sabato 10 febbraio 2007

Taranto, Domenico, La miktè politéia tra antico e moderno. Dal “quartum genus” alla monarchia limitata.

Milano, Franco Angeli, 2006, pp. 158, € 16,00, ISBN 88-464-7570-4.

Recensione di Piero Venturelli – 10/02/2007

Storia della filosofia, filosofia della politica

Qualche cenno introduttivo: che cosa è la mistione?

Le riflessioni condotte intorno al governo misto rappresentano, già nei tempi antichi, un tentativo di attuare scientificamente una tutela giuridica dello Stato. L’obiettivo è quello di costruire un ordinamento fondato su una saggia combinazione dei princìpi vitali delle tre forme semplici e “rette” di governo (la monarchia, l’aristocrazia, la democrazia), in modo tale che ad una sola forza politica o sociale, ovvero ad un unico principio ideologico, sia giuridicamente impedito di prevalere e d’intaccare il bene collettivo.

Nel libro che qui si segnala, composto di una prima parte di taglio sia storico-descrittivo sia teorico e di una seconda parte antologica, Domenico Taranto prende in esame le finalità della miktè politéia, appunto la stabilità e l’equilibrio, e studia le modalità concrete del realizzarsi della mistione. A questo scopo, egli chiama in causa innumerevoli esempi storici e la ricchissima trattatistica dedicata al governo misto, non mancando di sottolineare come tutte le complesse elaborazioni dottrinali e i vivaci dibattiti sorti intorno a questo tema concorrano in maniera significativa all’affinamento del pensiero politico europeo.

Ma come può definirsi, almeno in termini generali e meramente orientativi, questa miktè politéia? Per iniziare, è sufficiente metterne in luce la natura di quarto genere rispetto ai tre modelli classici “buoni”, che strutturano da sempre il lessico e l’ossatura della politica (computando anche i corrispondenti generi “cattivi” – la tirannia, l’oligarchia e l’oclocrazia o demagogia–, si può legittimamente parlare di settimo modello). Quarto genere rispetto all’uno, ai pochi e ai molti che soprattutto Aristotele e poi i suoi numerosi seguaci sembrano voler assumere come le modalità più rilevanti di attribuzione e di esercizio del potere più alto dentro la città. Di fronte alla minaccia di disgregazione degli organismi politici “semplici”, il governo misto risponde con la “composizione”, che è considerata l’unico strumento di cui l’uomo possa effettivamente avvalersi per rallentare il corso della temporalità distruttiva.

Il governo misto e la sua storia: alcuni momenti dalle origini alla Tarda Antichità

Anche se Platone ed Aristotele, rispettivamente nelle Leggi e nella Politica, sembrano prossimi a teorizzare in forma compiuta dottrine sulla miktè politéia, la vera e propria ideologia della mistione nasce, due secoli dopo, con Polibio. Nel libro VI delle Storie, infatti, egli instaura un rapporto diretto fra la potenza di Roma e la sua costituzione, che non è considerata né semplice, né inscrivibile in una delle forme “pure” consacrate dalla tradizione; piuttosto, a suo avviso, si tratta di un sistema politico che è frutto dell’unione di monarchia, aristocrazia e democrazia. Lo storico greco non ha esitazioni: soltanto il governo misto è in grado di prevenire, attraverso forme legislative coerenti e un ordinamento ben equilibrato, eventuali sviluppi eccessivi dell’autorità al potere. Partendo dall’ormai classica tipologia dei sei generi di governo, tre “buoni” e tre “cattivi”, egli sostiene che ognuna delle forme “rette” è destinata a tralignare nella rispettiva forma “corrotta”, dando così origine ad un ciclo storico scandito in sei fasi (monarchia, tirannia, aristocrazia, oligarchia, democrazia, oclocrazia), il quale, pervenuto al suo compimento, ritorna al principio (è la celebre teoria dell’anaciclosi).

Polibio riconosce in Licurgo uno dei legislatori più illuminati della storia proprio perché egli ha saputo imporre allo Stato spartano un bilanciatissimo ordinamento di carattere misto,un sistema politico-costituzionale che ha consentito al governo e alle “parti” della città di restare a lungo in equilibrio. Analogamente, Polibio considera mista anche la costituzione romana, fatto sul quale non possono esservi dubbi, a suo giudizio, dal momento che, «guardando in parte al potere dei consoli, lo Stato [appare] senz’altro monarchico o regio, se invece si [guarda] al Senato, [appare] aristocratico, e se al potere della moltitudine [sembra] senza dubbio democratico» (Storie, VI, 11, 12). Quest’assetto costituzionale impedisce a ciascuno degli elementi istituzionali e sociali partecipanti al governo d’inorgoglirsi e d’infrangere la giustizia, ossia il limite, in virtù del quale ogni potere, essendo frenato dagli altri, è meno libero di commettere iniquità. Secondo Polibio, dunque, la mistione assume una doppia valenza: teoria del coinvolgimento delle parti sociali nella gestione della cosa pubblica e teoria del limite del potere di ciascuna di esse nella sua separazione dalle altre.

Anche Cicerone celebra la bontà del regimen mixtum. Nel De republica, egli elenca le solite tre forme “rette” di governo e dichiara che di gran lunga migliore risulta quella monarchica, sebbene ad essa sia da considerarsi ancora superiore quella derivata equilibratamente da tutte e tre. Secondo l’Arpinate, il governo misto è incentrato sul controllo del potere da parte delle forze sociali organizzate, e risulta – quindi – molto più saldo e duraturo delle forme costituzionali “semplici”.

Il governo misto e la sua storia: alcuni momenti dal Medioevo all’Età Moderna

Dopo oltre un millennio di scarso interesse per il governo misto, Tommaso d’Aquino, appena varcata la metà del XIII secolo, indica di nuovo nella saggia mescolanza tra l’elemento monarchico, quello aristocratico e quello popolare il miglior ordinamento politico possibile. In più, nella Summa theologiae, egli si dice convinto che il regimen mixtum tragga vita da un’ispirazione celeste.

Nel Tardo Medioevo la geografia “tipologica” della mistione si arricchisce di un altro luogo, dopo Sparta e Roma: Venezia. Sennonché, accostare l’ordinamento della Serenissima all’idea di composizione significa, almeno in parte, snaturare la teoria classica del governo misto. Questo accade perché la costituzione lagunare, a partire dal 1297 (anno della “serrata del Maggior Consiglio”, cioè dell’esclusione dalla vita politica di un certo numero di famiglie), non contempla più una sintesi dialettica, sul terreno politico come sul terreno sociale, fra patriziato e popolo. A Venezia, infatti, la mancata partecipazione della plebe al governo della cosa pubblica le impedisce di frenare la prepotenza e l’arbitrio degli ottimati, i quali – a loro volta – non possono così moderare l’umore incostante e sedizioso della plebe. Il governo è misto, pertanto, in un senso “nuovo” e abbastanza improprio, poiché la composizione avviene solo nella misura in cui si formano degli equilibri interni alla classe dominante, intesa come ordinata gerarchia di funzioni che assicura il concorso di tutti i patrizi al governo, ciascuno secondo le sue capacità.

Le discussioni e le opere dedicate alla costituzione di Venezia, nonché le riforme ad essa ispirate e attuatesi in diversi luoghi, assumono particolare rilievo nella Firenze della seconda metà del Quattrocento e del primo Cinquecento. Di grande interesse appaiono specialmente il dibattito costituzionale sviluppatosi all’indomani della fuga dei Medici dalla città gigliata nel 1494 e le riforme che via via ne scaturiscono; le riflessioni di Francesco Guicciardini consegnate nel 1512 al Discorso di Logrogno e nel 1521-1526 al Dialogo del reggimento di Firenze; le seguenti opere di Donato Giannotti: Trattato della repubblica fiorentina, del 1531-1538, e l’inconcluso Libro della Republica de’ Viniziani, elaborato verso il 1530.

In ambiente veneto, è d’obbligo ricordare almeno uno degli scritti fondamentali incentrati sul regimen mixtum e sull’eccellenza della costituzione della Serenissima: il De magistratibus et republica Venetorum di Gasparo Contarini, un’opera che esce postuma (a Parigi) nel 1543, ma che è redatta probabilmente a due riprese nel 1522-1524 e nel 1532-1534. Pur nella sua brevità e concisione, il testo diviene subito un classico nel suo genere e un punto di riferimento imprescindibile sia per i fautori sia per gli oppositori del “mito” della Serenissima. Contarini paragona qui la repubblica lagunare a quella lacedemone, a motivo della loro comune natura di governi misti, e spiega che, a Venezia, il Doge rappresenta l’autorità regia, il Senato – insieme col Consiglio dei Dieci e il Collegio – la magistratura peculiare di un regime degli ottimati, il Consiglio Maggiore l’organo dello Stato popolare.

Nello stesso periodo, in terra di Francia, alla dottrina tradizionale del regimen mixtum si richiamano di frequente i sostenitori della monarchia allo scopo di deprimere le aspirazioni assolutistiche dei sovrani. Nel Prohème d’Appien (1510), prefazione alla traduzione francese della Storia dei Romani di Appiano Alessandrino, Claude de Seyssel interpreta la monarchia transalpina come una sorta di governo misto, dal momento che il potere assoluto del sovrano risulta frenato dalla nobiltà con le sue prerogative e libertà. Il modello di regimen mixtum che egli descrive, quindi, è fondato sulla gestione condivisa del potere da parte del re e dell’aristocrazia, mentre al terzo stato non viene riconosciuto un peso determinante.

Al di là della Manica, nel frattempo, sono molti i teorici che considerano l’Inghilterra un regimen mixtum realizzato. Per costoro, insistere sull’eccellenza della combinazione delle tre forme di governo ottenuta in terra britannica vuol dire soprattutto opporsi con argomenti storici e dottrinali alle numerose istanze accentratrici dei fautori dell’assolutismo. Se, fino alla metà del XVII secolo, la riflessione politica inglese fa ricorso alla categoria della mistione principalmente allo scopo di veicolare l’idea che le monarchie nazionali debbano essere in un certo senso limitate, con James Harrington l’orizzonte teorico inizia a mutare: nella sua Oceana (1656), egli si avvale del lessico della mistione per prospettare il modello di «una repubblica egualitaria nei suoi possessi, dotata verso l’alto di un limite massimo consentito alla loro espansione, e perciò immune dalle lotte per la loro acquisizione o monopolizzazione» (p. 81). Entro tale quadro, Harrington ritiene che uno Stato possa essere quieto e armonico soltanto là dove un«Senato» proponga, un «Popolo» decida e una «Magistratura» esegua.

Qualche cenno conclusivo: la crisi dell’idea di governo misto

Non c’è dubbio che, a partire dai celebri attacchi mossi da Jean Bodin (nei Six Livres de la République, 1576) e da Thomas Hobbes (nel Leviathan, 1651) al concetto di regimen mixtum in nome dell’indivisibilità del potere sovrano, l’idea di mistione cominci ad essere spinta ai margini della concettualità politica. Nell’età dell’assolutismo trionfante, infatti, il governo misto diviene «una sorta di contraltare dialettico rispetto alla più significativa impresa della modernità politica, quella della sovranità, nel cui lessico è dato riconoscere la concettualità della giurisprudenza e della teologia politica» (p. 13).

Nel XVIII secolo sembra spegnersi completamente l’interesse residuo per il governo misto: da un lato, «il popolo, i molti, nell’indeterminatezza della loro condizione sociale», diventano «il tutto e non più una semplice parte del tutto, quando sulla scena politica compar[e] la nazione assumendo su di sé il peso e la titolarità della sovranità», cosicché «la mistione cess[a] di significare qualcosa nel lessico politico» e s’avvia rapidamente a scomparire; dall’altro, la lignée teorica che annovera Rousseau come uno dei suoi maggiori esponenti, elabora un’inedita «equiparazione tra governo ed esecutivo, con la stabilizzazione della moderna teoria della sovranità e la nascita del concetto di potere», spingendo così «verso il mondo di ieri lo stesso concetto di governo e delle sue forme» (p. 14).

Secondo Taranto, tuttavia, alcuni importanti aspetti del bagaglio intellettuale del governo misto rimangono ancora a lungo al centro del dibattito filosofico-politico. Non si può negare, per esempio, la sussistenza di un «rapporto, certo non lineare ma tuttavia esistente, tra la mistione e la divisione dei poteri, tra il pluralismo di cui essa sembra il più autorevole progenitore e la ‘moderazione’» (p. 15). Anche per questo, a suo giudizio, sarebbe errato negare alla storia della miktè politéia, invero ormai al tramonto, l’appartenenza della «prestazione intellettuale di Montesquieu nonostante il lessico delPrésident non sembri uscito dallo stesso conio da cui deriva quello della mistione» (p. 13).

Indice

Introduzione Parte I. La miktè politéia tra antico e moderno: dal “quartum genus” alla monarchia limitata
Il governo misto dall’antichità al Conciliarismo
I modelli della mistione nel pensiero politico italiano tra ’Quattro e ’Cinquecento
La mistione come forma dello Stato: Inghilterra e Francia tra ’Cinque e’Seicento
Parte II. Antologia


L'autore

Domenico Taranto insegna “Storia delle dottrine politiche” presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Salerno. È autore dei seguenti libri: Studi sulla protostoria del concetto di interesse, Napoli 1992; Pirronismo ed assolutismo nella Francia del ’600, Milano 1994; Le virtù della politica. Civismo e prudenza tra Machiavelli e gli antichi, Napoli 2003. Ha tradotto il De constantia di Giusto Lipsio, Napoli 2004. Ha scritto alcuni capitoli dell’Histoire raisonnée de la philosophie morale et politique. Le bonheur et l’utile, Paris 2001; i primi sei capitoli del Manuale di Storia del pensiero politico, Bologna 2001; numerose voci dell’Enciclopedia del pensiero politico, Roma-Bari 2005 (seconda edizione).

Links

Cicerón descuartizado, Cicerón en un fractal. Nota sobre el Republicanismo Contemporáneo”, articolo di Cristóbal Orrego, tratto da «Anuario Filosófico», vol. XXXIV (2001), pp. 395-432: on-line in
https://dspace.unav.es/retrieve/1416/ORREGO.doc (in spagnolo).

“Du gouvernement royal”, prefazione di Réginald Garrigou-Lagrange, O.P., a St Thomas d’Aquin, Élévations sur la prière au Cœur Eucharistique de Jésus Paris 1926: on-line in
http://www.salveregina.com/Philosophie/Du_gouvernement_royal_Garrigou.htm (in francese).

“Vico e la teoria delle forme di governo”, articolo di Norberto Bobbio che riprende temi già svolti nel volume – basato sul suo corso universitario dell’anno accademico 1975-1976 – La teoria delle forme di governo nella storia del pensiero politico, Torino 1976, pp. 117-132, e in una conferenza tenuta il 2 ottobre 1976, in occasione dell’inaugurazione dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli:
http://www.iisf.it/discorsi/bobbio/bobbio_vico.htm (in italiano).

4 commenti:

MAURO PASTORE ha detto...

Al vaglio di neutrale filosofia, politicamente non schierata, si rivela la ricostruzione storica di opera recensita in stessa recensione diversa da quanto mostrata da stessa recensione... Ciò significa che il recensore non per suo personalismo filosofico ma per soggettivismo culturale non ne illustra ma ne disanima direttamente, lasciandovi in essere però elementi originari che al neutrale vaglio si manifestano altra intellettuale oggettualità dalla oggettività intellettuale cui in recensione si fa riferimento non a sua volta oggettivo ma soggettivo.

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

L'autore non costruisce una concezione storica arbitraria, perché compone un quadro secondo pertinenze culturali riconoscibili; eppure di fatto tal riconoscibilità dipende da arbitrarietà politica, peraltro odiernamente estinta, di 'stampo' marxista-ex-marxista, prima della fine definitiva della Guerra Fredda in auge in Accademie ed al potere nelle facoltà universitarie (sì da costituire riferimento culturale dittatorialmente obbligato, fintantoché la componente, non partecipativa a Guerra stessa, di parte politica antitotalitaria ed anticomunista non ne ostracizzava gli effettivi poteri con Contestazione, autenticamente quest'ultima non essendo il fenomeno vantato dalle Sinistre politiche al potere ma una forma di legittimo bensì estremo rifiuto contro ogni arbitraria eccedenza e volontaria mancanza dei poteri politici scolastici universitari ed accademici, negazione prima impedente culturalmente-politicamente poi estromettente per azione politico-culturale, di cui si può capire vicenda ma purtroppo non si trova ancora immediata e non integrata possibilità o disponibilità di racconti — di fatto la Contestazione durò fino ad Anni Novanta del '900, distruggendo infine il potere del marxismo in politica, in Italia azzerando vertici del Partito Comunista e muovendone da interno trasformazione in altra entità politica di sinistra... quindi caduta Unione Sovietica (URSS) e dissoltosi PCI, il marxismo restava forza gregaria, già estromessa dal gramscismo nelle decisioni fondamentali ma in forza di clandestino stalinismo di fatto distruttivamente attiva anche dopo inizio fine Guerra Fredda e disastrosamente presente in stesso Dopoguerra 'Freddo' ma senza più monopolio di strutture politiche culturali) : una contrarietà che in declino rovinosamente lasciava condizioni culturali dimidiate e situazioni di subcultura variamente diffusa, con conseguenze in università e scuole specialmente, consistenti in perdite od oblii di patrimoni etnici e culturali, in mancanze di conoscenze di politologia e di politiche, in drammatica o tragica riduzione di nozioni storiche, riguardanti pure passato sovietico leninista non stalinista ma anche e più inerenti Medio Evo europeo e nazionale e afferenti Antichità in special guisa greca.
Quale viaggio culturale e filosofico tra rovine intellettuali ed incompletezze storiche, il pensiero di autore D. Taranto riesce interessante per reperire una concezione non invalidata degli eventi storici politici e filosofici passati (ovviamente) con maggior difficoltà a trovare il mondo passato dei non vinti in Europa che dei vinti; perciò la riflessione, necessariamente in Italia post guerra-fredda, sul "potere misto" in politica, evita che le passate opposizioni mosse da poteri non misti ed extraoccidentali poi non occidentali al potere costituito dell'Occidente e dell'Ovest del mondo lascino questi con le singole formulazioni della contromilitanza intellettuale che fu vincente. Ma il recensore, forse per prudenza dato che in anno 2007 non era stata ancora del tutto riconvertita ex Urss in altre entità politiche, introduce secondo sistema perdente; e così lascia in essere relazioni storiche fittizie, quali in particolare quelle tra realizzazione europea ed antica singola facoltà spartana, cui opera recensita 'La miktè politéia tra antico e moderno Dal “quartum genus” alla monarchia limitata' però fa effetto di previa-postuma smentita... Ma da anni 2006 e 2007 son accaduti eventi risolutivi e allora l'opera medesima decisamente va interpretata quale dialettica storica per non dialettici superamenti.

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

Considerando gli eventi storici a ritroso, dalle idee contemporanee di "divisione dei poteri" e "pluralismo" fino all'antica ellena ed ellenica "miktè politéia" — ne ho riportato espressione secondo stesso riferimento recensivo — non si ritrova, restando entro filosofica politica neutralità, alcun legame tra antica Sparta ed intera Europa politica, ritrovandosene rapporto intellettuale arbitrario ed impossibile a realizzarsi, per sapute o risapute o conoscibili differenze tra appartenenza particolare e rappresentanze possibili che sono in relazione sempre non diretta, date antropologica radicale differenza e non etnologica incompatibilità ma anche alterità etnica ed antropica possibile comunicazione non possibile comunanza antropica.
Questi dati non erano riconosciuti dalla subculturalità sottesa a medesima cultura marxista ed a questa ultima ed in questa ultima preponderante, dittatorialmente estesa da stesso marxismo a vastissimi importanti e fondamentali ambienti culturali italiani, europei, occidentali. Stante fine della dittatura marxista, stante intrinseca non ingerenza di alternativa intellettuale egemonica gramsciana, non vi sono impedimenti politicamente consistenti alla riacquisizione generalizzata delle distinzioni dimenticate.
Anche senza ricorrere a tale riacquisizione resta oramai insensata la arbitraria attribuzione di altra autorità all'assolutismo monarchico moderno poiché l'attribuirne odierno è o sarebbe senza le necessità generali della Guerra Fredda già del tutto finita. Tale arbitrio attributivo era un giudizio parziale e parzializzante cui non bastava smentire ma bisognava opporsi anche per sola descrizione di stesso giudizio e definirne parzialità e parzializzazioni era còmpito non solo culturale ma anche attiva militanza intellettuale - politica. Tal còmpito era stato assolto in Unione Sovietica anche da stesso Lenin e da leninismo in funzione di antistalinismo ed antitotalitarismo ed era anche del Regime cubano comunista per garanzia democratica, però in forme più estreme e compiute era prassi occidentale anticomunista. Oramai non è necessario prender parte a militanza per constatare e far notare che l'Età dell'Assolutismo in Europa non era anche di autoritarismi, che la suddivisione medioevale dei poteri, regali / bellici / popolari (internamente anche: nobiliari, artigianali, contadini; cavallereschi, marinareschi, cittadini... ed altre suddivisioni interne ancora potendosene e variamente comporre), era ancora del tutto attiva nei regimi assolutisti i quali avevano rovesciato i rapporti di potere tra cleri e fedeli in Europa Ovest e soltanto sottratto alla sovranità le ingerenze particolari attribuendone di massimamente generali.
Per il resto, le imitazioni assolutistiche, non essendo mutamenti di forme ma tentativi di estremizzazioni, non erano veri autoritarismi; codesti quali eccessi iniziati con istituzioni politiche ex o post napoleoniche, repubblicane, o democratiche. Abolendo il veto ingiustamente emesso dal totalitarismo marxista contro la storia europea ed occidentale, si può riverificare e verificare, verificare e riverificare, le formulazioni ed espressioni storiche imposte da marxismo ed ex marxismo e lasciate da post marxismo; tramite abbandono e non solo ideale del veto pervenendo ad utili e filosoficamente pertinenti diversificazioni-distinzioni-differenziazioni di realtà storiche.

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

Per non concomitanza ed in non coincidenza con prospetto recensivo e da assenza di giudizi storico-politici, si possono fare opportuni discernimenti:

1) A Venezia in tardo Medio Evo non c'era nessun popolo che fosse realmente tale ma solamente gente o genti;
2) Il paragone tra forme politiche repubblicane veneziane e antica forma politica spartana era utile per i risultati ottenibili ma non produceva alcuna omologia neppure oggettive analogie e dava solo soggettive ma provvisorie analogie secondo un vero e proprio pragmatismo ed esclusivo cioè il paragone stesso era da non considerarsi quale primo atto di ulteriori parallelismi intellettuali e filosofici bensì quale atto unico ma per fare distinzioni più nette;
3) Continuità tra potere spartano antico e poteri medioevali fu bizantina ed in particolare, precedente e per origini italo-greche non ellene né elleniche, amalfitana, non veneziana; inoltre essa non ineriva o non ineriva mai direttamente realtà urbane e realtà cittadine amalfitane; se ne trovava menzione non esplicita in resoconti storici ed esterni su varietà di origini in particolari politiche amalfitane, tra le quali vi si trovava a descrivere mondo spartano, che si notava in tal caso essere mai estraneo ad Italia;
4) Cicerone dava descrizione di forme politiche astratte secondo comparazione storica di grecità a romanità; viceversa Polibio nulla aggiungeva a triplice suddivisione aristotelica dei poteri ma ne riformulava ponendone in dubbio possibilità presenti e future e ne ritrovava entro idea politica di Roma non in presente e passato romani.

MAURO PASTORE