellettuale tra Nietzsche e Rée si concretizzerà alla confluenza del loro interesse per le nuove scienze naturali, derivante primariamente per entrambi dalla lettura della Storia del materialismo di Lange, con il fondo schopenhaueriano del pensiero dei due filosofi da cui scaturirà una critica alla metafisica della volontà radicalizzantesi per Nietzsche nella stesura di Umano, troppo umano. La pubblicazione di questo “Libro per spiriti liberi” innescò una catena di critiche taglienti da parte di lettori e amici del filosofo che dovette difendersi da accuse di quasi plagio nei confronti di Rée. Pur riscontrandosi un lessico intellettuale abbastanza comune e una più che evidente coincidenza di risultati, il percorso speculativo intrapreso dai due amici era del tutto diverso anche prescindendo da quella che sarà poi la loro diseguale levatura filosofica. A riprova di questa diversità si può considerare il modo in cui Nietzsche e Rée considerano la morale della compassione a partire dal comune interesse per questo tema trattato da Schopenhauer. A differenza di Rée che trasmuta la compassione schopenhaueriana in un sentimento di immedesimazione del Sé con l’Altro per arrivare ad identificarla con l’istinto sociale come esposto da Darwin nella Origine dell’uomo, Nietzsche si guarda bene dal ricorrere ad una tale manipolazione che non farebbe altro che sostituire la metafisica di Schopenhauer con una metafisica naturalistica.
Fornari, da attenta ricercatrice, nel paragrafo intitolato Geologia della morale guida il lettore alla scoperta dei fenomeni morali e della loro genesi così come considerati da Rée e al contempo individua il modo in cui Nietzsche se ne differenzia sbriciolando la ipotizzata naturalità e spontaneità degli istinti, mostrandoli nella loro essenza di coacervi intellettuali e linguistici, di farisaici giudizi e atteggiamenti mentali. Potrebbe sembrare strano che – come fa notare l’Autrice – il rapporto con Rée “da una concreta consonanza di intenti e analogia di ispirazione” si tramuti in un contrasto netto testimoniato “[dalla] acrimonia e [dal] tono vagamente indispettito con cui Nietzsche si allontana da Rée, fino a cancellarne completamente le fattezze”(p. 48). Invece, è tipica dell’irrequieto filosofo la deplorevole tendenza a mordere la mano dell’offerente: infatti è capitato che egli abbia mosso le critiche più taglienti proprio verso coloro dai quali ha tratto maggior spunto. Infatti, seppure il distacco da Rée fu burrascoso a causa dell’affaire Salomé, tuttavia le ipotesi Réealiste, benché considerate erronee, continuarono ad essere oggetto di riflessione da parte di Nietzsche che intensificò “la sua indagine sulla genesi e sulla storia dei sistemi etici, convinto che soltanto la conoscenza dell’uomo delle origini quale ‘animale sociale’ […] possa far luce sul fenomeno imperituro della morale” (p. 122) A tal fine il filosofo tedesco dovette praticare una full immersion nelle opere degli “inglesi”, in specie Spencer, i guru dell’ipotesi evoluzionista sull’origine e la natura dei sentimenti morali. È ben facile immaginare l’esito di tale incontro fra l’autore delle invettive di Zarathustra contro l’altruismo e contro il prossimo e, dall’altra parte, Mr. Spencer quale rappresentante della “filosofia da bottegaio: completa assenza di un ideale, eccetto quello dell’uomo medio” (F.Nietzsche, Frammenti postumi 1887-88, trad. it. Milano, Adelphi 19792, p. 168).
Nietzsche, come dicevamo, rinveniva nel sistema spenceriano una confusione tra la risposta alla domanda “cosa devo fare?” e la ricerca delle origini della morale. Ancor più che nella teoria darwiniana in sé, il filosofo tedesco vedeva in Spencer il problema maggiore perché questi, vestendo i panni del “Darwin della psicologia”, poteva con la sua teoria dell’adattamento incoraggiare l’istituzionalizzazione di una società in cui l’individuo avrebbe funto da adeguato utensile e, peggio ancora, non avrebbe aspirato a niente di meglio, se non al fine della conservazione dello status proprio e di “un ambiente le cui coordinate sono ben riconoscibili.” Il serrato confronto con Spencer sulla dinamica degli istinti – come attentamente sottolinea la Fornari – porterà Nietzsche a dichiarare “di aver individuato qual è l’istinto che pertiene alla formazione della morale moderna e all’elezione del suo sistema di valori: l’”istinto gregario” o “istinto del gregge” (Heerdeninstinkt), conformazione che trova nella paura la sua determinante originaria.”(p. 162)
Proprio sull’onda delle letture di studi naturalistici e delle dottrine a lui contemporanee Nietzsche, da par suo, individua nella moralità non altro se non l’uso della simulazione e della “dissimulazione, della quale gli uomini hanno bisogno per poter vivere insieme senza paura reciproca (Talché l’individuo si spaccia come uguale all’altro e si fa utilizzare allo stesso modo che egli utilizza l’altro)”(p. 210) Tuttavia, proprio dall’inclusione nell’orda, nel gregge, nella massa può nascere l’individuo che si leva contro la morale di una società quale è quella proposta dagli “inglesi” secondo un pursuit of happiness da calcolare, à la Bentham, in base al dare e avere di un bottegaio o secondo la “felicità universale voluta da Mill e che aspira all’uguaglianza di tutti con tutti”(p. 270). La ricaduta in campo politico di questo livellamento diede il via allo spettro del socialismo che col far “balenare ai poveri e agli umili una possibilità di salvezza, lascia che le classi oppresse credano al loro riscatto e ad una possibile prosperità futura [e] impedirà loro una piena realizzazione”(p. 302).
Quale lezione trarre dalla lettura di questo testo che, comunque, si colloca come una non complementare tessera nel mosaico che forma l’immagine del moralista Nietzsche? La ricerca nietzscheana ha individuato proprio nella “Vita” la norma di riferimento e ha posto sotto accusa l’etica giudaico-cristiana, come pure quella platonica quale sua classica referente, per il fatto di porre limiti e imporre regole che non si ispirano al mondo reale ma ad un cielo sede delle idee o ad un mondo al di là da venire. La mossa di Nietzsche parrebbe ispirata solo dal voler respingere l’archetipo secondo cui l’etica prende le mosse dall’idea che la vita non rappresenti il bene più alto per i mortali. Ma come non dare ragione a Nietzsche, se pensiamo al fatto che l’esistenza del genere umano o meglio dell’onnicomprensiva Natura viene messa quotidianamente a repentaglio dal comportamento degli uomini e che quindi sia del tutto legittimo affermare che “la Vita, vale a dire la sopravvivenza del mondo e della specie umana, rappresenta davvero il sommo bene”?(cfr. H. Arendt, Alcune questioni di filosofia morale, trad. it. Torino, Einaudi 2006, p. 5-6)
Per quanto possa essere stato criticato, travisato o piegato a false interpretazioni resta il fatto che al filosofo “profeta di Dioniso”, secondo il quale “l’istinto è meglio dell’intelletto” deve ascriversi il merito non piccolo di “aver sbattuto in prima pagina” il tartufismo della società del XIX secolo (ma il j’accuse nietzscheano è indirizzabile pienamente verso la società contemporanea) utilizzando proprio il pensiero scientifico più all’avanguardia (evoluzionismo e suoi derivati). Infatti, proprio quando si era giunti a capire “gli impulsi più forti e naturali, ‘anzi, gli unici reali’ […] si credette che ci fossero impulsi disinteressati, si respinsero tutti quelli interessati, si pretesero quelli altruistici”, con la conseguenza che – come conclude Maria Cristina Fornari – “d’ora in poi, per trovare lodevole un azione, si dovette negare in essa la presenza di impulsi naturali e contrapporre fittiziamente a questi ultimi un mondo del bene puramente immaginario.”(p. 332)

Indice

Introduzione: Origine e genealogia

Un “inglese prussiano”: Paul Rée
1. Le premesse dello spirito libero - 2. La “filosofia con Darwin” - 3. Rée e la filosofia delle Università - 4. Presenze “réeliste” - 5. Genealogia della morale
Il “Darwin della psicologia”: Herbert Spencer
1. Nietzsche alla ricerca di “materiale inglese” - 2. Le basi della morale - 3. Le risposte di Nietzsche
Il piacere della moralità: John Stuart Mill
1. Nietzsche prosegue nelle sue letture inglesi - 2. Un utilitarismo filantropico - 3. “Osservazione marginale su una sciocchezza inglese” - 4. L’irresolubile problema della felicità - 5. Ancora un’ipotesi per la coscienza morale - 6. “Uno come tutti, uno per tutti”
Conclusioni: Morfologia della volontà di potenza
1. Una nuova prassi - 2. “Anti-Darwin” - 3. Il cammino evolutivo della volontà di potenza
Bibliografia
Indice dei nomi


L'autrice

Maria Cristina Fornari (1964), Ricercatrice in Storia della Filosofia presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze sociali dell’Università degli Studi di Lecce. Collabora alla nuova edizione, per la casa editrice Adelphi, di Friedrich Nietzsche, Frammenti postumi, a cura di G. Campioni. E’ co-autrice di Nietzsches persönliche Bibliothek, edito presso la de Gruyter, Berlin/New York. Collabora al progetto internazionale: HyperNietzsche. Modello di un ipertesto per le scienze umane, sotto la direzione di Paolo D’Iorio (Monaco di Baviera/Parigi).

lunedì 26 febbraio 2007

Garaventa, Roberto, Angoscia.

Napoli, Guida, 2006, pp. 147, € 9,50, ISBN 88-6042-181-0.

Filosofia teoretica, Antropologia filosofica

Recensione di Ottavia Spisni -26/02/07.

Il denso volume di Roberto Garaventa offre uno sguardo teoretico sul concetto di ‘angoscia’ in riferimento a come l’hanno concepito e sviluppato alcuni importanti pensatori dell’Ottocento e del Novecento. Gli ambiti e i punti di vita di analisi del termine sono molteplici a seconda del contesto storico e filosofico di riferimento di ogni singolo pensatore (analisi dell’esistenza, psicoanalisi, sociologia, teologia). Il libro si apre dunque con la definizione di “angoscia”, “uno stato affettivo (o una condizione dell’animo) che ha un significato centrale e fondamentale per e nell’esistenza umana, in quanto mette l’individuo a confronto con la sua libertà, cioè con la sua facoltà di scegliere fra molteplici possibilità e così di decidere di se stesso e del proprio destino, ma al contempo con i suoi limiti, la sua problematicità, la sua caducità, la sua finitudine” (p. 5). Il concetto di angoscia è polivoco, si riferisce a un reale complesso, e non è quindi possibile effettuare una distinzione netta tra l’angoscia e stati affettivi affini quali il timore, la paura, lo spavento, la fobia, il panico, l’ansia; inoltre, sono molteplici le situazioni umane in cui può presentarsi angoscia. Tuttavia, in ogni situazione possibile e nella legittimità di una distinzione tra “sensazioni” (Empfindnisse), “tonalità emotive” (Stimmungen) e “sentimenti” (Gefühle), l’angoscia ha come facoltà prima di singolarizzarci, di isolarci e di rinchiuderci in noi stessi; è la cartina tornasole della conditio humana, la tonalità emotiva chiave della condizione umana, il modo di avvertire in maniera diretta e senza mediazioni l’esistenza, singolare, finita, incerta, unica, ed è paradossalmente l’unico modalità di accesso alla sua “autenticità”.
Dal punto di vista della storia della filosofia, il concetto diventa rilevante solo con la riscoperta della dimensione della corporeità ad opera di pensatori quali Schelling, Schopenhauer, Feuerbach, Nietzsche, Freud. È Kierkegaard il primo pensatore a occuparsi di questo stato affettivo fondamentale dell’esistenza in modo sistematico e a fornirne una fenomenologia. Il suo Concetto dell’angoscia mette in luce l’angoscia del nulla che assale l’uomo quando si scorge libero e, dunque, nel momento in cui è chiamato a scegliere una singola e unica possibilità a scapito di tutte le altre, a identificarsi, a diventare “Io”: “L’angoscia ha dunque una funzione propedeutico-formativa alla fede, ma può essere vinta e superata solo dalla e nella fede, che libera l’uomo dalla sua angosciata concentrazione su di sé e sul finito e, dischiudendogli la dimensione dell’Eterno, gli rende possibile un approccio non più angosciato con il mondo e il prossimo” (p. 34). In seguito, dopo la prima guerra mondiale, il concetto diviene fondamento per le filosofie dell’esistenza (Heidegger, Jaspers, Sartre). Nell’opera di Heidegger, essenziali alla cura (Sorge) sono tre aspetti dell’esistenza: la libertà, la necessità, l’inautenticità. L’esserci è progetto (Entwurf), ma al contempo si trova in una condizione di gettatezza (Geworfenheit) ed è passibile di esistere anche secondo una forma inautentica, deietta (Verfallenheit), dominata dalle scelte altrui. Il volume ricostruisce la centralità del concetto di angoscia nello sviluppo del pensiero di Heidegger, a partire dall’analisi del § 29 di Essere e Tempo, passando per i concetti-chiave presenti in tutta l’opera e confrontandolo con la declinazione del concetto presente in Che cos’è metafisica.
L’analisi prosegue considerando l’itinerario di pensiero di Freud in merito all’angoscia. Dapprima, essa è considerata come “libido trasformata”, ovvero libido non utilizzata ma accumulata e trasformata; dal 1926, con Inibizione, sintomo e angoscia, è considerata come una reazione dell’Io a situazioni di pericolo. Garaventa si concentra successivamente sull’analisi della concezione jaspersiana di angoscia, presente nella grande opera del 1932, Filosofia. All'idea di angoscia come chiave di volta della condizione umana si ricongiunge l’insegnamento cardine dell’intera tradizione filosofica occidentale, quello che vede la cura per la morte (melete Thanatou) come un altro nome per la libertà, e ancora, un altro nome per la responsabilità. La responsabilità è nei confronti di sé stessi e della propria angoscia per dare infine un senso e una direzione alla propria vita, e di conseguenza comunicare autenticamente con gli altri. Le domande di orientamento autenticamente filosofico, “da dove vengo” e “dove vado”, devono restare domande appunto, aperte, in quanto “la vita è di per sé tensione, inadeguatezza, incompiutezza” (p. 83). L’uomo che non si interroga è come re Amfortas (Parsifal) malato di una ferita insanabile, la cui ferita smette di sanguinare solo all’incontro con il suo dono più proprio, la fede filosofica che “consente di esperire la quiete senza rimuovere l’angoscia del naufrago” (p. 86). Nel Sartre di L’essere e il nulla e di L’esistenzialismo è un umanismo, “la libertà è l’essere della coscienza umana’ (p. 89), nel senso che l’uomo è un “per-sé”, “si fa” in base alle sue scelte e decisioni e dunque la libertà si autodetermina da sé stessa. Tramite l’esperienza dell’angoscia facciamo esperienza del carattere ingiustificabile di ogni nostra scelta. Essa è coscienza della libertà. La rassegna prosegue con l’analisi dell’angoscia dal punto di vista dei rapporti intersoggettivi e delle relazioni sociali, nonché del suo ruolo nell’ambito della genesi dell’aggressività umana (Fromm). Jonas pone l’accento sulla funzione terapeutica dell’angoscia: in una società a tecnologia avanzata come la nostra, è necessario utilizzare mezzi (ad esempio la divulgazione scientifica) per acuire la percezione di problemi reali (altrimenti ormai divenuta ottusa) quali la preservazione del pianeta. Bisogna inoltre ricorrere a una “euristica della paura” (Jonas e Anders): “L’uomo della società tecnologica avanzata dovrà dunque imparare a provare un profondo ma salutare senso di paura, angoscia, terrore al pensiero dei possibili futuri sconvolgimenti cui andranno incontro le generazioni future” (p. 114). Infine, va almeno citato il punto di vista della teologia, che vede l’importanza della fede cristiana per contrastare gli effetti dell’angoscia ontologica sull’uomo sotto forma di disperazione, nevrosi, aggressività (Tillich e Drewermann).

Indice

Angoscia: uno stato affettivo fondamentale dell’esistenza
Søren Kierkegaard: una fenomenologia dell’angoscia
Martin Heidegger: angoscia e spaesamento
Sigmund Freud: angoscia e rimozione
Karl Jaspers: angoscia, morte, comunicazione
Jean-Paul Sartre: libertà, angoscia, responsabilità
Erich Fromm, Hans Jonas, Günter Anders: angoscia, aggressività, tecnocrazia
Paul Tillich e Eugen Drewermann: angoscia e fede
Bibliografia


L'autore

Roberto Garaventa (1951) ha studiato a Genova con Alberto Caracciolo e a Tübingen con Hans Küng. Tra i suoi lavori, ricordiamo Nichilismo, teologia ed etica. Saggio su Wilhelm Weischedel, Milella, Lecce 1989; Il suicidio nell’età del nichilismo. Goethe, Leopardi, Dostoevskij, Angeli, Milano 1994; La noia. Esperienza del male metafisico o patologia dell’età del nichilismo? Bulzoni, Roma 1997; Esperienza della morte, senso dell’esistenza, impegno etico. Aspetti e problemi della tanatologia filosofica contemporanea, Troilo, Bomba 1999; Religione e modernità in Ernst Troeltsch, Luciano, Napoli 2004. È ordinario di Storia della filosofia contemporanea presso l’Università ‘G. d’Annunzio’ di Chieti-Pescara.

domenica 25 febbraio 2007

Perelda, Federico - Perissinotto, Luigi (a cura di), Sostanza e verità nella filosofia di Leibniz.

Padova, Il Poligrafo, 2006, pp. 200, € 22,00, ISBN 8871155319.

Recensione di Luna Orlando - 25/02/2007

Nato nel contesto di un seminario di dottorato organizzato dall'Università Ca' Foscari di Venezia, il volume si presenta come un ampio ed eterogeneo esercizio di lettura, una riflessione a più voci modulata a partire da un classico filosofico denso e articolato, il Discorso di metafisica (1686) di G. W. Leibniz.
Gli otto saggi della raccolta sono stati suddivisi da Federico Perelda e Luigi Perissinotto, promotore del seminario, in tre sezioni – Lo sfondo, Articolazioni, Approfondimenti –, a suggerire un possibile percorso all’interno delle pagine leibniziane, che vengono analizzate di volta in volta attraverso specifiche prospettive di logica e filosofia del linguaggio, di semiotica, teoria della conoscenza e metafisica.
1. Il saggio d'apertura del volume ha per punto di partenza lo statuto formale del “discorso” speculativo. Mauro Nobile s'interroga, nello specifico, intorno alle caratteristiche stilistiche e testuali della scrittura filosofica nel Discorso di metafisica, individuando nel genere letterario della “meditazione” la particolare forma espressiva prescelta.
Tratto distintivo della meditazione è l'esercizio della riflessione, l'elaborazione di un vero e proprio abito mentale finalizzato all'autoregolazione e alla cura personale dei pensieri.
Si tratta di una pratica insieme teoretica ed etica: una forma di scrittura e di ragionamento che, utilizzando il linguaggio proprio della metafisica, prelude ad un mutamento di prospettiva che è allo stesso tempo una trasformazione del sentire e della condotta di vita.
Nella seconda parte l'autore introduce il tema dell'“espressione”: concetto specificamente tematizzato nella riflessione di Leibniz, ma anche suo “principio generatore”.
Individuando nell'argomentare leibniziano le suggestioni di natura esplicitamente semiotica, l'autore ricollega l'espressione ai medesimi nodi messi in luce per la meditazione. È esattamente «l'espressività riflessa, la capacità di riferire il mondo a sé e sé al mondo» a diventare «condizione di autostrutturazione del sé come soggetto morale» (pp. 44, 45): soltanto un'anima intelligente, l'individuo umano, essere linguistico e auto-riflessivo, può arrivare – attraverso la via maestra della meditazione – a una compiuta deliberazione etica.
2. Il contributo seguente, di Federico Perelda, può essere considerato un vero e proprio vademecum per la lettura dei restanti saggi della raccolta, poiché ne introduce i principali temi: il legame tra verità e dimostrabilità, il problema della sostanza, la nozione di “concetto completo”, l’identità degli indiscernibili, la teoria dell'armonia prestabilita e quella delle relazioni.
Il nodo focale della metafisica di Leibniz va individuato, seguendo le interpretazioni di Russell e Couturat, nella sua logica: più esattamente, nella parificazione leibniziana di “verità di ragione” e “verità di fatto”, attraverso la ridefinizione generale della verità come “identità”, che influenza la stessa concezione della sostanza.
Come illustrato nel § 8 del Discorso, Leibniz concepisce la tesi, aristotelica e scolastica, dell'inerenza logica del predicato al soggetto come una forma di effettiva “inclusione”.
Di conseguenza, ogni proposizione assertiva, per poter essere vera, deve risultare strutturata come una tautologia, se non esplicitamente almeno “virtualmente”, ovvero una volta analizzata nelle sue componenti più semplici.
Inoltre, la sostanza – definita tradizionalmente come sostrato di inerenza delle predicazioni linguistiche – racchiude in sé l'insieme strutturato e comprensivo dei propri predicati veri, relativi a proprietà essenziali ma anche accidentali, necessariamente comprese nel “concetto completo”.
3. Gli interventi successivi, rubricati dai curatori nella sezione Articolazioni, risultano accomunati dal confronto costante tra la prospettiva metafisica di Leibniz e alcuni aspetti della filosofia di Descartes.
Così, il primo dei tre lavori – di Daniele Bertacco – presenta diffusamente, muovendo dai suggerimenti esegetici di Martin Heidegger e Jean-Luc Marion, la posizione cartesiana circa la creazione divina delle “verità eterne”, criticata da Leibniz nei paragrafi di apertura del Discorso.
Mentre Descartes presenta le verità eterne della matematica come liberamente stabilite da Dio, secondo Leibniz tali verità precedono la creazione, poiché lo stesso intervento divino è avvenuto seguendo fini che possono essere ricostruiti dalla razionalità umana.
L'indagine di Bertacco si appunta sulle radici di tale differenza filosofica, che può essere spiegata attraverso l'illustrazione di diverse dicotomie: meccanicismo e finalismo, onnipotenza divina e ideale di perfezione, incommensurabilità tra finito ed infinito e loro unificazione razionale. Scegliendo quest'ultima via, l'autore conclude che la prospettiva di Leibniz deriva direttamente dall'estensione universale del principio di ragione sufficiente, che individua nell'universo un ordine razionale alle cui leggi non sfugge neppure la volontà divina.
4. L'armonia prestabilita è una valida risposta al dualismo cartesiano?
Sulla scia di questo interrogativo, Mariangela Priarolo configura con esattezza il problema classico della possibilità dell'interazione anima-corpo, sottolineandone gli inevitabili risvolti nel contesto delle prospettive metafisiche di Leibniz e di Descartes.
Il filosofo del dualismo, sostenitore della “distinzione reale” tra res cogitans e res extensa, si rivela così, allo stesso tempo, difensore dell'esistenza di un rapporto intrinseco tra anima e corpo, testimoniato dall'attività delle sensazioni.
Se l'uomo comune non è portato a negare l'esistenza di un tale nesso tra le due sostanze, il maggior rilievo assunto dal tema della distinzione in Descartes (rispetto al problema dell'unità dell'uomo) è motivato dalla gravità dell'errore filosofico che si vuole scongiurare: il composto umano non deve essere interpretato come una sostanza autonoma; l'uomo nel suo complesso non è una “forma sostanziale”.
Nel Discorso di metafisica di Leibniz, invece, sono proprio le “forme sostanziali”, governate dal principio non materiale della forza, a garantire quell'unità in grado di trasformare meri aggregati di materia in corpi. La possibilità dell'interazione anima-corpo è per Leibniz da interpretare come un caso particolare del problema del rapporto tra sostanze.
Richiamando le tesi del § 33 del Discorso, Priarolo chiarisce che a risolvere il nodo teorico dell'interazione è la dottrina leibniziana dell'armonia prestabilita: tale teoria legittima la possibilità della “comunicazione” tra ogni sostanza dell'universo, che si concretizza nel caso in questione come un rapporto reciproco e regolato tra le attività percettive dell'anima e i movimenti del corpo.
5. Il dialogo tra Leibniz e Descartes continua nelle lettura del § 12 del Discorso, con la quale Annalisa Rossi si propone di mostrare come l'origine del caratteristico anticartesianesimo leibniziano vada rintracciata tra i presupposti stessi del cogito.
La nozione di “mondo”, in Descartes, ha due implicazioni teoriche: da una parte, va interpretata come correlato oggettivo dell'attività di pensiero. Al centro di tale attività vi è l'idea, elemento cognitivo caratterizzato da una struttura di immagine, che si presenta in modo isolato e temporalmente puntuale ad una coscienza, a sua volta “immediata” e priva di continuità temporale e metafisica.
D'altra parte, il tema del mondo richiama direttamente l'idea di res extensa, analizzata e decostruita, fino alla perdita di ogni qualificazione positiva, nel celebre Gedankenexperiment del pezzo di cera: si profila, così, l'anomalia teorica di un'idea che non è immagine di nulla, in quanto assolutamente indeterminata.
Secondo Rossi la mossa leibniziana – destinata a riconfigurare, di volta in volta, la nozione di sostanza, il polo della soggettività e in generale il concetto di mondo – consiste nell'interpretare l'estensione come un'idea vera e propria, nel senso cartesiano di idea-immagine, in modo da sottolinearne la puntualità e la dimensione soggettiva, e sancire così la sua inadeguatezza come principio metafisico di identità per i corpi e di sostanzialità.
Per quanto riguarda il cogito infine, Leibniz avrebbe superato, formulando una teoria dell'io-sostanza o monade, l'interpretazione cartesiana del pensiero come attività esclusivamente cosciente e soggetta a puntualità temporale, in favore di un modello in grado di fondare l'identità dell'io in una sequenza unica e continua di percezioni.
6. Il primo saggio della sezione Approfondimenti è dedicato ad indagare, alla luce degli sviluppi contemporanei della logica formale, alcune nozioni della filosofia di Leibniz, come il principio di “identità degli indiscernibili” (IN) e l'idea di “concetto completo”.
L'assunto IN, per il quale due enti sono necessariamente identici se tutte le proprietà predicabili del primo lo sono anche del secondo, viene ricondotto da Francesco Berto al principio semantico di “sostituibilità degli identici” (SI), principio fondamentale di ogni sistema logico elementare.
L'autore osserva che i principi logici e ontologici descritti, così come la nozione di “concetto completo”, comportano inevitabilmente una forma di “ascesa semantica”, ovvero il passaggio, analizzato da Quine, da un linguaggio elementare a un linguaggio di secondo ordine.
Questo tema, applicato alle considerazioni di Leibniz su necessità e dimostrabilità, permette a Berto di presentare il problema dell'“analisi infinita” dei concetti nel contesto delle limitazioni deduttive dei sistemi formali di ordine superiore, studiate dalla logica moderna.
Benché per Leibniz ogni sostanza individuale, corrispondendo ad un “concetto completo”, sia totalmente determinata dall'insieme dei predicati che possono esserle attribuiti, la contingenza degli eventi viene in conclusione salvata dall'impossibilità, per una mente finita, di padroneggiare la nozione infinitamente complessa di una singola individualità.
7. Interessanti indicazioni per un'analisi di carattere semiotico e logico-linguistico del sistema leibniziano sono svolte anche nel contributo di Matteo Favaretti Camposampiero, che ha per oggetto la posizione di Leibniz nei confronti dell'“argomento ontologico”.
Criticando la versione della prova proposta da Descartes, Leibniz rileva una carenza nell'argomentazione tradizionale (la dimostrazione presupporrebbe senza provare la “possibilità logica” della natura divina), mettendo al contempo in discussione la certezza che l'individuo umano abbia realmente l'idea di Dio.
Nel caso di nozioni complesse come quella di Dio, la cognitio caeca sive symbolica (il pensiero confuso, che procede per meri segni) sostituisce sovente la cognitio intuitiva, unica forma di pensiero avente per oggetto le idee.
L'intelletto umano, a causa della sua finitezza, ha difficoltà a padroneggiare le nozioni composte, per natura potenzialmente contraddittorie, e supplisce a questa sua carenza attraverso il medium linguistico e semiotico. Ciò che è complesso si offre facilmente al pensiero in veste linguistico-simbolica: la fallacia del “possesso dell'idea” consiste infatti nel risalire erroneamente da un'espressione composta del linguaggio all'intellezione dell'idea corrispondente; dall'avvenuta comprensione di un sintagma ad una presunta cognitio intuitiva.
8. Infine, a chiudere la raccolta, una puntuale analisi condotta da Emanuela Scribano al fine di confutare la tesi tradizionale che vede in Nicolas Malebranche il principale obbiettivo polemico del celebre § 3 del Discorso di metafisica, relativo all'impossibilità per la volontà divina della creazione di un mondo più perfetto di quello esistente.
Ricostruendo i punti di accordo e di dissenso tra i due filosofi, in termini di realtà del male, attributi divini e perfezione del mondo, l’autrice arriva a tratteggiare un profilo dell'avversario evocato da Leibniz molto lontano dalle tesi filosofiche caratteristiche del pensiero di Malebranche. Difensore della libertà della volontà divina interpretata come “libertà di indifferenza”, e perciò dell'infinita perfettibilità del mondo, e sostenitore dell'impossibilità logica della nozione di “mondo migliore”, l'obbiettivo polemico di Leibniz è piuttosto da identificarsi, secondo Scribano, nel filosofo gesuita Francisco Suárez.

Indice

Prefazione 
Luigi Perissinotto
Introduzione 
Federico Perelda
LO SFONDO
Meditazione ed espressione. Note al Discorso di metafisica di Leibniz 
Mauro Nobile
Verità, identità e ragion sufficiente. Intorno alla metafisica di Leibniz 
Federico Perelda
ARTICOLAZIONI
Principio di ragione e creazione delle verità eterne 
Daniele Bertacco
Piloti, angeli e orologi: Descartes e Leibniz sull'unione anima-corpo 
Mariangela Priarolo
Il pensiero del mondo. Leibniz erede di Descartes 
Annalisa Rossi
APPROFONDIMENTI
Indiscernibili, concetto completo, ascesa semantica... 
Francesco Berto
Il paradosso della perfezione. Esistenza di Dio e pensiero simbolico in Leibniz 
Matteo Favaretti Camposampiero
Falsi nemici. Malebranche, Leibniz e il mondo migliore 
Emanuela Scribano
Indice dei nomi


I curatori

Federico Perelda si è laureato e ha conseguito il dottorato di ricerca presso l'Università Ca' Foscari di Venezia. Attualmente borsista presso l'Università di Padova, dopo un periodo di approfondimento e ricerca all'estero, si è interessato alle applicazioni della logica a temi classici dell'ontologia. È autore del saggio Hegel e Russell. Logica e ontologia fra moderno e contemporaneo (Padova 2003).

Luigi Perissinotto insegna Filosofia del linguaggio e Filosofia della comunicazione all’Università Ca’ Foscari di Venezia. È membro della Società Filosofica Italiana, della Società Italiana di Filosofia Analitica e dell'austriaca Wittgenstein-Gesellschaft.
Autore di numerosi saggi e articoli, alcuni dei quali dedicati al pensiero di Leibniz, ha concentrato la sua attività di ricerca soprattutto sulla filosofia di Ludwig Wittgenstein (Logica e immagine del mondo. Studio su über Gewißheit di L. Wittgenstein, Milano 1991; Wittgenstein. Una guida, Milano 1997), e sull'analisi degli approcci contemporanei – di ambito analitico ed ermeneutico – al problema del significato, del linguaggio e della verità, prestando particolare attenzione al tema dell'interpretazione.
Ha recentemente curato, per Einaudi, la traduzione di L. Wittgenstein, Notes for Lectures on 'Private Experience' and 'Sense Data' (trad. it: Esperienza privata e dati di senso, Torino 2007), raccolta di note manoscritte e degli appunti delle lezioni tenute dal filosofo a Cambridge tra il 1934 e il 1936.

Links

Testi di Leibniz disponibili online (Progetto Gutenberg): 

Un'altra raccolta di testi online (in inglese), tra cui il Discorso di metafisica: 

Leibnitiana, il sito sulla filosofia di Leibniz a cura di Gregory Brown (University of Houston), ricco di informazioni bibliografiche: http://www.gwleibniz.com/

Voce dedicata a Leibniz dell'enciclopedia online Wikipedia (versione in tedesco e in inglese): http://de.wikipedia.org/wiki/Gottfried_Wilhelm_Leibniz

venerdì 23 febbraio 2007

Quinzio, Sergio, La croce e il nulla.

Milano, Adelphi, 2006 [2. ed], pp. 226, € 20, 00, ISBN 8845920577.

Recensione di Donatella Pagliacci - 23/02/2007

Ebraismo, cristianesimo, nichilismo

Ricordi, memorie legati a luoghi ed esperienze di vita da cui nascono meditazioni che si rincorrono e affiorando generano nostalgiche riflessioni filosofiche. Da qui una speculazione che si mostra e si ritrae disegnando un paesaggio a tinte forti, come forte sembra essere l’ontologia invocata dall’autore: “Ontologia forte, orrenda ontologia forte, alla quale non vedo altra alternativa che la croce, o il nulla” (p. 15).
Dal ricordo dei luoghi che evocano il passato, il pensiero giunge a interrogarsi sulla fine della vita che paradossalmente si impone come una domanda: vivere la morte? Questo interrogativo, inquietante e ineludibile, tende a porre uno di fronte all’altro i diversi approcci al tema della morte. Al di là di qualsivoglia convinzione una cosa è certa: all’uomo moderno sembra essere definitivamente preclusa la via dell’accettazione della morte. La morte è inaccettabile per i cristiani che si confrontano con la rivelazione di un Dio che, nonostante la sua infinita misericordia, è stato appeso a un patibolo ed è inammissibile per gli ebrei perché, come testimonia l’autobiografia di Elias Canetti, con essa si compie il fenomeno tragico della perdita e della cancellazione dei volti. Ma il segno della definitiva sconfitta dell’uomo di fronte alla morte riposa nella consapevolezza che lo stesso pensare la morte non fa altro che anticiparne il compimento. La sconfitta dinanzi all’evento ultimo del morire non vanifica il desiderio del poeta di ripensare dall’interno la religione ebraica per poter rileggere, con linguaggio odierno, i temi della verità, come del logos, del monoteismo, come della visione della storia, della teologia nonché del messianismo.
Le voci attorno alle quali si concentra la lezione di Quinzio sono molte e ad ognuna è riservata un’attenzione peculiare e discreta, capace di penetrare tra luci e ombre come nel caso della rilettura dell’opera di Simone Weil. Il suo pensiero sembra, almeno fino a un certo punto, confermare l’idea di una consistente e paradossale oscillazione tra tradizione ebraica e greca, ma le sue ultime parole e il rifiuto del battesimo cristiano sono la conferma più evidente del suo “ebraico identificarsi con l’abbassamento e l’esclusione” (p. 52). Più drammatico è il grido di Élie Wiesel che sembra voler inchiodare Dio di fronte alla propria impotenza.
Il cristianesimo viene poi osservato con sguardo attento, disincantato e soprattutto profondamente critico. La dimensione dell’attesa, che tiene uniti l’Antico e il Nuovo Testamento, è la realtà in cui vive il cristiano, quasi un tempo intermedio in cui, assistendo al progredire della storia, si misura incessantemente con la non sempre rassicurante prospettiva apocalittica.
Si ricercano nomi e volti capaci di proporre un non banale modello di rinnovamento, come nel caso di Cipriano, il quale, tra l’altro, ha pensato all’autentica salvezza solo come reale e sincero ritorno a Cristo. Ma il vero rinnovamento, che avrebbe dovuto accompagnarsi a un autentico mutamento spirituale, è rappresentato dal movimento ascetico, sorto grazie al moltiplicarsi di monaci, anacoreti ed eremiti. La sfida all’uomo passionale sottesa nell’ascetismo non ha, tuttavia, prodotto i risultati sperati, per cui alla fine il sogno di una vita angelicata risulta essere “infinitamente lontano dall’annuncio biblico della salvezza nel regno messianico, della resurrezione della carne” (p. 78).
Si profila allora un diverso modo di avvicinarsi a Dio che trova nella preghiera il proprio compimento. Di qui, di nuovo, uno scarto incolmabile e significativo tra ebraismo e cristianesimo; mentre la preghiera ebraica giunge a mutare il decreto già pronunciato da Dio, la preghiera cristiana non ha una vera necessità “è in definitiva un imbarazzante segno dell’irredenzione di una vita proclamata redenta” (p. 83).
Il confronto tra popolo cristiano e popolo ebreo, eletto e al contempo reietto, contribuisce a disegnare un’altra serie di scenari in cui l’autore ci guida nella rilettura di alcune fondamentali esperienze di fede. Così siamo chiamati a ripensare alle infinite contraddizioni che presenta la vasta opera del giovane convertito di Tagaste e vescovo di Ippona: Agostino, perché è in lui che si compie “la prima grande tappa del passaggio dall’orizzonte teoretico e apatico del pensiero antico, contemplatore delle eterne essenze, all’orizzonte della passione per la concreta esistenza e pena dell’uomo nella storia” (p. 92). Ma la vera novità teologica del cristianesimo è incarnata nella figura di Francesco di Assisi. Per lui la croce è tutto. In nome di questo abbandono alla croce Francesco si fa povero tra i poveri e opera quel rinnovamento radicale che trova nella parola-azione di ebraica memoria il proprio compimento.
Nel momento stesso in cui vengono ricercate continuità e discontinuità tra ebraismo e cristianesimo, Quinzio ama ricordare che, pur non potendo ridurre tutto al rabbinismo, la linea maestra del giudaismo è proprio il rabbinismo. Da qui la possibilità di rileggere l’intera storia del pensiero giudaico alla luce della polarità tra “teologia del Patto” e “teologia della Promessa”. Ed è proprio all’interno di quest’ultima polarità che si inscrive l’annuncio cristiano della redenzione in Gesù Cristo. Nel rifiuto di Lutero di accogliere questa verità fondamentale riposano le ragioni del suo progressivo, tragico e definitivo inasprimento fino alla disperazione. Perché è nell’immagine di Gesù Cristo morente in croce che viene svelata l’essenza del cristianesimo: qui si compie il fatale stravolgimento da realtà di regno a realtà di mondo, confermata dalla ferocia di quell’esecuzione capitale che spalanca le porte dell’abisso in cui si congiungono i due estremi della giustizia e dell’orrore.
Sulla scia della riflessione sulla religiosità russa, l’autore trova uno spiraglio per uscire allo scoperto e comunicare il proprio peculiare angolo visuale religioso: ovvero leggere “la storia della chiesa nella prospettiva della chenosi divina, che dopo la croce del Messia continua nei fraintendimenti del suo annuncio, i contrasti e poi i sincretismi, il dilagare della confusione fino al dissolvimento finale. È indubitabile che la chiesa cattolica sia la via maestra lungo questi millenni, la via maestra della chenosi” (p. 131). Da qui la denuncia dell’assurdità in cui cade una presunta teologia ateo-logica e a-teologica e la ridefinizione dello spazio che può effettivamente occupare la fede narrativa nell’attuale dibattito teologico. D’altra parte le ambiguità da sempre presenti nel cristianesimo sembrano oggi esplodere in un mondo dilaniato e tragicamente diviso tra religione storica e religione cosmica.
Per un altro verso si riflette su come la filosofia abbia realmente innervato il tessuto religioso della cristianità fin dall’età patristica. Questa presenza trova nella figura del nuovo filosofo il suo punto di massima espressività e approda a quel processo di modernizzazione e secolarizzazione in cui viene abbandonato l’“atteggiamento passivo di rispecchiamento della realtà (verità), per un impegno della volontà in direzione dell’imposizione di un senso al mondo” (p. 160). Da qui la modernità finisce per delinearsi come lo stravolgimento delle categorie ebraico-cristiane. L’imporsi della filosofia non è altro che la conferma del ruolo dominante dell’uomo nei confronti del mondo.
Una possibile via di fuga rispetto al circolo che lega l’astratta interpretazione filosofica alla realtà potrebbe essere quella delineata da Severino. Questi ha concentrato la sua attenzione sulla tutt’altro che astratta questione della tecnica, nella sua perversa pretesa generativa e distruttiva. Ma l’intento ‘rassicurante’ di Severino sembra non essere del tutto soddisfacente e l’autore preferisce rifugiarsi tra le provocatorie invettive di Nietzsche, che è un povero ma vero profeta cristiano, “come si può essere profeti quando da molti secoli la chiave delle parole di Dio è perduta” (p. 177). In verità ciò che diviene sempre più evidente è che tutto il corredo filosofico di ipotesi e congetture non può che arenarsi di fronte al fallimento totale che ha un nome tremendo e agghiacciante: Auschwitz. Naufragio del pensiero e perdita di sicurezza sono le sponde entro le quali si dibatte un’epoca che deve anche fare i conti con l’indebolimento operato dall’ermeneutica nei confronti dei testi sacri. Di fronte a questo colpo ulteriore non c’è che da decidersi tra gioco e tragedia.
Nel prendere coscienza che anche il linguaggio è una trappola, siamo ricondotti dinanzi al fondo abissale del nulla. Nel disegnare sentieri attraverso il nichilismo, l’autore riesce a cogliere nel relativo il vero bisogno dell’occidente. Questo nuovo luogo di salvezza dall’assoluto, diventa esso stesso un poco rassicurante assoluto. Il vero volto del cristianesimo è dunque tutto qui, nell’ avvento dell’assoluto che diventa relativo. La croce rappresenta quel certo momento della storia in cui il fondamento di tutte le cose che sono, abbandonata l’eterna necessità, decide per la sua spoliazione, il suo svuotamento. Su questa strada, dice Quinzio, il nichilismo svela storicamente il senso della croce.
L’intero percorso di Quinzio si chiude comunque con una parola, la sola che si possa ancora pronunciare sul destino del mondo contemporaneo, questa parola è speranza. Non una speranza qualunque ma una speranza apocalittica. Questa è l’unica, ci dice l’autore, che non illude, perché “non è modellata sulle nostre aspettative, dal momento che ciò che è per noi desiderabile coincide lì con ciò che per noi è terrificante” (p. 224).

Indice

Luoghi e morte
Ebraismo
Cristianesimo
In philosophos
Nichilismo


L'autore

Nato ad Alassio (Savona), il 5 maggio 1927, dopo aver prestato servizio per diversi anni nella Guardia di finanza, si è congedato e ha vissuto in ritiro per 14 anni, dedicandosi ad approfondire lo studio della Bibbia che è stato l’impegno costante della sua vita. Filosofo, teologo, saggista, e commentatore di temi religiosi, ha collaborato con La Stampa, il Corriere della sera, l’Espresso, unendo le sue doti di fine biblista e di efficace divulgatore culturale. È morto a Roma il 22 marzo 1996. tra le sue opere possono essere ricordate: Cristianesimo dell'inizio e della fine, Adelphi, Milano, 1967; Monoteismo ed ebraismo, Armando, Roma, 1975; La fede sepolta, Adelphi, Milano, 1978; Silenzio di Dio, Mondadori, Milano, 1982; La speranza nell'apocalisse, Ed. Paoline, Milano, 1984; La sconfitta di Dio, Adelphi, Milano, 1993; Mysterium iniquitatis, Adelphi, Milano, 1995.

giovedì 22 febbraio 2007

Flusser, Vìlém, Per una filosofia della fotografia.

Trad. it. di Chantal Marazia, Milano, Bruno Mondadori, 2006, II° edizione, pp. 128, € 11,00, ISBN 88- 424-9978-1.
[Ed. or.: Für eine Philosophie der Fotographie, European Photography, Göttingen 1983]

Recensione di Daniela Di Dato -  22/02/2007

Estetica

Attraverso un viaggio fisico negli ingranaggi dell’universo fotografico, Flusser propone non un saggio filosofico ma un’ipotesi di lavoro nella ricerca della libertà. Due eventi sembrano aver caratterizzato la storia umana: l’invenzione della scrittura lineare nel secondo millennio a.C. e l’elaborazione delle immagini tecniche che attraversa la nostra epoca. Da qui parte l’autore, proponendo ipotesi e concetti per stimolare un dibattito, fare pensiero e spirito filosofico sulla fotografia.

Come una macchina da presa congela un evento in singoli scatti rapidissimi la cui sequenza ne restituisce il movimento, così Flusser si sofferma su ciascun elemento della fotografia (apparecchio, fotografo, gesto fotografico, ecc.) per ricostruirne l’universo. Primo fotogramma della sequenza è l’immaginazione, la capacità dell’uomo di astrarre significati spazio-temporali dall’universo reale e portarli in superfici significanti, in un universo bidimensionale. Essa è un ponte magico sospeso tra codifica e decodifica di fenomeni e immagini. L’immaginazione “denota” e “connota” il fenomeno, lo congela nell’immagine e contemporaneamente lo arricchisce di interpretazioni, punti di vista: abbatte perciò la linearità del tempo storico, in cui esiste una successione temporale degli eventi e una correlazione definita tra causa ed effetto, e definisce un tempo circolare, il tempo della magia, in cui il “prima” e il “poi” ritornano nel tempo e nello spazio e aggiungono significati.

All’inizio della storia umana le immagini sono mappe che permettono all’uomo di muoversi ed entrare in contatto con il mondo, poi diventano schermi: alterano, mascherano la realtà, finiscono per essere oggetto di venerazione. Ed è proprio in opposizione all’idolatria delle immagini che si sviluppa il pensiero concettuale, il testo, la storia che astrae solo il necessario. Eppure, nel perenne movimento oscillatorio-alternato della storia umana, anche i testi finiscono con il diventare il solo punto di riferimento per comprendere la realtà. In che altro modo interpretare l’infallibilità e l’indiscutibilità dei testi della Bibbia o del Capitale, se non come sintomi di una nuova testolatria? Flusser individua perciò, con la nascita delle immagini tecniche, cioè create dagli apparecchi, la seconda cesura fondamentale della storia umana. Da un punto di vista temporale, le immagini tradizionali precedono i testi della scrittura lineare, sono “preistoriche”, e ontologicamente astrazioni di primo grado, in quanto partono dal mondo concreto: decifrarle significa quindi cogliere direttamente il fenomeno. Le immagini tecniche invece sono “poststoriche”, astrazioni di terzo grado, perchè astraggono dai testi e quindi indirettamente dal mondo reale: decifrarle significa coglierne il concetto sotteso, i simboli. Paradossalmente invece sembra che le immagini tecniche non abbiano bisogno di essere decifrate: confondiamo il loro significato con ciò che raffigurano in superficie, considerandole finestre sul mondo e non rappresentazioni di esso. E così criticare l’immagine non è critica all’atto creativo che l’ha generata ma al mondo che rappresenta.

L’analisi quindi tocca il rapporto tra autore e prodotto. In passato, il pittore s’inseriva in modo magico ma riconoscibile, tela e pennello erano gli utensili con cui rielaborava in simboli la realtà; così pure l’invenzione della stampa diffondeva testi divulgativi per la gente semplice, testi ermetici per élìte intellettuali, sviluppando l’arte delle immagini, la scienza e la politica a buon mercato. Ora tra immagine e fotografo si pone l’apparecchio fotografico, una black box misteriosa che introduce una magia “poststorica”, inaspettata, che prende forma nell’infinita riproduzione delle immagini tradizionali su poster e cartelloni pubblicitari, o nella magia programmabile e ripetibile dei fotoromanzi surrogati di testi divulgativi e a buon mercato. È l’utensile moderno, di valore, che conferisce agli oggetti una forma nuova, e in ciò li “informa”, producendo beni di consumo. Ma se prima l’uomo lavorava circondandosi di utensili, ora sono le macchine a circondarsi di uomini. E così il fotografo ha tra le mani un utensile, spesso sofisticato, con il quale non vuole trasformare il mondo, non può farlo, ma cerca “informazioni”, per dare al mondo una forma diversa. Il fotografo, emblema dell’uomo moderno, usa lo strumento senza conoscerlo. Non è più homo faber ma homo ludens. L’apparato fotografico (e per analogia quello statale, dirigente, burocratico) è un giocattolo talmente complesso che l’uomo non è in grado di comprenderlo: può solo giocarci combinando in varie forme i simboli contenuti nel programma.

Rimane così solo il gesto fotografico: ma anche questo non è un gesto libero. L’apparecchio fotografico può lavorare solo in funzione di categorie spazio-temporali definite: distanza dall’oggetto e rapidità dell’azione che si vuole catturare. Il fotografo può impostare svariate combinazioni spazio-temporali, privilegiando un primo piano piuttosto che un campo totale, ma la scelta è limitata alle combinazioni possibili delle categorie possedute dall’apparecchio: quella del fotografo è una libertà programmata in quanto egli può volere liberamente solo ciò che l’apparecchio è in grado di realizzare. Secondo Flusser, l’inganno continua nella scelta dell’oggetto da fotografare: in realtà si possono fotografare solo “stati di cose” a cui applicare, di volta in volta, criteri estetici, o prospettici o concetti artistici: in sostanza, ogni foto può essere solo l’immagine dei concetti contenuti nel programma dell’apparecchio fotografico. Il mondo è solo uno spunto. Realismo e idealismo si sfumano perchè non è reale né il mondo là fuori né i programmi della macchina: è la fotografia l’unico elemento reale. E cosa accade se il fotografo s’imbatte in un ostacolo quando, impostando la macchina per un campo totale, sfuma un oggetto in primo piano? Deve cambiare programma, cercare per salti la combinazione più giusta: in termine tecnico è costretto a “dubitare”, a regolare nuovamente l’apparecchio, ma nel farlo deve decidere cosa privilegiare, scoprendo che l’apparecchio offre un’infinità di punti di vista al suo occhio che invece è concentrato su un solo oggetto. Agisce quindi in senso anti-ideologico, quando l’ideologia è l’insistenza su un unico punto di vista. Allora decifrare una fotografia vuol dire decodificare il rapporto fotografo/apparecchio, in cui il fotografo intende cifrare nelle immagini la sua visione del mondo, servendosi di un apparecchio, producendo foto che, distribuite, creano esperienza, informazione e rendono lui stesso eterno; l’apparecchio invece intende tradurre in immagini le possibili combinazioni spazio-temporali del suo programma, servendosi di un fotografo. La critica moderna quindi dovrebbe cercare la bellezza di una foto nella capacità del fotografo di sottomettere l’apparecchio all’intenzione umana. Il valore di una foto, duplicabile all’infinito, non è nella foto in sé, come per un quadro d’autore, ma per l’informazione che racchiude, per l’atto creativo che l’ha generata.

E che dire della diffusione fotografica? Essa avviene attraverso il canale divulgativo delle riviste scientifiche e reportage, imperativo dei manifesti di propaganda politica, artistico e pubblicitario. Le foto si caricano così di un contenuto altamente drammatico, in quanto racchiudono la tensione fra tre elementi fondamentali: fotografo, apparecchio e canale comunicativo. Anche qui, secondo l’autore, la critica fotografica dovrebbe evidenziare questa forma di lotta, smascherare i “media” nascosti tra fotografo e apparecchio, per rendere i destinatari consapevoli e non magicamente imprigionati. Il vero punto che andrebbe smascherato è il completo automatismo che l’apparecchio fotografico sta via via acquistando: l’uomo è scalzato, drammaticamente disinserito. Chi oggi non possiede una macchina fotografica? Ma, se è vero che chi sa scrivere sa anche leggere, non è detto che chi sa fare le foto sappia anche decifrarle. Oggi le macchine fotografiche sono apparecchi strutturalmente complessi, ma funzionalmente molto semplici: al contrario degli scacchi, in cui a dispetto di regole semplici, è difficile giocare bene, chi ha in mano una macchina fotografica può fare belle foto senza avere la minima idea della complessità del meccanismo che mette in atto attraverso un semplice scatto. Il fotografo dilettante non è mai al di sopra dello scatto, è catturato dal suo strumento in una sequenza di scatti successivi, è lui stesso prolungamento dell’autoscatto della macchina. Un fotografo vero (alter ego di un uomo libero) riscopre le stesse scene in modi sempre diversi. Cerca di informare, cioè di variare la forma, lo stato di cose di elementi sempre identici; tutto questo in un tempo in cui il vettore semantico si è invertito, le foto spiegano i testi, la realtà è entrata nel simbolo dell’immagine, scacciando indietro la nostra coscienza storica e critica e avvolgendoci nel cerchio magico dell’universo fotografico. In maniera subliminale e ingannevole, gli apparecchi programmano fotografo e società secondo il programma in essi contenuto. Se la filosofia della fotografia riuscisse a tenere alta l’attenzione su questo punto, potrebbe essere significativa per la società postindustriale. La filosofia avrebbe da affrontare il tema della libertà oggi che, in tutti i campi della vita moderna, gli apparecchi finiscono con il programmare ed organizzare la vita degli uomini intorno a essi. I fotografi sono già uomini del futuro, i loro gesti sono programmati dai loro apparecchi, si occupano del “terziario”, si interessano alle informazioni e creano cose (le foto) senza valore. Eppure, convinti che la loro attività sia tutt’altro che assurda, ritengono perciò di essere liberi. È qui che, secondo Flusser, la filosofia potrebbe essere un faro: vigilando la pratica della ricerca della felicità, illuminando i fotografi sperimentali, quelli consapevoli che immagine-apparecchio-programma-informazione sono gli elementi con cui confrontarsi, quelli che tentano di creare foto impreviste, di contrastare i programmi, di “giocare” con l’apparecchio, ma che non sempre comprendono che in questo loro gioco stanno tentando di dare una risposta alla questione della libertà nell’universo moderno dominato dagli apparecchi.

Indice

Premessa
L’immagine
L’immagine tecnica
L’apparecchio fotografico
Il gesto fotografico
La fotografia
La distribuzione della fotografia
La ricezione della fotografia
L’universo fotografico
La necessità di una filosofia della fotografia
Lessico dei concetti


L'autore

Vilém Flusser (1920-1991), studioso del linguaggio e della cultura, della teoria e della tecnologia della comunicazione e dell’immagine, è considerato un punto di riferimento imprescindibile per la filosofia dei media e la cultura informatica nei paesi di lingua tedesca. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: Filosofia del design (Bruno Mondadori, Milano 2003) e La cultura dei media (Bruno Mondadori, Milano 2004).

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Vilém Flusser Archiv

venerdì 16 febbraio 2007

Angelino, Carlo, Carl Schmitt, sommo giurista del Führer.

Genova, Il Melangolo, 2006, pp. 41, € 10,00, ISBN 8870186253.

Recensione di Antonino Scalone -16/02/2007

Filosofia politica

Carl Schmitt è riconosciuto come uno dei massimi giuristi e politologi del secolo appena trascorso. Tuttavia, tale riconoscimento, insieme alla riproposizione di tutte le sue opere principali e alla pubblicazione di un gran numero di monografie dedicate a vari aspetti del suo pensiero, si è generalizzato solo a partire dagli anni settanta (per quel che riguarda l’Italia, ad esempio, la ripresa dell’attenzione nei confronti di Schmitt coincide con la pubblicazione nel 1972 della silloge Le categorie del ‘politico’, che raduna alcuni dei suoi scritti più famosi, con una introduzione di Gianfranco Miglio). L’eclissi del pensiero schmittiano per oltre un ventennio fu dovuta alle sue pesanti compromissioni col regime nazionalsocialista che gli costarono, alla caduta del regime, un periodo di detenzione da parte degli alleati – conclusosi peraltro con un non luogo a procedere –, il ritiro a vita privata nella natia Plettemberg e, appunto, il lungo periodo di oblio della sua opera, soprattutto in patria.
Negli ultimi anni, di fronte al crescente interesse per il pensiero di Schmitt, talmente vasto da mettere in secondo piano, sulla base dell’assodato valore dell’opera, il periodo di adesione al nazionalsocialismo (peraltro non privo di complicazioni, come mostra l’attacco rivolto a Schmitt nel 1936 dalla rivista delle SS, in conseguenza del quale egli si limitò negli anni successivi all’attività accademica), si è manifestato in Francia, soprattutto ad opera di Yves Charles Zarka, un movimento di reazione mirante a ridimensionare l’opera di Schmitt e a sottolineare tanto la non episodicità della sua adesione al nazismo, quanto il carattere strutturalmente antisemita del suo pensiero (sulle posizioni di Zarka e in generale sul dibattito francese a proposito di Schmitt, ci permettiamo di rimandare al nostro Carl Schmitt e il nazismo. Sviluppi recenti della recezione schmittiana in Francia, SIFP [on line], a. 2006, ISSN: 1825-0327). Documento significativo di tale operazione è il volumetto Un dettaglio nazi nel pensiero di Carl Schmitt (trad. it. e cura di Simone Ragazzoni, Genova, Il Melangolo 2005) contenente, oltre ad un affilato saggio polemico, la traduzione di alcuni fra i più compromettenti saggi schmittiani del periodo nazionalsocialista. La traduzione italiana del volumetto ha suscitato reazioni polemiche, segnatamente da parte di Franco Volpi.
A tali polemiche fa ora seguito il volumetto Carl Schmitt sommo giurista del Führer ove Carlo Angiolino, a sostegno delle posizioni di Zarka, oltre ad un’introduzione nella quale riassume lo stato del dibattito, pubblica la traduzione italiana di tre saggi schmittiani del periodo incriminato. Il primo, Die deutschen Intellectuellen, è una polemica denuncia degli intellettuali tedeschi emigrati all’estero e della loro attività avversa al nuovo regime. Il secondo, Der Fuhrer schütz das Recht, costituisce una sorta di giustificazione giuridica della notte dei lunghi coltelli. Il terzo, Die deutsche Rechtswissenschaft im Kampf gegen den jüdischen Geist, è una denuncia della pervasività della presenza del pensiero ebraico nella cultura tedesca, soprattutto in quella giuridica. Schmitt propone di rendere evidente tale presenza sistemando nelle biblioteche le opere di autori ebrei “in una particolare sezione judaica” e, qualora si citino autori ebrei, indicando esplicitamente la loro appartenenza razziale (p. 33).
Dal punto di vista scientifico non si può non condividere ogni iniziativa che valga a diffondere la conoscenza di un determinato autore in tutti i suoi aspetti, mettendo a disposizione del lettore testi – come quelli di cui si è detto – altrimenti di non facile reperibilità. Suscita però qualche perplessità l’affermazione che per questa via possano affiorare – come scrive Angiolino - “verità che i cultori dello stesso Schmitt si premurano, con ogni mezzo, di tenere ben nascoste” (p. 9). Se è vero che nello studio del pensiero schmittiano sono stati privilegiati gli scritti del periodo weimariano e del secondo dopoguerra, questo non sembra dipendere da un esplicito intento censorio, ma dal fatto che probabilmente, a giudizio degli interpreti, quegli scritti possiedono un valore scientifico obiettivamente maggiore di quelli del dodicennio nazionalsocialista. Peraltro, tanto per rimanere al caso italiano, non mancano le traduzioni anche recenti di opere schmittiane del periodo incriminato: si pensi ad esempio alla traduzione integrale de I tre tipi della scienza giuridica, saggio esplicitamente presentato dalla curatrice come appartenente “alla fase «nazista» di Schmitt e del Reich tedesco" (C. Schmitt, I tre tipi di scienza giuridica [1934], tr.it. e cura di Giuliana Stella, Giappichelli, Torino 2002, p. 75), o al saggio schmittiano sul Leviatano di Hobbes del 1938, apparso in lingua italiana nel 1986, nel quale è reiterata la polemica antisemita nei confronti di Spinoza (C. Schmitt, Scritti su Thomas Hobbes, Giuffrè, Milano 1986, p. 106) e di Stahl (indicato da Schmitt come Stahl-Jolson per sottolinearne appunto l’appartenenza razziale, ivi, p.117).
Sempre sul piano scientifico, infine, ci si può chiedere se un eccessivo schiacciamento sul periodo nazista faccia del tutto giustizia di un pensiero che abbraccia oltre un sessantennio e che, nonostante compromissioni, ambiguità e reticenze, le quali peraltro non vanno in nessun modo taciute, presenta tuttavia, com’è stato osservato, elementi decisivi di “comprensione della logica, del funzionamento e delle aporie della forma politica moderna” (G. Duso, Pourquoi Carl Schmitt?, in “Débat” n. 131, settembre-ottobre 2004, p. 139). Se, come pare, sul piano della teoria è con la forma politica moderna che dobbiamo ancora misurarci – anche solo per segnalarne il tramonto o il superamento – l’impressione è che il pensiero di Schmitt rappresenti a tutt’oggi uno strumento difficilmente sostituibile.

Indice

Carl Schmitt sommo giurista del Führer
Carl Schmitt, Testi antisemiti (1933-1936)
Gli intellettuali tedeschi
Il Führer custode del diritto
La scienza giuridica tedesca in lotta contro lo spirito ebraico


L'autore

Carlo Angelino è docente di Estetica presso l’Università di Genova. Traduttore di Heidegger, ha pubblicato fra l’altro Il “terribile segreto” di Nietzsche (Genova 2000) e L’errore filosofico di Martin Heidegger (Genova 2001).

giovedì 15 febbraio 2007

Galletti, Matteo, Decidere per chi non può. Approcci filosofici all’eutanasia non volontaria.

Firenze, Firenze University Press, 2005, pp. 182, € 12,00, ISBN 888453268X.

Recensione di Roberto Lusardi - 15/02/2007

Etica (bioetica, diritti, responsabilità)

Il “fine vita” è uno dei momenti dell’esistenza umana su cui le innovazioni biotecnologiche applicate alla medicina moderna hanno prodotto i cambiamenti più significativi. L'avvento della tecnica ha determinato la necessità di una ridefinizione dell’idea di condizione umana, sia dal punto di vista della mera esistenza biologica, sia sotto il profilo psicologico e sociale. Una necessità evidentemente mai emersa prima, ma che oggi rivela i caratteri dell’urgenza. Una simile definizione deve contemplare al suo interno tutti quei casi nei quali l'essere umano sia connesso in maniera indissolubile ad una apparecchiatura, o ad un complesso di apparecchiature, che ne garantiscono la sopravvivenza, sia per un periodo circoscritto di tempo, sia per compensare deficienze croniche dell'organismo.
Il territorio che si estende ai confini dell’esistenza umana appare quindi una frontiera in cui è molto problematico addentrarsi, nella quale i contorni di ciò che si muove all’interno sembrano confondersi e sovrapporsi: scelte e valori personali, ricerca scientifica, deontologia medica e accountability professionale, diritto, religione...
Il libro di Matteo Galletti, Decidere per chi non può. Approcci filosofici all’eutanasia non volontaria, vuole essere uno strumento per affrontare questo tema, assumendone la complessità e restituendola attraverso il filtro della bioetica e della riflessione filosofica. Il libro intende offrire agli addetti ai lavori una panoramica dettagliata degli approcci bioetici riguardo alle decisioni di fine vita, ovvero quel processo decisionale nel quale occorre valutare l’opportunità o meno di prolungare la sopravvivenza di un essere umano il cui organismo è ormai gravemente compromesso dal punto di vista fisico/biologico attraverso l’ausilio di presidi biotecnologici. In particolare, l’analisi si circoscrive a quei processi decisionali nei quali il soggetto direttamente coinvolto non è più nelle condizioni di poter esprimere formalmente la propria volontà: è il caso, quindi, dei neonati affetti da gravi patologie o disabilità e dei pazienti in stato vegetativo permanente (SVP).
Il libro si apre distinguendo le due principali correnti di pensiero sull’argomento: la bioetica standard e la morale tradizionale o etica della sacralità della vita. Nel primo caso ci troviamo di fronte ad autori che si rifanno ad una concezione individualistica e razionalistica dell’essere umano e delle sue capacità. Tale concezione suggerisce di operare una differenziazione qualitativa del valore stesso dell’esistenza. All’estremo opposto, si colloca l’etica della sacralità della vita, che per lungo tempo ha influenzato in modo determinante la deontologia medica, e che impone di trattare medicalmente ogni paziente al fine di preservarne la sopravvivenza, senza distinzioni relative alla gravità delle condizioni patologiche.
Galletti sottolinea come alla base della divergenza tra le due posizioni vi è una contrapposizione su un aspetto focale: il concetto di “persona”. A questo tema è dedicato l’intero secondo capitolo, mostrandone la rilevanza e la problematicità.
La nozione di “persona”, infatti, nella letteratura bioetica, viene spesso utilizzata come elemento discriminante tra ciò che è moralmente lecito e ciò che non lo è. Detto altrimenti, tale nozione costituisce il luogo privilegiato ove risolvere le controversie intorno all’attribuzione del diritto alla vita ed alla liceità di una sua possibile violazione.
Per autori come Singer, Rachels, Harris, che in diverso modo si rifanno alla bioetica standard, un attributo irrinunciabile della persona, intesa come soggetto di diritti morali, è la coscienza di sé, ovvero la capacità di poter volere che il proprio sé esista anche nel futuro, secondo la definizione che ne da Singer. Per la bioetica standard è indispensabile che vi sia un esplicito interesse a vivere, affinché si abbia un soggetto moralmente valido, distinto dall’indifferenziato “essere umano”, depositario della sola esistenza biologica. Il diritto morale alla sopravvivenza è strettamente legato, quindi, allo sviluppo ed al possesso di capacità cognitive e volitive. L’applicazione rigorosa di questo approccio porta ad una netta opposizione alla sopravvivenza di pazienti in SVP, in quanto incapaci di percepire se stessi e desiderare la propria stessa sopravvivenza. Più controversa è l’applicazione nel caso dei neonati gravemente malformati: il neonato è privo di autocoscienza non per cause patologiche ma poiché si trova in uno stadio elementare del proprio sviluppo fisico e cognitivo.
Nel terzo capitolo Galletti riprende il concetto di persona elaborato dalla bioetica standard e ne mostra la problematicità in relazione al diritto alla vita. Infatti, per i sostenitori di questo approccio, il diritto alla vita (definito come un diritto prima facie, ovvero un diritto che può ammettere deroghe, a non essere uccisi) è riservato solo agli esseri autocoscienti.
I critici della bioetica standard che si riconoscono nella corrente del ”personalismo” sostengono che sia assolutamente riduttivo e fuorviante identificare lo status di persona con la capacità di esprimere e manifestare capacità cognitive autocoscienti: anche in assenza di tali segnali, non è possibile affermare che non esista nemmeno la persona.
I punti contestati alla bioetica standard sono sostanzialmente due: il riduzionismo cognitivo, di cui abbiamo detto, ed il “funzionalismo”, ovvero la scomposizione della personalità in una molteplicità di atti e funzioni. Nel tentativo di superare questi limiti, il personalismo propone l’idea di una sostanza che esiste al di là delle manifestazioni mentali e che permane per tutto il tempo dello sviluppo dell’essere umano, dalla fecondazione alla morte. Così facendo si ricomporrebbe la scissione tra persona ed essere umano, che diverrebbe soggetto puro di diritti morali. In questa prospettiva, dunque, il diritto alla vita verrebbe acquisito sin dal momento della fecondazione, in quanto la persona, in senso metafisico, sarebbe presente già a partire dall’unione gametale. L’assenza di coscienza non è più un indicatore vincolante poiché la persona metafisica è sempre presente. Come si vede, quindi, all’atto pratico le due posizioni non sembrerebbero in teoria poi così dissimili, in quanto entrambe ammetterebbero la possibilità che scelte di fine vita siano moralmente accettabili. Ciò che radicalmente le distingue è la giustificazione addotta a sostegno di questo tipo di decisione. Nel primo caso, i sostenitori della bioetica standard ritengono che esista uno status ontologico distinto tra individui che manifestano capacità cognitive autoriflessive, quelli che rispondono ai parametri descritti dalla nozione di persona, e chi, al contrario, non mostra di avere coscienza di sé (perché perduta o non ancora acquisita), e che generalmente si definiscono come esseri umani. Nel secondo caso, almeno nelle versioni ontologicamente meno intransigenti del personalismo, lo status di persona coincide con quello di essere umano ma permane una deroga (nei termini di un diritto prima facie alla vita) a valutare le effettive condizioni del paziente, in ogni singolo e specifico caso.
Il quarto capitolo è dedicato al dibattito intorno a due temi cruciali: l’argomento del “prossimo bambino” e la definizione di morte cerebrale.
L’argomento del “prossimo bambino”, sostenuto dalla bioetica standard, consiste nel ritenere i neonati non come persone ma come esseri umani in grado di provare piacere e dolore. Sulla base di questa interpretazione diverrebbe così moralmente lecito non garantire la sopravvivenza di un neonato con gravi difetti fisici o mentali per favorire l’esistenza in futuro di un altro sano. Galletti riporta alcune delle critiche più importanti a questa argomentazione che ne rivelano il limite fondamentale: anche in questo caso, l’ancoraggio ad una concezione atomistica dell’individuo umano. Controversa risulta anche la definizione di morte cerebrale: se infatti assumiamo una definizione di morte che comprenda la cessazione di tutte le funzioni dell’encefalo, si dovrebbe dire che i pazienti in SVP non sono morti in quanto, spesso, sono in grado di respirare autonomamente e possiedono alcuni riflessi spontanei (come tosse, deglutizione, ...) poiché la zona dell’encefalo preposta al controllo di queste funzioni, il tronco encefalico, è intatta. Non è possibile quindi affermare che morte cerebrale e stato vegetativo coincidano; né è plausibile accettare una versione neo-corticale della morte in quanto morte della persona – come cessazione irreversibile dell’attività di coscienza – e morte dell’essere umano non coincidono.
Nel quinto capitolo Galletti affronta il tema della qualità della vita, confrontando la posizione della bioetica standard con altre concezioni che rifiutano di identificare la qualità con una misurazione oggettiva della quantità di dolore e piacere che una vita può contenere. All’interno della stessa corrente di pensiero, oltre alla concezione più oggettivistica della qualità della vita, se ne può trovare un’altra, denominata individuale, che comprende uno slittamento dall’universale al particolare, nella quale cioè viene assunta come centrale una determinata condizione, seppur limitata, limitante e disagevole che però per lo specifico paziente, può rivelarsi essere un beneficio. Solo l’interessato è autorizzato ad esprimersi riguardo alle sue preferenze. Nel caso delle situazioni di cui tratta il libro, la volontà del paziente è vicariata da terzi esterni.
Nella stessa direzione si muove un autore come Glover, al quale preme evidenziare come ogni test che intenda determinare oggettivamente il senso di una vita degna di essere vissuta sia destinato a fallire. È la dimensione soggettiva ad essere posta in risalto: sia quella del paziente nella sua specifica situazione, sia quella dell’osservatore, il quale non può, nel formulare un giudizio, esimersi dall’inserire il proprio punto di vista personale. Questa dicotomia è molto evidente nel caso dei neonati o dei pazienti con patologie neurodegenerative molto gravi. In questi casi, anche la capacità empatica di “mettersi nei panni dell’altro” incontra un ostacolo insormontabile rappresentato dall’alterazione delle funzioni cognitive.
Un ulteriore approccio pone al centro della riflessione il concetto di “dignità della vita”, riprendendo un tema classico della filosofia, sul quale si sono espressi Aristotele e Kant, per citare solo qualche esempio. Sotto questo profilo, gli autori contemporanei che si rifanno a un simile approccio riprendono esplicitamente il discorso kantiano, basandosi sul riconoscimento di un “principio di umanità” che riconosca alla persona lo statuto di “fine in sé autosussistente”. Secondo la concezione kantiana, la dignità e il valore degli esseri umani preesisterebbero a qualunque azione ed anche a qualunque condizione patologica o disabilitante. Nella pratica, la posizione laica kantiana sembrerebbe coincidere con quella religiosa che afferma il divieto assoluto di uccidere l’essere umano o di sospendere le cure mediche in determinate condizioni, lasciandolo morire. Questo perché il paziente in SVP, secondo tale prospettiva bioetica, non perderebbe la dignità, che possiede per il solo fatto di appartenere al genere umano. Queste concezioni, se da un lato restituiscono uno statuto autonomo al “fine vita”, dall’altro rischiano di fornire canoni impersonali ed astratti, nei quali rischiano rimanere intrappolate le situazioni contingenti, sacrificando così la grande variabilità delle reazioni umane di fronte ad una grave sofferenza.
Al termine di questo viaggio intellettuale, Galletti propone la sua posizione riguardo ai temi trattati e rimarca la centralità della distinzione tra neonati e pazienti adulti. Nel neonato, infatti, si ha un diritto prima facie alla vita, a prescindere dal grado di autocoscienza che questi sia in grado di manifestare. L’aspetto più controverso, in tale contesto, è la determinazione dello standard di qualità della vita al quale il neonato può legittimamente aspirare, poiché tale indice richiede una valutazione continua ed è mutevole nel tempo. Tale livello non può quindi essere calcolato come un indice statico semplicemente in relazione alla patologia del bambino. Inoltre, un ruolo fondamentale è interpretato dai genitori, dal momento che la decisione comporterà per essi notevoli impegni nella cura e nell’assistenza del bambino. Pertanto, Galletti nega l’imposizione esterna (per esempio, ad opera di una commissione scientifica o di un’istituzione politica) di un modo corretto per calcolare la qualità della vita, come criterio a cui ancorare l’eventuale decisione di sospendere o di non attivare presidi di sostentamento vitale.
Nel caso dei pazienti adulti in fine vita o in SVP, l’eutanasia non volontaria è maggiormente giustificabile dal punto di vista morale poiché in tali condizioni si ha una ridefinizione dei confini del concetto di beneficità. Diventa ostico stabilire quando l’obbligo di garantire la sopravvivenza di un paziente condannato all’immobilità, alimentato artificialmente, privo di coscienza, non prefiguri accanimento terapeutico. Anche in questo caso, la decisione dovrebbe allargarsi ai familiari, i quali diverrebbero i depositari, legittimati dal legame affettivo, delle volontà del paziente.

Indice

1. Introduzione: le nuove sfide tecnologiche di prolungamento della vita e le sfide dell’etica filosofica
1.1 Casi tragici e scelte morali. Neonati con disabilità o gravi patologie e pazienti in stato vegetativo permanente
1.2 La bioetica standard: una definizione
1.3 Alcune precisazioni preliminari
1.4 Piano dell’opera

2. Chi è persona? Problemi di descrizione
2.1 I vari significati del concetto di ‘persona’
2.2 La persona umana e la coscienza di sé
2.3 La persona e l’unità della vita mentale
2.4 Dalla descrizione alla prescrizione. Persona e diritto alla vita nella bioetica standard
2.5 La tesi della continuità feto-neonato
2.6 Identità personale e continuità mentale: siamo essenzialmente persone?

3. Persona e diritto alla vita. Verso una nuova idea di soggettività morale
3.1 Persona e diritto alla vita. Alternative alla bioetica standard
3.2 L’argomento della potenzialità
3.3 La bioetica e l’importanza dei diritti morali
3.4 La soggettività morale. Oltre l’idea di persona
3.5 Quali relazioni?

4. Il valore della vita. Individui unici e organismi biologici
4.1 I neonati sono sostituibili? L’argomento del ‘ prossimo bambino’
4.2 Il viaggio di una vita
4.3 Il valore della vita dei pazienti in SVP: esseri umani viventi o cadaveri?
4.4 Definizioni ontologiche e morali della morte cerebrale corticale
4.5 Filosofia e morte corticale

5. La qualità della vita e le vite degne di essere vissute
5.1 Il piacere e la normalità: modelli imparziali per valutare la qualità della vita
5.2 Il bene e l’interesse del paziente: i giudizi individuali sulla qualità della vita
5.3 Le vite degne di essere vissute e la soggettività dei giudizi
5.4 La dignità della vita umana come problema di valore
5.5 Capacità e qualità della vita: interpretazioni perfezioniste e progressive
5.6 Qualità della vita, relazioni, emozioni

6. Conclusioni: l’eutanasia non volontaria
6.1 Eutanasia e disabilità
6.2 Scelte individuali e danni collettivi: il problema della discriminazione
6.3 Gli incerti limiti della beneficenza
6.4 La scelta di porre fine alla vita priva di coscienza
6.5 Epilogo. L’eutanasia non volontaria e la complessità dell’esperienza morale


L'autore

Matteo Galletti (Firenze 1976), laureato a Firenze in Storia della filosofia morale, è borsista presso il CIRSFID (Centro interdipartimentale di ricerca in sociologia e filosofia del diritto, storia del diritto e informatica giuridica) presso l’Università degli Studi di Bologna.
Si occupa di bioetica, di etica normativa, teorie dell’identità personale. Ha pubblicato vari articoli di bioetica su riviste specializzate (“Bioetica. Rivista interdisciplinare”, “Bioetica e società”, “HEC Forum”)

Links

Webpage del Comitato Nazionale di Bioetica, Commissione della Presidenza del Consiglio dei Ministri con funzione orientativa in ambito medico e biomedico

Webpage de “La Consulta di Bioetica”, associazione di cittadini impegnata a promuovere lo sviluppo del dibattito laico e razionale sui problemi etici nel campo della medicina e delle scienze biologiche

Il “The Edmond J. Safra Foundation Center for Ethics” è un centro di ricerca dell’Università di Harvard che si occupa di bioetica in contesti professionali e nella sfera pubblica. Nel sito si trovano molte risorse online