sabato 30 giugno 2007

Lukes, Steven, Il potere. Una visione radicale.

Milano, Vita e Pensiero, 2007, pp. 184, € 16,00, ISBN 8834313984.
[Ed. orig.: Power. A radical view, Macmillan, London-New York 1974, 20052.]

Recensione di Antonio Tursi – 30/06/2007

Filosofia politica

In The Manchurian Candidate di Jonathan Demme (Usa, 2004), il potere – quello vero, invisibile e irresponsabile – decide di costruirsi un candidato alla Presidenza del Paese indicato come unica superpotenza del mondo globale, gli Stati Uniti. ‘Costruirsi’ è qui letterale: al predestinato viene infatti impiantato un microchip che ne consente la manipolazione diretta e perfetta. Il potere visibile, quello del capo della superpotenza, viene in verità determinato da un potere più profondo e meno identificabile: anche il potente per eccellenza dei nostri giorni è dunque dominato. Figuriamoci quelli che potenti non lo sono, neppure prima facie. Questa profondità del potere, non sempre facile da cogliere, è l’oggetto di studio privilegiato da Steven Lukes di cui Vita e Pensiero pubblica la seconda edizione, ampliata da due nuovi contributi, dell’ormai classico Il potere: una visione radicale.
Precisiamo subito che rispetto al film evocato, la tridimensionalità del potere di cui parla Lukes non consiste affatto in un metodo così invasivo come l’innesto di un microchip. E neppure è dovuta all’azione intenzionale di qualcheduno. Proprio l’enfasi sul comportamento intenzionale di un agente nei processi decisionali, è anzi il primo elemento che Lukes critica rispetto alla visione uni-dimensionale del potere elaborata, tra gli altri, da Robert Dahl. Questi considera A avere potere su B “quando riesce a far fare a B qualcosa che B altrimenti non farebbe”. In questo caso, il potere corrisponde dunque al prevalere di una decisione in questioni chiave sulle quali è osservabile un conflitto tra preferenze politiche diverse.
Ma – osserva Lukes – non tutti arrivano ad elaborare preferenze politiche, non tutti sono attori nei conflitti, non tutte le questioni suscitano conflitto. A fare la differenza è la terza dimensione del potere. Il potere è tale se non si esercita nei soli processi decisionali, ma anche nel controllo dell’agenda delle questioni sulle quali prendere decisioni. Di più, il potere non ha neppure bisogno di decidere intenzionalmente tale agenda. Il vero potere è una capacità, non un esercizio effettivo. A chi domina si offre acquiescenza, anche senza che egli faccia qualcosa in particolare per garantirsi tale acquiescenza (minacce, sanzioni, mobilitazioni).
La terza dimensione del potere consiste, infatti, nell’influenzare o determinare i desideri altrui. “Riuscire a influenzare i desideri degli altri e garantirsi la loro acquiescenza tramite il controllo dei loro pensieri e desideri non è forse la prova di potere più lampante che esiste?” (p. 38)
Come si possono influenzare o determinare i pensieri e desideri altrui? “Il giudizio degli uomini può essere influenzato in molteplici e quasi incredibili maniere” osservava Spinoza, ma decidendo di farlo di punto in bianco neppure il più potente dei potenti vi riuscirebbe. Le strade per giungere a questo obiettivo sono infatti storicamente e socialmente lastricate. Il potere, nella sua tridimensionalità, si fonda su una naturalizzazione di quelle che sono invece forme di vita storiche: far passare come naturali abitudini, norme, costrizioni che sono in tutto e per tutto socialmente determinate – questa è la capacità del potere. Far sì che le donne si percepiscano come donne e formino di conseguenza il carattere femminile che le vuole subordinate all’iniziativa decisionale dell’uomo – questa è la schiavitù che John Stuart Mill denunciava nel Ottocento e che Martha Nussbaum rinviene ancora oggi in modo eclatante nelle donne indiane, la cui socializzazione al ruolo subordinato dura tutta la vita. Sottrarsi a questa profondità del potere è quasi impossibile.
Una impossibilità legata anche alla difficoltà di riconoscere i propri interessi reali. Difficoltà dovuta non semplicemente ad una falsa coscienza determinata da un’ideologia dominante (da sottolineare il confronto che Lukes istituisce con Gramsci), ma alla stessa molteplicità, conflittualità ed eterogeneità degli interessi degli attori sociali: per questo la falsa coscienza “è sempre incompleta e limitata” (p. 160). Proprio il riconoscimento della poliedricità degli interessi indebolisce però il tentativo di Lukes di rinvenire “una base empirica per identificare gli interessi reali” e lo porta ad utilizzare il metodo del controfattuale significativo: a cercare di rintracciare gli interessi chiedendosi cioè come gli agenti agirebbero se la situazione fosse un’altra. Un metodo questo che evidentemente si fonda su giudizi di valore, i quali delineano le caratteristiche della situazione altra, e che finisce spesso con l’attribuire agli attori interessi che essi non vogliono o comunque non possono riconoscere come propri.
Un metodo che, d’altra parte, serve a Lukes per riconoscere una qualche forma di coscienza agli attori sociali, poiché – per dirla ancora con Spinoza – “per quanto efficaci possano essere stati gli artifici usati in quest’opera di soggezione, non si giunse mai ad impedire che gli uomini si rendessero conto che ciascuno è in fondo ben dotato di una sua capacità di giudizio, e che tanti sono i modi di pensare quanti sono i gusti” (citato a p. 162).
Non è perciò del tutto impossibile sottrarsi alla profondità del potere.
Proprio questa capacità di resistenza apre, a livello teorico, uno iato con la “clamorosa esagerazione” di un certo Foucault e, a livello pratico, una prospettiva di emancipazione da un potere così profondo e radicato.
Lukes dedica ampio spazio in questa seconda edizione al confronto con il pensiero del filosofo francese. Ne distingue due fasi: la prima legata alla teorizzazione del potere disciplinare e del biopotere, la seconda al concetto di governamentalità. Mentre il primo Foucault è ultraradicale e arriva a cogliere il soggetto come mera costruzione prodotta dall’assoggettamento al potere e dunque come incapace di sottrarsi ad esso, il secondo invece riconosce che “il soggetto si autocostituisce in modo attivo attraverso le pratiche del sé”. Mentre la prima fase è interpretata come una esagerazione che empiricamente non trova riscontri e politicamente esclude qualsiasi possibilità di cambiamento dei rapporti di potere, la seconda invece si accorda all’impostazione dello studioso americano e garantisce dei margini di azione, la possibilità cioè di dissentire.
A nostro avviso, anche il primo Foucault potrebbe tornare utile a pensare, e ri-pensare, la profondità del potere contemporaneo. Oggi le cronache ci parlano sempre più di manipolazione dei corpi e la riflessione filosofica si incentra sempre più sulla biopolitica. Forse vale la pena di non escludere l’eventualità che i processi di socializzazione, che ci abituano a determinati desideri, passino anche se non in primo luogo dai nostri corpi, da quei grovigli irriducibili che ci costituiscono. Questo non comporta una determinazione lineare e irredimibile: da un lato, infatti, proprio la sedimentazione storica delle pratiche nel corpo oppone una certa inerzia a processi manipolativi intenzionali e puntali, dall’altro lato, questa stessa storicità non può tradire se stessa e farsi necessità, datità immutabile. Sicuramente però molte delle manifestazioni dei corpi devono qualcosa ai contesti nei quali hanno luogo: tali contesti generano o almeno favoriscono un certo modo di parlare, di stare in piedi, di camminare, di guardare ecc..
Lukes, riprendendo il concetto di habitus da Pierre Bourdieu, riconosce che “il tema dell’interazione tra la società e il funzionamento chimico, fisico e fisiologico del corpo, e in generale del rapporto tra il campo sociale e quello biologico, è affascinante e ancora poco conosciuto” (p. 153). Naturalmente, indagare il potere esercitato sui corpi, la sua ‘incorporazione’, non significa trascurare quelle che Lukes chiama “influenze culturali discorsive”, dalla socializzazione durante l’infanzia agli insegnamenti religiosi ai mass media. Ma proprio a Foucault dobbiamo il legame concettuale tra ordini discorsivi e corporeità.
The Manchurian Candidate, nella sua rappresentazione fantapolitica, solleva l’attenzione anche su questo, sul fatto cioè che il potere si eserciti sui corpi, passi attraverso di essi. Questo non da ora, evidentemente. Ma il connubio tra corpo e tecnoscienza del nostro presente può farci cogliere anche questo abisso del potere. E senza divenire consapevoli delle pratiche che iscrivono i nostri corpi, come parte dei processi di socializzazione a cui ci richiama Lukes, non si può sperare di cambiare le loro direzioni e i segni che ci tracciano addosso.

Indice

Ringraziamenti
Introduzione
I. Il potere: una visione radicale
II. Potere, libertà e ragione
III. Il potere tri-dimensionale
Bibliografia


L'autore

Steven Lukes (1941) è professore di Sociologia all’Università di New York; ha insegnato alla London School of Economics e all’Università di Siena. Membro della British Academy, è autore di numerosi saggi e articoli su temi di politica e sociologia. Tra le sue pubblicazioni recente: Moral Conflict and Politics (1991); Isaiah Berlin: tra la filosofia e la storia delle idee (1994); The Curious Enlightenment of Professor Caritat (1995); Multicultural Questions (1999).

lunedì 25 giugno 2007

Tamagnone, Carlo, La filosofia e la teologia filosofale. La conoscenza della realtà e la creazione di Dio.

Firenze, Clinamen, 2007, pp. 223, € 22,50 ISBN 9788884101013.

Recensione di Gualtiero Tacchini – 25/06/2007

Storia della filosofia, Filosofia della religione

Nell’opera si contrappongono due modi di fare filosofia: pensare a partire dai dati della scienza, inserendoli in una conoscenza più complessa, in una visione del mondo (che per l’autore è la filosofia tout court), e la ricerca del 'divino' inteso come causa primaria non fisica del mondo fisico, ciò che per secoli è stato chiamato 'filosofia prima' o 'metafisica' e che nel testo viene chiamato 'teologia filosofale'. Tale definizione è dovuta al fatto che, come la celebre pietra alchemica, questa attività di pensiero attraverso l’uso della logica compie un’operazione di carattere 'magico' in quanto "magicizza il linguaggio umano come strumento soprannaturale in grado di autotransustanziarsi (attraverso i suoi meccanismi e le sue definizioni e dimostrazioni) in strumento meta-fisico in grado di 'fondare' l’essere 'e i suoi correlati', in modo del tutto indipendente dallo studio della realtà che si offre all’osservazione, all’indagine e alla sperimentazione" (nota p.8).
Nella Prefazione e nel primo capitolo, Conoscenza della realtà e invenzione di una meta-realtà, Tamagnone mette in rilievo il tratto distintivo del teologo filosofale che è quello di porre l’idea di Dio come veritativa conoscenza primaria dalla quale bisogna partire per arrivare alla conoscenza secondaria, cioè quella che concerne la realtà materiale. Non è solo il caso delle religioni monoteistiche, la situazione rimane sostanzialmente immutata con tutte le forme storiche di panteismo e anche con tutti quei sistemi, anche laici o dichiaratamente atei, che pongono le fondamenta del fenomenico in qualcosa di diverso dal fenomenico. Si citano, per limitarsi all’età moderna, Descartes, Spinoza, Leibnitz, Kant, Hegel.
Nel suo sorgere la filosofia è vista come un tutt’uno con la scienza, ma tale unità viene messa in crisi dagli Eleati e poi distrutta da Platone che non solo rivendica alla filosofia l’indipendenza dalla scienza, ma le assegna spesso anche il compito di fissare i fondamenti procedurali cui la scienza dovrebbe attenersi. Questo significa che "la teorizzazione scientifica dovrebbe prodursi a partire non già dai 'dati' rilevati strumentalmente, ma piuttosto in base a una legge veritativa di carattere 'linguistico-formale' che fonderebbe ogni discorso teorico in generale." (p. 32). È il filosofo ateniese, con la sua abilità letteraria e dialettica, ad essere il referente fondamentale dell’operare filosofale dell’Occidente, destinato a dominare anche perché rispondente alle esigenze omeostatiche della psiche umana. Da Platone, perlomeno in questo ambito, non si discosta l’allievo Aristotele, soprattutto quando sostiene che la filosofia prima è vera scienza in quanto ha come oggetto l’essere in quanto essere mentre quelle che per noi oggigiorno sono considerate le scienze tout court hanno scarsa dignità conoscitiva in quanto hanno come oggetto l’essere come accidens.
Nel secondo capitolo, Il reale e il pensiero sul reale, si cerca di affrontare il problema della filosofalità nei diversi aspetti in cui si manifesta. Si asserisce la necessità di distinguere tra il reale e il pensiero sul reale contro la pretesa della teologia filosofale di elaborare modelli di realtà su base esclusivamente logico-dialettica per poi 'saltare' dal piano logico a quello ontologico senza mediazioni coinvolgenti la realtà stessa e i suoi dati per confermare la legittimità del procedimento. Il vero filosofo fa riferimento alla realtà mentre il teologo filosofale fa riferimento al pensiero sulla realtà nella convinzione che "il pensiero filosofico possa essere legittimato ad operare in mdo autoreferenziale e a prescindere da altre fonti di conoscenza." (p. 80). Di conseguenza "siccome il pensiero si esprime attraverso il linguaggio, si creano dei circuiti pensiero/linguaggio… grazie ai quali il pensiero crea linguaggio ma di ritorno il linguaggio crea pensiero." (p. 92). Le convenzioni linguistiche si pongono come filtro tra noi e la realtà ed è da questo filtro che nascono illusioni antropiche come il continuum spazio-temporale e la concezione dell’uomo come microcosmo rispecchiante il macrocosmo intero come gigantesco organismo vivente.
Argomento del terzo capitolo, La teologia dell’Uno-Tutto olistico, è il monismo olistico, espressione tipica della teologia filosofale che lo sostiene tuttora nonostante non vi sia "ombra di alcun elemento probatorio che autorizzi il ritenere che la struttura attuale della materia cosmica e del vivente siano il risultato inevitabile di un’unità olistica 'a priori' da cui sarebbe derivata una pluralità ontica 'a valle' riassorbibile nell’unità originaria." (p. 118). L’universo, diversamente dagli organismi biologici, non è un sistema complesso e organizzato ma disorganizzato e caotico e i suoi singoli costituenti obbediscono singolarmente alle leggi fisiche, non in funzione di un’organizzazione unitaria e globale. Tali concezioni monistiche sono alimentate anche da usi linguistici impropri tra i quali i casi più comuni concernono la luce e l’acqua. Persino l’unità della materia, non solo professata dalla metafisica ma anche data per scontata dal pensiero comune, è un’illusione.
Concezioni monistiche sono anche i panteismi, sistemi nei quali "le infinite differenziazioni derivanti dall’unità divina sono sempre ricomprese nell’Uno-Tutto che le ha originate e le informa." (pp. 134-135)
Il quarto e ultimo capitolo, Teologia della necessità, è dedicato al determinismo che è correlato costante del monismo e ha sempre un carattere teologico, anche in quelle concezioni che utilizzano la cogenza della necessità per escludere la volontà del Dio dei monoteismi. Infatti "gli orizzonti ontologici sono solamente due e diametralmente opposti. O l’universo ha avuto una nascita casuale e si evolve in modo e indeterministico e deterministico ("facendosi") in un divenire dove il caso genera il nuovo e la necessità lo fissa attraverso leggi conservative) oppure esso nasce da un 'disegno intelligente' e si evolve in modo pre-determinato; dominato completamente da una Volontà o da una Necessità, che gli hanno dato origine, struttura, informazione, ordine." (p. 168)
Strettamente unito al determinismo è il finalismo che è di norma considerato tratto distintivo delle concezioni religiose, ma per l’autore esso è presente in molte concezioni deterministiche non religiose e anche atee in quanto "in ogni determinismo è insita (esplicitata o meno) la convinzione che l’esistenza del cosmo sia 'bene', in quanto frutto 'positivo' della necessità. Necessitato ad essere rispetto al non-essere, cioè al nulla (che è negativo), esso è, quindi, 'bene', e ciò annulla ogni differenza tra determinismo e finalismo." (p. 171), sicché 'ateismo determinista' è una contraddizione in termini in quanto l’ateismo deve ammettere la realtà del caso perché esso solo esclude Dio in modo categorico.
Ammettere il caso non significa negare la causa ma rifiutare una consequenzialità fissata a priori, accettando sconnessioni, intersezioni e sovrapposizioni delle cause. Anche quando non è esplicitamente teologico il determinismo lo è sempre a livello intrinseco, poiché ogni teorizzazione della necessità assoluta conduce sempre ad intendere un 'disegno intelligente' e ciò implica sempre l’opera di una causalità extrafenomenica.
Per Tamagnone il determinismo nasce da cogenze della psiche e solo questo spiegherebbe la sua odierna sopravvivenza, seppure a costo di adattamenti forzosi e talora contraddittori, di fronte alle novità portate dall’evoluzionismo darwiniano, dalla meccanica quantistica e dalla biologia delle mutazioni genetiche.
Lo statuto concettuale non cambia nella teoria dell’auto-organizzazione deterministica della materia, cioè la tesi formativo-creativa del cosmo dell’autopoiesi che teorizza una tendenza "interna (naturale, intrinseca, strutturale) che spinge la materia ad organizzarsi in modo pre-organizzato e pre-ordinato." (p. 202) Al pari dell’eteropoiesi religiosa questa concezione nega che "l’evoluzione della materia possa essere un 'farsi' stocastico di mutazioni evolutive cui seguono leggi conservative 'per l’esistenza', come sostiene l’indeterminismo."(p. 202)

Indice

Prefazione
Conoscenza della realtà e invenzione della meta-realtà
 Il reale e il pensiero sul reale
La teologia dell’uno-tutto olistico
La teologia della necessità
Conclusione
Bibliografia
Indice dei nomi
Indice analitico-tematico


L'autore

Carlo Tamagnone si è occupato soprattutto del pensiero filosofico ateo ed è teorico del post-materialismo. Tra le sue opere principali. Necessità e libertà. L’ateismo oltre il materialismo (Clinamen Firenze 2004) e Ateismo filosofico nel mondo antico. Religione naturalismo materialismo atomismo scienza. La nascita della filosofia atea (Clinamen Firenze 2005).

sabato 23 giugno 2007

Ferretti, Francesco, Perché non siamo speciali. Mente, linguaggio e natura umana.

Bari, Laterza, 20071, pp. 200, 18,00 euro, ISBN 978-88-420-8265-1.

Chiara Conterno – 23/06/2007

Filosofia del linguaggio, filosofia della mente

Da sempre si cerca di scoprire se esistono delle proprietà che caratterizzano l’essere umano e lo distinguono dagli altri animali. Qualcuno indica la capacità di creare, l’autocoscienza, la stazione eretta. Ferretti ritiene invece che la peculiarità degli esseri umani sia il linguaggio. Analizzando il rapporto tra natura umana e linguaggio da una prospettiva cognitiva, Ferretti non può evitare di fare i conti con la teoria chomskiana.
Secondo Noam Chomsky il linguaggio è responsabile di una vera e propria differenza qualitativa tra animali umani e non umani. Ribadendo gli aspetti di unicità di cui, grazie al linguaggio, gli esseri umani godono, Chomsky giunge ad affermare che gli umani sono esseri “speciali” all’interno del mondo naturale. Presuppone così una distinzione verticale tra gli esseri umani, considerati superiori, e gli altri non umani, considerati inferiori.
Ferretti pone invece la riflessione su un piano orizzontale: tutte le specie si trovano allo stesso livello e ognuna è dotata di caratteri specifici che la rendono unica e diversa. Alla tesi della specialità, Ferretti oppone quella della specificità. Indagando la natura umana senza ipotizzare statuti speciali o speciali metodologie d’indagine, il lavoro di Ferretti si colloca in una prospettiva naturalistica. Inoltre, escludendo che gli esseri umani siano speciali, egli inserisce l’analisi della specificità degli umani in un quadro continuista. A suo parere il linguaggio determina alcuni tratti peculiari della natura umana senza però rompere il legame di continuità supposto dall’indagine naturalistica.
L’elemento che fa da punto di convergenza tra aspetti specifici e tratti condivisi della natura umana è l’intelligenza: si tratta di una proprietà che non è specifica del linguaggio, ma è una delle sue caratteristiche basilari. Secondo Ferretti, mostrare che l’intelligenza è uno dei tratti costitutivi della capacità linguistica, giustifica l’idea secondo cui il linguaggio rende l’essere umano specifico senza renderlo speciale. E proprio questo è lo scopo dell’autore. Per riuscirci Ferretti punta su una prospettiva in grado di coniugare specificità e continuismo.
Ricorrere all’intelligenza sembra interessante; essa deve però essere compatibile con una concezione modulare della mente e deve avere un ruolo importante nella genesi, nell’acquisizione e nella comprensione del linguaggio. Naturalmente, per fare ciò l’intelligenza deve essere considerata diversamente da come aveva suggerito Chomsky.
Nel primo capitolo Ferretti rifiuta la distinzione tra scienze della natura e dello spirito e si scaglia contro l’ipotesi dell’unidirezionalità del percorso di costituzione – dai fattori esterni a quelli interni – in quanto ciò presuppone il dualismo tra cultura e biologia, improponibile per chi tende ad una concezione unitaria dell’essere umano. L’unidirezionalità del modello standard viene qui sostituita da un doppio percorso costitutivo che prevede la mutua interazione fra fattori esterni e interni all’individuo. Il linguaggio, lo strumento che rende specifici gli umani, rappresenta il punto di convergenza delle spinte costitutive totali, in cui i fattori esterni sono tanto importanti come quelli interni. Ferretti insiste anche sui caratteri di flessibilità e creatività che caratterizzano gli umani. Tali caratteri sono dovuti alla natura plastica e indeterminata di cui gli umani dispongono sin dalla nascita. Flessibilità e creatività non sono inoltre in contrasto con l’ipotesi di costituenti interni ricchi e articolati. Anzi, soltanto presupponendo questi ultimi è possibile spiegare le caratteristiche che rendono intelligenti gli umani.
Nel secondo capitolo Ferretti esamina i pro e i contro della teoria chomskiana nel definire la natura umana. Ciò con cui egli discorda è l’idea che il linguaggio sia alla base della differenza qualitativa tra esseri umani e non umani. Soprattutto egli non accetta che tale differenza venga spiegata definendo il linguaggio un sistema autonomo e autosufficiente dagli altri sistemi cognitivi e, in primis, dall’intelligenza. Per controbattere tale asserto Ferretti si serve della concezione di Steven Pinker secondo il quale la comprensione del linguaggio implica uno sforzo cognitivo governato dall’intelligenza generale in tutta la sua potenza. A differenza di Pinker, però, Ferretti sostiene che questo sforzo cognitivo non avvenga soltanto in occasioni particolari, ma in ogni situazione di comprensione del linguaggio.
Il terzo capitolo affronta la spinosa questione del rapporto tra intelligenza e mente modulare. Per risolverla Ferretti invita a considerare l’intelligenza come la capacità in grado di stabilire un equilibrio adattivo tra sistemi di elaborazione in cooperazione-competizione tra loro. L’intelligenza è in grado di regolare il legame dell’organismo al mondo sociale e a quello fisico: io-tu-mondo, tre elementi in forte competizione, costituiscono una relazione triadica. Essi raggiungono un equilibrio adattivo grazie allo sforzo cognitivo guidato dall’intelligenza.
Il rapporto tra linguaggio e intelligenza è il tema centrale del quarto capitolo. Alla base dei processi di acquisizione e di comprensione del linguaggio vi sono i due tipi di intelligenza: quella sociale e quella ecologica. Il linguaggio dipende quindi dai sistemi concettuali che stanno alla base delle due forme di intelligenza. Si tratta di due sistemi concettuali in competizione tra loro: spetta all’intelligenza riequilibrare gli effetti della competizione per avviare i processi di acquisizione e uso del linguaggio.
Nell’ultimo capitolo Ferretti dimostra la coevoluzione di linguaggio e pensiero. Dopo aver ripetutamente ribadito la teoria della continuità e della dipendenza del linguaggio dal sistema concettuale, Ferretti si sente ora in dovere di dimostrare che alcune delle specificità cognitive che caratterizzano gli umani dipendono dal pensiero. Cerca inoltre di salvaguardare la tesi della specificità del linguaggio nella cognizione rimanendo fedele alla teoria continuista. La soluzione sta, secondo lui, nel fatto che il ruolo del linguaggio nel pensiero deve essere inteso come un “effetto di ritorno” e non come una relazione costitutiva di base. Ciò porta a due conclusioni: il sistema cognitivo su cui si basa il linguaggio accomuna umani e non umani; il linguaggio nel suo effetto di ritorno sul pensiero non inventa nulla, ma modifica ciò che è già organizzato dai sistemi concettuali posseduti. Il linguaggio possiede dunque sia elementi di comunanza, sia elementi di specificità. La co-evoluzione delle due componenti mostra che gli umani non sono così speciali come vorrebbero essere.

Indice

Introduzione
Il primato dei fattori esterni all’individuo
Uno sguardo dentro la “black box”
L’evoluzione dell’intelligenza
Intelligenza e linguaggio
Coevoluzione e natura umana
Bibliografia


Il curatore

Francesco Ferretti insegna Filosofia del linguaggio all’Università Roma Tre. E’ autore di saggi di filosofia della mente e del linguaggio. Tra le sue pubblicazioni si ricorda Pensare vedendo (1998). Ha curato varie opere, tra cui: La mente degli altri. Prospettive teoriche sull’autismo (2003); Mente e linguaggio, una raccolta di scritti di Jerry Fodor (2003); Comunicazione e scienza cognitiva (2005).

Links

giovedì 7 giugno 2007

Dorato, Mauro, Cosa c’entra l’anima con gli atomi. Introduzione alla filosofia della scienza.

Roma-Roma-Bari, Laterza, 2007, pp. 227, € 18, ISBN 978-88-420-8270-5.

Recensione di Silvano Zipoli Caiani – 07/06/07

Filosofia della scienza, Epistemologia

Il libro di Mauro Dorato rappresenta una risposta a coloro che ritengono che il sapere scientifico possa fare a meno della ricerca filosofica, proponendo a tal fine un ampio e lucido esame dei luoghi di contatto dove s’incontrano due inseparabili modalità d’interpretare il mondo. Un’introduzione tematica flessibile, adatta agli standard non solo del filosofo edotto, ma anche dello studente che per la prima volta volesse affacciarsi al dibattito epistemologico contemporaneo, per lo più ignorato dalla maggior parte dei percorsi liceali.

Domande come “può la scienza fornire conoscenza vera?”, “in che modo può la scienza fornire conoscenza?” e infine “cosa conosciamo effettivamente con la scienza?”, rappresentano le linee guida ai tre grandi temi affrontati all’interno del libro: spiegazione, esperienza e realtà. Tre argomenti attraverso i quali Mauro Dorato lascia emergere l’importanza della discussione filosofica rispetto ai problemi che affliggono, oggi più che in altre epoche, lo status conoscitivo delle discipline scientifiche e che riguardano da vicino il lavoro degli scienziati, nonché la loro percezione pubblica.

Ma facciamo un passo indietro e partiamo da un’altra domanda fondamentale: “di cosa si occupa la scienza?” Abbandonato il vecchio presupposto concernente la distinzione assoluta tra fatti e valori, la moderna riflessione sul sapere scientifico ha posto sul piatto della discussione nuovi temi, scombinando il solido assetto caratteristico dell’impostazione positivista. Che ciò abbia condotto a una più profonda comprensione del sapere scientifico è tutt’ora oggetto di discussione, certo è che oggi la scienza non è un fenomeno chiuso in sé stesso, essa è piuttosto contraddistinta da risvolti etici e sociali, evidenti non solo nella sua capacità di produrre effetti che riguardano la vita di milioni di persone, ma vivi anche all’interno del suo versante prettamente teorico. Nel momento in cui la scienza ha riconosciuto il proprio carattere pubblico, nonché il valore della discussione critica che la pone a stretto contatto con i più diversi atteggiamenti, valori e aspirazioni, essa si è scoperta un fenomeno culturale tra gli altri, il cui ruolo intellettuale necessita a sua volta di una giustificazione che solo una riflessione filosofica può concedergli.

I problemi che la conoscenza scientifica pone oggi al cospetto della filosofia sono molteplici. Non solo gli interrogativi riguardanti gli effetti che la scienza produce rispetto alla percezione dei valori sociali (per questo basti pensare al ruolo pubblico assunto dalla bioetica negli ultimi anni) ma anche problemi dotati di una più stretta pertinenza al processo di formazione del sapere scientifico, inteso sia come contesto metodologico dotato di una propria unità, sia come luogo di frammentazione disciplinare. Domande del tipo “che cos’è una legge di natura?” oppure “quando una teoria si definisce vera?” pongono al filosofo, così come allo scienziato, interrogativi che riguardano le basi stesse della conoscenza scientifica. Questioni che ruotano attorno ai fondamenti delle scienze, ai loro presupposti e metodi d’indagine, e che rappresentano i luoghi in cui la riflessione filosofica trova ancora lo spazio per lavorare a fianco della conoscenza scientifica.

La peculiarità del sapere scientifico è difesa da Mauro Dorato ribaltando alcuni dei più diffusi luoghi comuni che informano le ostilità verso di esso. Si tratta in primo luogo del pregiudizio secondo il quale la scienza non sarebbe in grado di fornire alcuna spiegazione, una condizione dovuta all’inadeguatezza delle leggi naturali di fronte alla comprensione di eventi, la cui ragione ultima resterebbe inesorabilmente celata ai metodi d’indagine scientifica. Del resto, come nota l’autore, sembra essere diffusa l’idea che la scienza non sia in grado di fornire alcuna comprensione completa dell’accadere degli eventi, lo spettro delle cause ultime, la costante presenza di fenomeni che non si lasciano ricondurre all’interno delle teorie più generali, spingono alcuni a ritenere che la scienza non spieghi ciò che veramente conta, che non abbia il potere di farlo e che dunque, in ultima istanza, non sia in grado di spiegare “niente”. Ciò mette in discussione il valore stesso della conoscenza scientifica. La sua impossibilità di rispondere con certezza a domande attinenti al fine ultimo dell’esistenza, al perché esiste qualcosa anziché il niente, condannerebbe la scienza allo status di un sapere di secondo piano, incompleta e per giunta incapace di fornire spiegazioni a ciò che molti considerano il più importante cruccio della conoscenza umana, la metafisica.

L’intento polemico nei confronti degli atteggiamenti anti-scientifici diviene per Mauro Dorato lo spunto utile a introdurre quelle che sono le reali prerogative del metodo scientifico, la sua effettiva portata esplicativa nonché la sua consapevole incompletezza. La ricognizione di Dorato muove dall’evidenza di alcuni dei più eclatanti risultati scientifici, spaziando dal campo della biologia a quello della fisica. Il valore causale di agenti batterici nel diffondersi delle epidemie, o il ruolo esplicativo della legge di Rayleigh rispetto all’osservazione del colore azzurro del cielo, rendono evidente la stretta connessione tra teorie scientifiche e processi di comprensione, ribadendo l’aspetto conoscitivo dell’impresa scientifica.

In questo frangente l’autore non tralascia di sottolineare il carattere contestuale della spiegazione. La maggiore o minore capacità di soddisfare le richieste di comprensione provenienti da più parti è associata da Mauro Dorato alla quantità d’informazione di cui ogni soggetto dispone, nonché al tipo di assunzioni riconducibili all’idea stessa di spiegazione. Credere che la scienza rappresenti un modello esplicativo universale, applicabile in modo identico in ogni suo ambito, tralasciando le radicali differenze che si rivelano al passaggio da un contesto all’altro, risulta dunque il frutto di un atteggiamento ingenuo.

La consapevolezza del ruolo dei giudizi di valore nella costruzione del sapere scientifico aiuta a comprenderne l’aspetto frammentario e contestuale. Ciò ne rivela il carattere pragmatico, ovvero la dipendenza da una costellazione precisa di assunzioni di sfondo, scoprendo con ciò il fianco alle accuse di soggettivismo epistemico che ne renderebbero vana ogni aspirazione conoscitiva.

Il problema dell’oggettività della conoscenza è dunque un ulteriore tema con il quale il libro di Dorato si confronta. La perdita di fiducia nel valore dell’impresa scientifica, che contraddistingue una parte della cosiddetta “nuova filosofia della scienza”, trova proprio nel carattere contestuale delle spiegazioni un elemento determinante. Nel libro Dorato lascia spazio alle motivazioni che nel corso degli ultimi cinquant’anni hanno portato alla ribalta i vari relativismi di stampo storico, metodologico e sociale (si pensi a Kuhn, Feyerabend e Rorty), riservando al contempo un attento esame delle perduranti possibilità che spingono a considerare ancora interessante l’assegnazione di una certa indipendenza alla conoscenza empirica. La ricerca di un’invarianza tra le molteplici forme di naturalità che la scienza consegna alla storia, in alternativa a una dissoluzione relativistica dei saperi (per molti addirittura soggettivistica), è una sfida che l’autore considera ancora valida, un atteggiamento che traspare sapientemente nel corso del libro senza lasciare mai incompleto il panorama delle diverse posizioni che costellano il dibattito filosofico.

Il problema dell’oggettività riguarda da vicino anche la comprensione del metodo scientifico, il suo “come”, in grado di assicurare quel carattere conoscitivo che contraddistingue l’intento dell’impresa scientifica. Negli ultimi anni l’importanza del dibattito attorno alla natura delle assunzioni metodologiche si è presentato sotto forma di contrapposizione tra differenti interpretazioni e pratiche, siano esse di stampo marcatamente teorico, come nel caso del principio di significatività promosso dalla prima fase del neo-positivismo, oppure connotate da importanti risvolti sociali, come nel caso del confronto tra medicina tradizionale (occidentale) e omeopatia.

Si tratta qui di comprendere il ruolo chiave dell’esperienza all’interno della pratica scientifica, nonché la sua fondamentale importanza nel processo di costituzione delle credenze. Mantenendo le distanze da forme di scientismo e di esaltazione metodologica, Dorato introduce il lettore ai fondamentali temi riguardanti il ruolo e la trattazione dei dati sperimentali, lasciando spazio alla duplice articolazione definita dalle metodologie ipotetico-deduttiva e statistico-induttiva.

Emergono così le questioni relative alla verificazione delle asserzioni promosse in ambito teorico. L’impossibilità di compiere in ogni occasione osservazioni dirette delle entità e dei processi permette a Dorato d’introdurre i limiti delle concezioni riduzioniste incarnate dal verificazionismo neo-positivista, ma anche le difficoltà del falsificazionismo popperiano, portando all’attenzione del lettore la non eliminabilità delle entità teoriche e dunque il valore esplicativo ad esse associato.

Proprio il riferimento ai termini teorici, rappresentati ad esempio dalla nozione di particella in fisica o da quella di evoluzione in biologia, conduce alla definizione dell’ultimo gruppo di problemi affrontati nel libro. L’autore riserva i capitoli finali all’analisi di uno dei più affascinanti temi di filosofia della scienza, introducendo le difficoltà relative all’identificazione di ciò di cui parlano le ipotesi che consideriamo conoscitive, ovvero i problemi del riferimento semantico, della verità e della realtà delle nostre migliori teorie scientifiche. Mantenendo sullo sfondo la progressiva riscoperta della dimensione contestuale e la conseguente svalutazione dell’oggettività del sapere, Dorato traccia una rassegna delle maggiori posizioni assunte in merito alla natura dei riferimenti teorici. Trovano spazio atteggiamenti anti-realistici, come nel caso dello strumentalismo e del costruttivismo, ma anche atteggiamenti di segno opposto, attenti alla salvaguardia del valore ontologico delle migliori descrizioni scientifiche. Il valore metafisico della conoscenza, il suo essere in grado di ancorarsi a una realtà che supera il dominio dell’esperienza, emerge infine come una delle prospettive più feconde, in grado di rendere comprensibile il successo fattuale della metodologia scientifica.

Il libro di Mauro Dorato ha il merito di delineare una panoramica esauriente sui maggiori temi d’indagine che caratterizzano oggi l’indirizzo di una disciplina complessa come la filosofia della scienza. L’autore non nasconde certo la preferenza per un percorso d’analisi che salvaguardi il carattere oggettivo e realistico del sapere scientifico, ciò però senza arrecare disturbo all’equilibrio dell’opera e soprattutto alla sua missione introduttiva.

Indice

Scienza e filosofia della scienza
Tre luoghi comuni sulla spiegazione scientifica
Perché le cose sono come sono? Modelli di spiegazione a confronto
A chi e a che cosa dobbiamo credere? Ipotesi scientifiche ed evidenze esplicative
Che cos’è una teoria scientifica?
Il mutamento delle teorie e il realismo sulle entità
Scienza e verità


L'autore

Mauro Dorato è professore ordinario di filosofia della scienza all’Università degli studi di Roma Tre. Tra le sue numerose pubblicazioni: Time and reality (1995), Futuro aperto e libertà (1997), Il Software dell’universo (2000), con V. Allori, F. Laudisa, N. Zanghi La natura delle cose (2006).

martedì 5 giugno 2007

René Girard – Gianni Vattimo, Verità o fede debole? Dialogo su cristianesimo e relativismo.

Massa, Transeuropa, 2006, pp. 98, € 10,00, ISBN 88-7580-018-9.

Recensione di Ottavia Spisni -05/06/2007

Filosofia teoretica (Ermeneutica)

Il testo offre un intelligente esempio di dialogo nella migliore tradizione filosofica tra intellettuali impegnati a livello civile, sebbene ognuno mantenga di fronte all’altro la propria levatura intellettuale e dunque tutta l’autonomia del proprio percorso di pensiero: da un lato cristianesimo, dall’altro relativismo. Si pensi a come Platone ci parla di Socrate, ma si pensi soprattutto alla ‘fusione degli orizzonti normativi’ di Gadamer la quale opera attraverso lo sviluppo di nuovi vocabolari comparativi attraverso i quali possiamo articolare i contrasti che sorgono necessariamente quando si tenta di dialogare – tra individui come tra culture.
Verità o fede debole, dunque. Il titolo del libro vorrebbe sottolineare la necessità di una scelta, di una presa di posizione fra laicismo e religione, sebbene sia probabilmente l’intero dialogo ad avere la più importante valenza ermeneutica. Esso è quindi un modo di concepire l’interpretazione e dunque può assumere la valenza di esempio civile e morale per il dibattito filosofico e anche per il dibattito pubblicistico contemporaneo.
Il libro raccoglie alcune discussioni intercorse tra Vattimo e Girard in varie occasioni. La prima discussione ha il titolo di ‘Cristianesimo e modernità’ (pp. 3-27) ed ha avuto luogo a Pordenone il 25 settembre 2004. La seconda ha il titolo di ‘Fede e relativismo (pp. 29-45) e si è svolta a Falconara il 10 marzo 2006 nella giornata di studi su René Girard tra scienze sociali e teoria letteraria, nell’ambito di un convegno di studi su ‘Identità e desiderio’. Il terzo dialogo ha il titolo di ‘Ermeneutica, autorità, tradizione’ (pp. 48-61) e si è tenuto presso lo Humanities Center della Stanford University il 12 e 13 aprile 1996. Questo dialogo fa esplicito riferimento al saggio di Vattimo ‘Girard e Heidegger: kénosis e la fine della metafisica’ il quale viene pubblicato subito di seguito (pp. 64-73). Segue un saggio di Girard (pp. 76-98) dal titolo ‘Non solo interpretazioni, ci sono anche i fatti’.
Il punto di partenza che rende possibile l’intero dialogo è un comune terreno interpretativo di base: la secolarizzazione, la modernità, e dunque il laicismo con tutte le sue propaggini (democrazia, libero mercato, diritti civili, libertà individuali, e via dicendo) sono prodotti del Cristianesimo (p. 3). Per Girard il Cristianesimo è il principio di destrutturazione di tutti i culti arcaici e mitici, e in questo senso esso demistifica la violenza su cui essi si ergevano. È con il Cristianesimo per la prima volta nella storia che la vittima è riconosciuta innocente come tale. Il meccanismo mimetico è un concetto cardine nell’analisi girardiana dell’essere umano. La violenza non è che la conseguenza dell’operare del desiderio mimetico appartenente ad ogni essere umano. Se il significato di sacro nelle società pre-cristiane è ciò che deve essere tenuto separato, Girard definisce il religioso (ne La violenza e il sacro) come il togliere l’ostacolo che oppone la violenza alla creazione di qualsiasi società umana, e l’unico modo per togliere l’ostacolo è la violenza sacrificale del ‘tutti meno uno’ che colpisce il capro espiatorio (p. 4). Per Girard è dunque valida l’ipotesi che vede nel linciaggio sacro e nell’assassinio fondatore l’origine della polis come della società umana. Il Cristo riesce a mettere in scacco il desiderio mimetico proprio perché espone il meccanismo persecutorio, dichiarando la propria innocenza: risiede in questa verbalizzazione la differenza con tutta la tradizione precedente (p. 5). È proprio per questo motivo che Girard può affermare che Nietzsche è il più grande teologo dopo San Paolo: la ‘morte di Dio’ altro non è che un testo di persecuzione, un testo che vorrebbe celare la radice ultima delle cose: il meccanismo mimetico (p. 51). Il testo di persecuzione, portando fino in fondo la carica violenta, non fa che svelarla: "D’ora in poi non possiamo più far finta di non sapere che l’ordine sociale viene costruito sulla pelle di vittime innocenti. Il Cristianesimo ci priva di quel meccanismo che stava alla base dell’ordine sociale arcaico, introducendoci in una nuova fase della storia dell’uomo. Una fase che possiamo legittimamente chiamare ‘moderna’" (p. 6). Vattimo declina filosoficamente il pensiero di Girard sulla scorta della meditazione heideggeriana sulla fine della metafisica (p. 58), dell’oblio della differenza ontologica (p. 66), del primato dell’ente rispetto all’essere (p. 69) e della necessità di una nuova domanda sull’essere (Ereignis): "Io cerco di sviluppare un’interpretazione di Heidegger che prenda sul serio la nozione negativa dell’Essere, come una sorta di teologia apofàtica, e non il fatto che l’Essere esista lì fuori" (p. 61). Dalle premesse letterarie e antropologiche di Girard, Vattimo giunge a queste considerazioni: "La storia stessa del Cristianesimo è la storia –io credo ancora cattolicamente assistita dallo Spirito Santo – della dissoluzione degli elementi di violento naturale, di sacro naturale che ci sono nella Chiesa" (p. 8). Nella prospettiva di Vattimo ‘la morte di Dio’ altro non è che incarnazione, kénosis, uno svuotamento della potenza trascendentale di Dio, un suo indebolimento, che ci ha condotti alla destrutturazione di tutte le verità ontologiche che hanno caratterizzato la storia. "La parola chiave che ho cominciato a usare dopo aver letto Girard, è proprio secolarizzazione, come effettiva realizzazione del Cristianesimo quale religione non sacrificale. E in questa direzione io mi spingo oltre vedendo molti dei fenomeni apparentemente scandalosi e “dissoluti” della modernità come positivi [...]. Il Cristianesimo è finalmente la religione che apre la via a un’esistenza non strettamente religiosa, nel senso dei legami, dell’imposizione, dell’autorità – e qui potrei riferirmi a Gioacchino da Fiore, che ha parlato di una terza età della storia dell’umanità e della storia della salvezza nella quale emerge sempre più il senso 'spirituale' della Scrittura, e la carità prende il posto della disciplina" (pp. 8-9). È a questo punto evidente il diverso assunto dei due pensatori: Girard alla luce della griglia interpretativa del meccanismo mimetico, sostiene un’antropologia di posizione anti-relativistica. Di contro, Vattimo, destruttura tutte le pretese di definizione ‘naturale’, universale, immutabile di cosa sia l’uomo, denunciando che asserire l’esistenza di una ‘natura umana’ per sempre data altro non è che strumento di imposizione coercitiva da parte del potere (qualsiasi esso sia) (p. 13). Il punto cardine del dialogo è il seguente: il meccanismo vittimario e mimetico è qualcosa di inscritto nella natura o è forse un prodotto delle istituzioni? (p. 9). Questo significa che possiamo cambiarlo e che possiamo agire proprio per tentare di ridurre la violenza insita nell’autoritarismo delle strutture rigide imposte: Vattimo dice che: "C’è una violenza all’origine della storia, che è l’autoritarismo, il non rispettare l’altro come me, non volergli bene. Tutto questo è l’origine del male" (p. 26). "Personalmente, concordo con Vattimo quando dice che il Cristianesimo è una rivelazione dell’amore, ma non escludo che sia anche una rivelazione di verità. Perché nel Cristianesimo verità e amore coincidono, sono la stessa cosa" (p. 27). Se per Girard violenza è l’assassinio fondatore, per Vattimo violenza è l’autoritarismo. Girard sembra suggerire che l’unica possibilità di liberarsi dal meccanismo mimetico è attraverso la rinuncia al mediatore umano e la conversione verso la trascendenza verticale, non più mediata. La conversione avviene sempre accanto alla possibilità della morte. È esemplare la frase del Vangelo di Giovanni che recita: "Se il granello caduto in terra non muore, rimane solo; ma se muore, darà molto frutto". Vattimo prosegue: "Se invece chiamiamo trascendenza la charis, la grazia, l’intervento di una illuminazione, allora potrei accettare questa prospettiva. In un certo senso c’è un elemento di 'trascendenza' nella storia, perché se qualcosa di nuovo accade nel suo corso, questo può essere definito come una forma di trascendenza della storia stessa" (p. 61). Con questo concetto non solo si esce da quella svolta soggettiva della cultura moderna per cui arriviamo a pensare noi stessi come dotati di profondità interiore, in continuità con la strada aperta da Sant’Agostino per il quale il cammino verso Dio passava per la nostra autocoscienza, ma si esce definitivamente da una concezione mentalistica del significato, per cui non solo non esistono linguaggi privati (Dewey, Quine), ma l’unico significato che può assumere il linguaggio è quello di ‘mettersi d’accordo’. In questo senso il dialogo si fonda sulla caritas, concetto che non si pone a fondamento o a fondazione di alcunché. "La mia obiezione e la mia idea è che con il Cristianesimo possiamo davvero dire 'grazie a Dio sono ateo', cioè grazie a Dio non sono idolatra, grazie a Dio non credo che ci siano leggi di natura, non credo che ci siano delle cose oltre cui non si può andare. Credo solo che debbo amare Dio sopra ogni cosa e il prossimo come me stesso" (p. 14). Per Vattimo (sulla scia della lezione heideggeriana per cui l’interpretazione altro non è che l’articolazione di una possibilità), l’essere è plus ultra, è apertura dell’esistente verso un’ulteriorità, verso nuove possibilità dell’essere. Pertanto, la critica dell’esistente è possibile comprendendolo come storico (p. 15). Qui leggiamo la lezione di un certo hegelismo, per cui pure l’Illuminismo ha sdogmatizzato la società e la religione stessa (Lezioni sulla filosofia della storia). La proposta vattimiana è di ammettere che c’è un’essenza dinamica e rivelativa nello stesso Cristianesimo, ma che questa altro non è che ‘il fine della storia’ (Vattimo ha studiato con Löwith, il teorico della secolarizzazione, e colui che ha posto l’accento sulla centralità del pensiero della temporalità, anche in Nietzsche), altro non è che ridurre i limiti, per cui Gesù è venuto agli uomini per svelare soltanto l’amore verso Dio e verso il prossimo, altrimenti la Chiesa sarà ancora religione naturale e vittimaria: "Io dico sempre che l’etica è semplicemente la carità più le leggi del traffico. Io rispetto le leggi del traffico perché non voglio fare fuori il mio prossimo, e perché devo amarlo. Ma pensare che passare col rosso abbia qualcosa d’innaturale è ridicolo" (p. 16). Per Vattimo la storia del Cristianesimo (processo di secolarizzazione, di liberazione dalla religione) è dunque la storia del nichilismo, e questo processo di secolarizzazione va difeso come elemento di dinamicità della religione cristiana. Vattimo vorrebbe quindi che le teorie girardiane de La violenza e il sacro si spingessero fino alla secolarizzazione, ossia alla consunzione, proprio in virtù dell’accettare tutte le premesse che sono insite nel suo ragionamento sul Cristianesimo inteso come religione della rivelazione del meccanismo vittimario, e quindi come religione che decostruisce dall’interno le strutture rigide imposte dalla storia, comprese le nozioni di Verità e di Natura. Dalla veritas alla caritas, dunque. Vattimo inoltre ricorda l’importanza della teoria di Bergson (Le due sorgenti della morale e della religione) che vuole l’emozione originale o mistica come punto di partenza per un’azione nel mondo, e auspica proprio un approdo delle religioni a questa fase mistica e dunque ad un arrivo comune che guardi a tutta l’umanità e non più all’interesse particolare (p. 21). Girard di contro, sostiene la propria difficoltà ad accettare questo non porre limiti, perché a suo avviso esso va nella direzione opposta all’etica, e auspica la rilettura interpretativa del testo Sacro. La Chiesa traspone il meccanismo sacrificale in un ordine simbolico ma non può eliminarlo, e Girard ammette esplicitamente che la dimensione punitiva del cristianesimo è ineliminabile. Il meccanismo vittimario va svelato ma va anche mantenuto per arginare la violenza (c’è qundi una difesa della Chiesa come istituzione-guida). Per Vattimo questo svelamento, al contrario, riduce i meccanismi istituzionali perché li riconosce quali violenti e impositivi.
A questo punto ci si chiede: come si può conciliare l’universalismo con il relativismo? Il relativismo, dunque, è un problema sociale, perché esso esplicita la possibilità di ammettere una pluralità di posizioni. Si tenta dunque di vedere se ci possa essere una conciliazione tra universalismo antropologico e relativismo multi-culturale (p. 29). Il problema si sposta dal piano ontologico al piano sociale e culturale. Il problema del valore della verità si pone generalmente in opposizione al relativismo. È possibile che non ci sia la verità? Per Vattimo dirsi relativista significa che non credi nel valore della verità, nel senso che dici la tua verità come fatto pubblico e rispetti la verità degli altri. Non c’è più una contemplazione passiva della verità e non vale più il detto ‘amicus Plato sed magis amica veritas’, (p. 30) ma c’è l’assunzione di un atteggiamento ermeneutico. Girard al contrario afferma di non poter essere relativista (in questo senso, dunque, di non poter privarsi del valore di verità), proprio in virtù del meccanismo mimetico, per cui "se si comprendesse che Gesù è la vittima universale venuta apposta per superare questi conflitti, il problema sarebbe risolto" (p. 31). Vattimo a questo punto cita un’intervista in cui Ricoeur, alla domanda se fosse relativista, rispose con le parole di Lutero ‘Hier bin Ich’, che significa ‘io qui stò’, e questo a conferma del fatto che probabilmente non esiste una persona che possa dire davvero che tutte le teorie hanno lo stesso valore. Il punto è pertanto un altro: "Allora sospetto che oggi una gran parte della polemica contro il relativismo –non dico da parte di Girard – sia una polemica contro il liberalismo della società: solo una società liberale può essere relativista perché deve ammettere diversi tipi di opinioni" (p. 32). L’unica forma di verità, è dunque per Vattimo, è questa: "Si capisce che è ancora possibile parlare di verità, ma solo perché nell’accordo abbiamo realizzato la caritas" (Ibidem). La verità, dunque, sopravviene quando ci siamo messi d’accordo, pertanto il problema del relativismo è sociale più che individuale. A ben vedere, il problema stesso del pluralismo culturale e della tolleranza religiosa e della scissione tra religione e politica è nato e si è sviluppato all’interno della cultura occidentale. Il dialogare sulla secolarizzazione e sulla laicità non è, pertanto, fine a se stesso: probabilmente è proprio su questo piano che l’eredità della tradizione giudaico-cristiana può accogliere le altre religioni: ancora, il dialogo che si fonda sulla caritas, sul mettersi d’accordo. E questo proprio in virtù della lezione heideggeriana che vuole l’essere come un lungo addio, per cui un pensiero non metafisico (An-denken) deve "permettere all’Essere come fondamento di andare" (p. 70). Il termine kénosis dunque è per Vattimo la parola adatta ad associare l’idea della rimemorazione che non vuole ripresentare l’Essere e la metafisica, e la dissoluzione della violenza del sacro ad opera delle Scritture (p. 71).

Indice

Introduzione
Cristianesimo e modernità
Fede e relativismo
Ermeneutica, autorità, tradizione
Girard e Heidegger: kénosis e fine della metafisica
Non solo interpretazioni, ci sono anche i fatti

Gli autori

Gianni Vattimo è nato nel 1936 a Torino, dove ha studiato con Luigi Pareyson e si è laureato in Filosofia nel 1959. Ha conseguito la specializzazione ad Heidelberg, con Karl Löwith e Hans Georg Gadamer di cui ha introdotto il pensiero in Italia. Nel 1964 è stato professore incaricato e nel 1969 ordinario di Estetica all'Università di Torino. Dal 1982 è ordinario di Filosofia teoretica presso la stessa università. Ha insegnato come visiting professor in varie università degli Stati Uniti. Tra le sue opere ricordiamo: Il soggetto e la maschera, Bompiani, Milano, 1974; Le avventure della differenza, Garzanti, Milano, 1980; Credere di credere, Garzanti, Milano, 1996; Non essere Dio. Un'autobiografia a quattro mani, con Piergiorgio Paterlini, Aliberti, Reggio Emilia, 2006; Ecce comu. Come si ri-diventa ciò che si era, Fazi, Roma, 2007.

René Girard è nato nel 1923 ad Avignone, è critico letterario ed antropologo. Dal 1943 al 1947 ha studiato presso l'École des Chartes a Parigi, e si specializza in Storia medievale. Nel 1947 vince una borsa di studio universitaria negli Stati Uniti. Ottiene il dottorato in storia nel 1950 all'Università dell'Indiana e comincia a insegnare letteratura. Insegnerà poi letteratura all’Università di Stanford dal 1981. Il 17 marzo 2005 è eletto membro dell'Académie française. Tra le sue opere tradotte in italiano ricordiamo: Menzogna romantica romantica e verità romanzesca, Bompiani, Milano 1965; La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1980; Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Adelphi, Milano 1983; Il capro espiatorio, Adelphi, Milano 1987; Il risentimento. Lo scacco del desiderio nell'uomo contemporaneo, Raffaello Cortina editore, Milano 1999; Il pensiero rivale. Dialoghi su letteratura, filosofia e antropologia, Girard René, Transeuropa (Ancona), 2006.

Links

Link da cui scaricare le videoconferenze: 
Home page di Gianni Vattimo: http://www.giannivattimo.it/
Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche su Gianni Vattimo, con interviste, aforismi, articoli: http://www.emsf.rai.it/biografie/anagrafico.asp?d=225
René Girard all’Académie Française: 

Antiseri, Dario, Idee fuori dal coro.

Roma, Di Renzo, 2004, pp. 122,  € 10,50, ISBN 8883231031.

Recensione di Paolo Moretti – 05/06/2007

Etica

Nel campo di coloro che cercano la verità non esiste alcuna verità umana. Chiunque tenti di fare il magistrato viene travolto dalle risate degli dei”. Questo pensiero di Albert Einstein, richiamato nel primo capitolo dell’opera, è il sestante del marinaio che voglia immergersi nella lettura dell’ottimo testo di Antiseri. Un testo in cui continuamente si afferma, con garbo, che quello che conta è sempre il saper pensare alla complessità del mondo senza cadere in riduzionismi e semplificazioni, in preconcetti e ideologismi. Insomma, un saper pensare che diviene un metodo per porre domande prima ancora di essere lo strumento con cui dare risposte. Antiseri raccoglie nel suo testo una serie di lavori preparati negli anni, in cui il lettore trova continuamente occasione per misurarsi con un pensiero che pur indagando le questioni più scottanti del nostro presente, quali i temi affrontati nel corso delle pagine del libro che spaziano dalla “competizione” dei mercati al concetto di “sussidiarietà”, dalla “società aperta” alle idee di “individualismo” e “collettivismo”, dalla “ragione” alla “fede”, dalla “informazione” alla idea di “servizio pubblico”, offre spunti e prospettive originali che aiutano la comprensione dei problemi che affronta. L’Autore evita però di proporre soluzioni preconfezionate e suggestive ai quesiti che si pone. Il lettore si può trovare innanzi ad affermazioni che dichiarano che la filosofia è scomparsa, ma che “non è la scienza a dirci quello che dobbiamo fare”. Sottile è così l’artificio adottato dall’Autore per ricondurre la capacità del pensiero umano al proprio limite, che è limite conoscitivo in relazione all’oggetto indagato dalla volontà del sapere e del voler comprendere.
In maniera analoga, ci rammenta che “ciò che oggi noi chiamiamo fatto, ieri era una teoria”, e poi, di nuovo, ricorda che il Rinascimento non esistette finché Jules Michelet non lo inventò. L’inventare ed il conoscere dell’uomo sono aspetti del processo di indagine del mondo che non possono essere intesi in contrapposizione, ma solo in sintesi, ove la fantasia è motore dell’umana tensione verso la conoscenza e metodo dell’umana possibilità del conoscere: ecco cosa è il filosofare di Antiseri. Un filosofare che tende alla verità, come ideale etico, regolativo, del procedere della ricerca scientifica, ed anche un filosofare che accetta nelle sue teorie la “logica della discordia” per poter approdare ad una verità filosofica, che è quindi “vera” solo se “criticabile”. Mai quindi verità assolute, tuttavia persuasione che il saper pensare porti ad una qualche valida verità, purché non la si ammanti di tracotanza, di superbia. Purché si rifugga dalla tensione che induce verso l’aberrante forma di sapere cui tende tante volte la natura umana quando, carica di hybris, manifesta la potenza del pensiero, distorcendolo, assolutizzandolo.
Anche la ragione nell’etica si compiace della propria assenza di verità. “L’etica non sa. L’etica non è scienza. L’etica è senza verità”, ci ricorda Antiseri. Non esistono spiegazioni etiche, esistono solo limitate spiegazioni scientifiche, e limitate spiegazioni filosofiche. E quindi, allora l’etica a cosa serve? Risponde con sicurezza e disincanto l’Autore a tale importante domanda, ricordando che l’etica serve, eccome. Serve ad eliminare i disaccordi di atteggiamenti che trovano la loro origine nei disaccordi di credenze. Serve a rendere l’uomo responsabile, perché pone nell’uomo la responsabilità delle scelte; perché l’uomo, in fin dei conti, si misura sempre coi risultati delle proprie azioni. Risultati concreti, che non possono misurarsi coi soli criteri dell’intenzione, perché altrimenti le conseguenze non volute, inintenzionali, contrarie agli scopi intesi e voluti nell’azione umana, a chi possono venir imputate? Solo l’uomo è mezzo e fine delle proprie azioni e del proprio pensiero: all’uomo tutta la sua responsabilità.
L’autore ci porta per mano, passo dopo passo, a porci domande ovvie per condurci innanzi a risposte non scontate. Molte volte ci si trova addirittura davanti a risposte che non vogliono rispondere in senso dogmatico. Come quando capita di leggere il saggio sulla oggettività dell’informazione. Antiseri inizia a raccontare che l’informazione è come un animaletto strano, con due teste, l’obiettività da un lato e l’oggettività dall’altro. L’obiettività è virtù personale (valore etico?) e l’oggettività è una questione di pubblico controllo (teoria filosofica?). E il giornalismo, che cosa dovrebbe essere se non la continua individuazione di fatti ed argomenti contrari alle tesi esposte dai giornalisti stessi sui giornali? L’informazione non ha ad oggetto la verità, ma l’informazione è necessaria per comprendere la verità. Anche qui Antiseri ci ricorda che chi crede di sapere di più non è capace di domandare, e che per saper domandare, bisogna essere consapevoli di non sapere. Questo è l’unico metodo del conoscere e del pensare, sia della scienza, sia della filosofia, sia dell’uomo democratico. Le opinioni plurali, discordanti ma valide, sono il sale del sapere in tutte le sue forme. Perché non si può informare l’uomo, il cittadino, in maniera veritiera: è filosoficamente impossibile. Pena che incombe sui portatori di verità giornalistiche, sui narratori dei “fatti”, è lo sprofondare nell’ideologia, mare di quella tracotanza in cui il pensiero umano rischia tante volte di perdersi.
Dunque, informazione oggettiva, non veritiera, è quanto serve alla società attuale. Non è questa di Antiseri una constatazione originale, bisogna dirlo. Eppure l’Autore ci sorprende quando propone un decalogo per l’informazione oggettiva, che viene definita “oggettiva” solo quando “controllabile”. Perché è proprio la possibilità di controllare le informazioni, ci spiega l’autore, che ne consente la loro messa in discussione, la loro verificabilità o falsificabilità, la loro compartecipazione e condivisione, la loro contestabilità. Quindi, informazione come oggetto di conoscenza, e non come oggetto di verità. Questa è l’approdo ove ci guida con una semplicità disarmante Antiseri. Per questo anche la televisione non è strumento di verità, ma strumento di conoscenza, da trattare con cautela perché innestata in un mondo in cui la tracotanza del sapere deve essere contenuta e controllata, ove la patente di popperiana memoria non è limite alla libertà, ma garanzia per una società libera e democratica. Anche in relazione a tale tema Antiseri emerge nella sua originalità, dipanando il problema suscitato da talune ricostruzioni del pensiero di Popper circa la necessità di una patente, illiberale, come condizione necessaria per poter fare televisione. L’autore difatti ricorda che se una società aperta e democratica è chiusa alla violenza, allora i mezzi di comunicazione devono essere anch’essi chiusi alla violenza, e questo senza la necessità di imposizioni illiberali e ideologiche, ma grazie alla forza del saper pensare con relatività, il quale può portare alla capacità di usare il mezzo televisivo con la consapevolezza dei limiti entro cui se ne può godere. La patente è così, per Antiseri, strumento di pensiero, prima ancora che essere una qualsiasi forma di autorizzazione rilasciata da una mai precisata autorità. Al lettore si ricorda nell’occasione che Popper era contro la violenza che la televisione “rovescia sulle menti dei bambini”, e quindi secondo il principio della ragione etica, gli uomini che fanno televisione, nella rilettura dell’autore, devono essere responsabili delle produzioni televisive poiché devono allontanare la violenza dalla società. In questo senso, Antiseri pare indicare che l’autorità preposta al rilascio della patente è in primo luogo il pensiero umano.
Come dar torto all’argomentazione da lui proposta? Certamente, affidare al pensiero l’autorità del rilascio della patente equivale affidare al pensiero una qualche forma di capacità assoluta di conoscere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, col rischio quindi di vedere il pensiero umano scivolare in quella tracotanza da cui lo stesso Autore rifugge. Però, se si contestualizza questa forma di controllo dello strumento televisione in una società democratica e liberale, così come l’Autore la intende, allora un poco di questa assoluta potenza di verità affidata al pensiero si umanizza, si relativizza nel suo dispiegarsi civile e sociale. Quindi, fallibilità del pensiero come presupposto della società aperta. Una società aperta che richiede, necessariamente, il continuo confronto tra verità di ragione e verità di fede, senza arroccamenti e senza ideologismi, ma con lo sguardo disincantato di chi osserva la nostra società e si sente di affermare che informazione e comunicazione sono anche formazione. Formazione che è un dovere di responsabilità per la società aperta; formazione che passa anche attraverso il controllo della informazione televisiva pubblica, che ha il dovere di salvaguardare il pluralismo, l’identità tradizionale, di proporsi accanto alla scuola quale mediatore capace di formare una opinione pubblica critica e consapevole, in altre parole, libera. Una televisione che affianchi la scuola nella sua missione formativa ed istruttiva, capace di rifuggire dalla logica degli schieramenti e delle ideologie di parte, per offrire agli individui informazioni e proposte capaci di rappresentare il pluralismo politico, che è poi pluralismo di idee.
A riguardo della formazione, Antiseri richiama il lettore alla constatazione, a prima vista ovvia, che nelle attività di formazione affidate alla scuola è doveroso tener sempre conto del fatto che “dagli insegnanti dogmatici delle scuole statali, le famiglie meno abbienti non possono facilmente difendersi”. Così come per la televisione, anche sulla scuola l’Autore pone così all’attenzione del lettore una riflessione tanto breve quanto arguta: il problema non è quello di proporre una laicità dello Stato, democratico e plurale, in antitesi con la presenza di culture confessionali. Le scuole confessionali sono invece necessarie nella società attuale, aumentano il pluralismo delle informazioni e del sapere, costituiscono un argine allo smarrimento dei valori. Il vero problema è perciò quello di avere buone scuole, scuole sempre migliori, che siano anche sovvenzionate, purché siano in competizione tra loro. A nulla importando che siano laiche o confessionali. La laicità è dello Stato, non della scuola. Non scuole uguali per tutti, ma scuole diverse e migliori accessibili a tutti. La fallibilità è quindi condizione metodologica del sapere e del conoscere, e quindi anche dell’insegnare. Perché la società aperta è “chiusa soltanto agli intolleranti”, e le scuole confessionali, come quelle laiche, preoccupandosi della diversità, sono “l’essenza della società aperta”.
Per questo motivo tutte le scuole devono essere sovvenzionate, rese pubbliche (sussidiate) e messe in competizione le une con le altre a parità di condizioni. Perché la società aperta compete su tutto, sulle teorie scientifiche, sulle teorie filosofiche, sul mercato libero della conoscenza e dei capitali. Compete su tutto perché vincitore è sempre il mercato, che è in fin dei conti la cittadinanza. Mai una idea di verità è così posta al di sopra delle altre. La società aperta compete senza demolire ed annichilire gli sconfitti, perché dietro ad ogni sconfitto c’è pur sempre un uomo: la società aperta è pur sempre costituita da uomini, talora vincitori e talora sconfitti. Questa società complessa, ci dice Antiseri, è la società democratica degli uomini concreti, e non c’è società senza uomini concreti: uomini che sbagliano, uomini “a volte pigri ed a volte diligenti”. In altre parole, la società non esiste senza gli uomini; la società, di per sé, è un concetto astratto, è una ideologia. Per questo la democrazia può divenire ideologia se si dimentica di essere, in primo luogo, individualità sociale; non ha senso contrapporre quindi “individualismo” e “collettivismo”, che altro non sono che artifici retorici e categorie del pensiero spesso fuorvianti, che possono indurre solo alla deriva ideologica dell’utopista, dalla quale si deve invece prendere le distanze.
Perché anche l’utopista rifiuta il pensiero della ragione, si illude di aver tutte le risposte e smette di porsi le domande. Propugna soluzioni precostituite, eterne e per questo reazionarie: non c’è dogmatico peggiore dell’utopista che vuole imporre a tutti la sua società perfetta, nella presunzione della sua infallibilità. Anche qui Antiseri ricorda che la tracotanza si nasconde ovunque, in ogni piega del pensiero umano, e che tutte le volte che si impone la supremazia di una idea, si abdica alla ragione e si concede spazio all’hybris. Per tale motivo anche nel domandarsi quale identità debba caratterizzare l’idea di Europa, l’autore si sofferma sulle radici storiche dell’Europa, scorgendone le origini tanto nelle fedi confessionali quanto nell’idea di laicità, tanto nel concetto di uomo razionale quanto nel concetto di uomo inteso come psiche, come libero soggetto pensante immerso in una dimensione spirituale e religiosa. Un’idea complessa, quella dell’identità europea che ci propone l’autore, nella quale si prende atto che pur nella convivenza del rispetto degli altri e delle tradizioni “altre”, mai però si deve giungere alla cancellazione della tradizione che ha fondato l’Europa stessa: “rispettare gli altri non equivale ad annientare noi stessi”, ci ribadisce Antiseri.
Ognuno dei saggi proposti nel testo può essere letto senza aver prima letto il precedente, poiché ogni saggio è unico e chiuso, completo. Però con arguzia un filo rosso è teso tra le pagine del libro, e il lettore ne segue il tratto, quasi inconsciamente. Antiseri non propone nemmeno qui, perché non vuole farlo, esaurienti definizioni su ciò che è “ragione etica”, “ragione scientifica”, o ancora su ciò che è “ragione filosofica”. Eppure, agli occhi del lettore, tutto si tiene: ogni tema da lui affrontato è proposto sempre nella luce dei limiti dell’umana capacità del pensare quale limite dell’uomo sull’uomo, che Antiseri continuamente richiama con maestria, come quando parla di democrazia e di identità europea. Ci dice così che non ci può essere democrazia ed identità europea senza relativismo, ove per relativismo si intenda però non l’origine di un nichilismo autodistruttivo, ma la fonte di quel sano fallibilismo gnoseologico che apre le porte al pluralismo delle idee (teorie scientifiche e filosofiche) e dei valori (principi etici). Non è una novità la proposta di Antiseri, però incuriosisce il lettore la semplicità con cui viene riaffermata la validità di una posizione relativista del sapere che non abbassa la testa allo strapotere degli dei, che non si inchina ai limiti conoscitivi dell’uomo, che non si ritrae nei suoi confini come una tartaruga che ritrae la testa nel suo guscio, ma che diviene forza del divenire scientifico e sociale dell’umanità. In questo modo, secondo Antiseri, il relativismo diviene struttura dell’essere sociale di questa nuova umanità, libera ed individualista, sociale e pluralista, che può così arginare, colla forza che la consapevolezza del proprio limite le dona, l’accesso ai violenti ed agli intolleranti.
Quindi, relativismo come pluralismo, e vice versa. Il pluralismo è necessità della società democratica così come il relativismo è necessità della umana ragione. Ed ecco, infine, il colpo di teatro finale. Dopo che siamo stati condotti per mano ad incontrare il mondo con gli occhi del relativismo, dopo aver visto come la ragione ed il filosofare aiutino il comprendere la complessità del mondo, quando ora mai pare di aver capito che l’uomo deve razionalmente convivere coi propri limiti, che sono la sua virtù più profonda, ecco che anche la dimensione di fede viene considerata nella sua complessità. Il filosofare di Antiseri non arretra nemmeno innanzi ad una siffatta dimensione metafisica, e rileggendo alcuni passi dell’enciclica Fides et ratio, prima ci ricorda che Ludwig Wittgenstein aveva scritto “credere in Dio vuol dire vedere che i fatti del mondo non sono poi tutto”, e poi segnala al lettore che nell’enciclica troviamo che “la Chiesa non propone una propria dimensione filosofica né canonizza una propria filosofia a scapito delle altre”: “le vie per raggiungere la verità rimangono molteplici; […]”. Non contento, Antiseri richiama pure le parole di Wittgenstein: “pensare al senso della vita significa pregare. Il senso della vita possiamo chiamarlo Dio”, per farle dialogare con quelle del card. Ratzinger, nuovo pontefice Benedetto XVI, che rispondendo alla domanda su quali possibilità abbia ancora la fede di successo, dice: “Perché essa trova corrispondenza nella natura dell’uomo […] Nell’uomo c’è un indistinguibile desiderio di infinito. Nessuna delle risposte che si sono cercate è sufficiente; Solamente il Dio che si è reso finito, per infrangere la nostra finitezza e condurla nella dimensione della sua infinità, è in grado di venire incontro alle esigenze del nostro essere”. Anche qui, verità e fede si confrontano, ragione relativa e fede assoluta si parlano, l’una senza voler soverchiare l’altra, senza hybris. Anche questa è una proposta interessante; meglio, una proposta tanto coraggiosa quanto interessante, non c’è che dire.

Indice

Introduzione
La “competizione” vista come la più alta forma di collaborazione
Le ragioni del “buono scuola”
Il principio di sussidiarietà
Le scuole ad “orientamento confessionale” non sono un pericolo per la società aperta
La consapevolezza della fallibilità della conoscenza umana quale presupposto della “società aperta”
“Platone totalitario” è davvero una stravagante interpretazione di Popper?
“Individualismo” versus “collettivismo”
“Multae utilitates imprendirentur si omnia peccata districate prohiberentur”
Perché il politico non si comporti come quel medico che per salvare la diagnosi uccise il paziente
Etica dell’intenzione ed etica della responsabilità
Il pensiero utopico tra “irrazionalità” e “violenza”
La “ragione” nella scienza
La “ragione” in filosofia
La “ragione” nell’etica
L’oggettività dell’informazione né una impossibilità, né un mito, ma un ideale regolativi
La televisione e i bambini. Il grido di allarme di Karl R. Popper e Hans-Georg Gadamer
Ragioni a difesa di un “servizio pubblico” radiotelevisivo
Per comprendere l’identità dell’Europa
La riconquista dello “spazio di fede”
Una domanda al cardinale Joseph Ratzinger: non è forse più che auspicabile un ritorno a Pascal?


L'autore

Dario Antiseri (Foligno 1940), dopo la laurea in Italia, ha proseguito i suoi studi, dal 1963 al 1967, presso le Università di Vienna, Münster e Oxford. Ha insegnato materie filosofiche nelle Università di Roma “La Sapienza”, Siena e Padova. Dal 1986 è docente di Metodologia delle scienze sociali presso la Facoltà di scienze politiche della Luiss “Guido Carli” di Roma. È autore di volumi e saggi – parecchi dei quali tradotti in più lingue – su questioni di natura analitico-epistemologica.

venerdì 1 giugno 2007

Tomba, Massimiliano, La “vera politica”. Kant e Benjamin: la possibilità della giustizia.

Macerata, Quodlibet, 2006, pp. 283, € 22,00, ISBN 9788874621140.

Nota di Jamila Mascat – 01/06/2007

Filosofia del diritto, Filosofia politica

Se la questione della giustizia sia riducibile aritmeticamente al consenso della maggioranza, se l’orizzonte della democrazia sia sufficiente a garantire la pacifica risoluzione dei conflitti, se una maggioranza qualificata abbia il diritto di decretare la sospensione dei diritti umani, se una tale sospensione possa giustificare la violazione della sovranità di uno stato da parte di altri, sono alcuni degli interrogativi sollevati e discussi da Massimiliano Tomba nelle pagine de “La vera politica” con l’intento di approfondire la questione del rapporto tra Gewalt e giustizia. Il punto di partenza della riflessione di Tomba è la constatazione dell’avvenuta forclusione (forclusion, preclusione, da intendersi nel senso lacaniano di esclusione dal simbolico) dell’idea di giustizia all’interno della tradizione del pensiero politico moderno, e parallelamente la constatazione della “impensabilità” di tale nozione nell’orizzonte dell’attuale concettualità politica. All’impensabilità della giustizia, che è anche immediatamente ragione della sua impossibilità, Tomba oppone il tentativo di “praticare questa possibilità dell’impossibile” attraverso la ri-posizione della questione della giustizia e della giustizia nel suo rapporto con la Gewalt, intesa conformemente all’ambiguità della significazione tedesca come potestas e insieme violentia. A dimostrazione della significativa parentela che sussiste, seppur dissimulata, tra giustizia e violenza l’autore fa notare come, nella tradizione di un pensiero politico che ha rimosso l’idea di giustizia dalla sue coordinate, la questione del giusto sia stata rinviata inevitabilmente al dominio della doxa; giusta viene pertanto considerata l’opinione del più forte o, nella tradizione liberal-democratica, l’opinione della maggioranza legittimata a sua volta dalla forza del numero. A tal proposito osserva Tomba che “il problema non è costituito dalla reciproca implicazione tra giustizia e forza, ma il fatto che la forza possa contraddire la giustizia e affermarsi come giusta” (p.14); riproporre e ridiscutere il tema della giustizia significa quindi in primo luogo dissotterarrare la retorica altamente mistificante che si cela nel tessuto del discorso liberal-democratico, mostrando in che modo all’interno di esso la logica della forza sia venuta affermandosi a prezzo della rimozione della questione della giustizia ed abbia trovato la propria legittimazione nell’orizzonte del diritto moderno .
Si tratta allora di distinguere in primo luogo la pratica del diritto -intesa in senso procedurale- dalla pratica della giustizia –intesa kantianamente come idea incommensurabile all’orizzonte procedurale del diritto- con la consapevolezza che quest’ultima sia pensabile solo in relazione ad una diversa concezione della temporalità storica, vale a dire in uno spazio teorico diverso dalla temporalità diacronica del diritto, nella misura in cui, consustanziale all’idea di giustizia, è la necessità di interrompere il corso continuo della storia, dischiudendo così la possibilità del mutamento. Non nella falsa alternativa che oppone la continuazione del percorso politico della modernità all’inversione regressiva di esso in direzione di un modello premoderno, si gioca la questione della giustizia, ma nel superamento medesimo dell’alternativa, attraverso una domanda capace di evocare il rapporto della giustizia con la trascendenza. “Riaprire la domanda sulla giustizia –scrive Tomba- come fece Kant affermando la sua irriducibilità alla doxa, o come fece Benjamin riattivando il concetto di messianismo ebraico significa bucare la concettualità politica moderna” (p.20). Kant e Benjamin sono gli interlocutori prescelti all’interno di questo dialogo consacrato a ricercare lo spazio teorico-pratico di una “vera politica”, e, come recita il sottotitolo, a esplorare “la possibilità della giustizia”. Nell’attraversare l’opera di Kant e Benjamin, Tomba privilegia, oltre una lettura stereotipata del pacifismo kantiano e del messianesimo benjaminano, gli elementi radicali della critica funzionali alla decostruzione dei fondamenti concettuali del pensiero politico e giuridico moderno che, per mezzo di tali concetti -la sovranità popolare, il diritto di resistenza, il principio di maggioranza, l’istituto della rappresentanza, il valore dell’uguaglianza-, dissimula e in pari tempo conserva un assetto entro il quale la Gewalt si è affermata come unico criterio di giudizio.
Il tema della Gewalt si configura come legato a doppio filo alla questione della giustizia: da un lato il dominio della Gewalt ha precluso lo spazio e il tempo della giustizia che la “vera politica” è chiamata a ridischiudere; dall’altro la realtà della Gewalt viene legittimata per mezzo di giustificazioni strumentali. E’ così che la guerra diventa giusta.
Nel primo capitolo intitolato “Dal bellum justum al just war? Eclissi della giustizia” Tomba riflette sulla nozione di guerra giusta per mezzo della quale la pratica della guerra è assurta nel novero degli strumenti che decidono della giustezza del diritto. A partire dall’antica definizione di bellum justum, la quale, tuttavia, si inseriva all’interno di un universo di riferimento molto diverso dal contesto dell’attuale just war, egli analizza la riconfigurazione moderna di tale concetto. Se infatti nell’ambito della concezione agostiniana la guerra giusta era lo strumento atto a realizzare/restaurare la giustizia conforme ad un ordo naturalis voluto da Dio, con la nascita dello Stato moderno e la conseguente affermazione della sovranità dello Stato-nazione il concetto premoderno di guerra giusta è diventato improponibile, dal momento che in tale assetto non può essere ammesso il livello di un ordine superiore alla sovranità degli stati, ma spetta alla stessa sovranità nazionale di decidere della conservazione o della trasformazione di un dato ordine.
Nella logica della sovranità e della rappresentanza, in cui le decisioni del potere sovrano, rappresentante del popolo, vengono legittimate dal fatto stesso di essere promanate da tale potere, la questione della giustizia, e con essa la questione del giudizio, vengono ad essere forcluse poiché “la legge essendo ciò che ciascuno vuole e ha voluto non può in alcun modo essere detta ingiusta” (p.41). Stante l’ineffettualità di qualsiasi forma di regolamentazione sovrastatale delle relazioni interstatuali, che contraddirebbe naturalmente lo statuto sovrano dello stato-nazione, ne segue che, una volta assunto il principio della sovranità nazionale degli stati, non è più possibile eliminare l’eventualità della guerra, né porre alcun argine all’uso di una forza giustificata dalla subordinazione a fini cosiddetti morali.
Nel contesto del regime politico moderno che legittima nel rapporto tra gli stati il ricorso alla legge del più forte, osserva opportunamente Tomba, “le odierne giustificazioni delle “nuove guerre” non sono in alcun modo da intendersi come regressive rispetto all’impianto del diritto internazionale moderno, ma sono invece forme massimamente adeguate alla crisi contemporanea di quello stesso impianto” (p.54), crisi a sua volta connaturata allo sviluppo di esso.
La riflessione sul just war oltrepassa il tema della guerra e si estende esponenzialmente fino a coinvolgere i concetti fondanti della politica moderna e contemporanea: la guerra giusta chiama in causa lo statuto della rappresentanza, fa luce sul processo di spoliticizzazione connaturato al principio dell’uguaglianza democratica, problematizza l’universalismo dei diritti umani, solleva un punto interrogativo sulla possibilità della risoluzione pacifica dei conflitti all’interno di un ordine edificato sulla realtà delle sovranità nazionali. E’ qui che si apre il dialogo con Kant. Il II capitolo (“La sfida di Kant: la “vera politica” della pace”) si ricollega al precedente sul tema della dialettica di guerra e pace approfondendo le premesse e i risvolti del pensiero kantiano in merito a tale questione: il filosofo della pace perpetua ha avuto il merito di sforzarsi di concepire la possibilità della pace “senza avventurarsi in utopiche architetture costituzionali di uno Stato mondiale” (p.78), ma dentro e oltre l’assetto della configurazione politica moderna. L’apologia kantiana della libertà di penna –la quale ha ben poco in comune con la critica liberale della censura in quanto rivendicazione della libera espressione dell’opinione privata- acquisisce il proprio peculiare significato nel contesto dell’elaborazione del concetto non doxastico di “pubblicità”, in cui Tomba individua “lo specifico filosofico della riflessione kantiana” (p.106). La difesa della libertà di espressione presuppone in Kant il riconoscimento dello spazio fondamentale della ragione umana universale (allegmeine Menschenvernunft) che può esternarsi solo nella comunicazione di una sfera pubblica, libera di discutere e giudicare; in tal senso la censura rappresenterebbe un serio impedimento alla ricerca della verità comune (gemeinschaftliche Warheit) e conseguentemente una violazione essenziale della socialità umana. Il terreno della pubblicità è quello in cui una pluralità di punti di vista particolari si confronta intorno all’universalità dell’idea, idea della verità e della giustizia, che mantiene rispetto ad essi carattere trascendente; in questa dimensione della ragione comune il consenso si costruisce su base non empirica, ma razionale, ovvero nell’alveo di una razionalità condivisa da cui nessuno, contrariamente all’impostazione rawlsiana, può essere escluso.
Nel paradigma kantiano l’autore rinviene gli argomenti della critica del relativismo e del moderno concetto di tolleranza, nei quali si annida, dietro un apparente elogio del pluralismo, il primato dell’indifferenza all’insegna del quale si costruisce il rapporto che la dimensione doxastica delle opinioni private intrattiene con la verità . Nell’economia della riflessione kantiana la verità comune presuppone invece una partecipazione collettiva alla pratica della ragione in virtù della quale ciascuno è chiamato a mettere in gioco il proprio, rendendo impossibile l’indifferenza della posizioni particolari.
Questa ragione pubblica e partecipata –precisa Tomba- “non è il luogo habermasiano dell’intesa discorsiva, dove attraverso pubbliche discussioni, è possibile convincere o essere convinti della bontà di un argomento, ma è il trascendentale di un diritto pubblico, ciò in virtù di cui il diritto è diritto e viene prodotto come tale.” (p.162). Nell’esercizio pubblico della ragione si apre la possibilità di ripensare la questione della giustizia oltre i presupposti della tradizione liberale e democratica: laddove infatti la logica doxastica della maggioranza –quella in base a cui la decisione viene demandata ad una somma di consensi privati che non necessariamente aspirano alla realizzazione della giustizia- si rivela essere non dissimile dalla logica del più forte, il concetto di pubblicità consente di mettere fuori gioco la validità di questi modelli. Della giustizia decide allora non il consenso empirico degli individui –che, anche qualora fosse superiore numericamente, non darebbe nessuna garanzia della sua superiore giustezza rispetto al giudizio della minoranza- ma l’assenso ideale della ragione ad una legge. Fuorviante risulta perciò agli occhi di Tomba l’interpretazione di Kant in senso canonicamente democratico in relazione all’elemento del consenso, perché la nozione kantiana della Zusammen Bestimmung mette in crisi proprio il criterio della maggioranza, nel sottintendere che affidarsi al consenso della maggioranza equivalga ad affidarsi alla legge del più forte e nel riferirsi parallelamente ad una idea originaria del contratto, posta a fondamento della convivenza politica, cui i governanti e governati devono entrambi fare appello. Costruendo il progetto della Weltrepublik sull’elemento del consenso autonomo della ragione pubblica alla legge, Kant salva la giustizia dalla deriva procedurale cui essa è condannata nella costellazione del pensiero moderno. La risorsa più proficua del pensiero kantiano risiede in ultima istanza nell’eccedenza dell’idea di giustizia in quanto “volontà universale data a priori che sola determina quello che fra gli uomini è giusto” (p.167), con la quale viene sopravanzato l’orizzonte strumentale del diritto. Il riferimento all’idea della giustizia permette la pensabilità di una sfera politica adeguata alle istanze della legge morale, una politica che sia autentica prassi e non mera tecnica, una politica fondata su una concezione non liberale della pubblicità e all’interno della quale la pace sia possibile come reale interruzione dello stato di guerra permanente: essa apre lo spazio di una “vera politica”.
Da Kant a Benjamin, cui è dedicato il III capitolo (“La “vera politica”: rileggendo Walter Benjamin”), la riflessione di Tomba prosegue enucleando il senso di quella operazione di rovesciamento della Zweck-Mittel Relation, insediata al cuore del pensiero politico moderno, che accomuna le filosofie dei due autori. La relazione mezzo-fine sposta tutto l’accento sulla giustezza del fine, ammessa la quale anche i mezzi risultano indirettamente giustificati. A questo paradigma Kant contrappone una teoria della prassi intesa in senso non strumentale, in base a cui l’idea non deve essere realizzata perché la sua realtà è gia implicita nella prassi e la prassi, d’altro canto, deve trovare in se stessa, ovvero nella conformità alla legge morale, la realtà della propria giustificazione; in tal modo vengono meno i fini da realizzare e con essi i mezzi da giustificare.
Parimenti nella filosofia di Benjamin la possibilità rivoluzionaria del cambiamento sussiste solo ed unicamente come interruzione di quella continuità viziosa innescata dalla Zweck-Mittel Relation.
Benjamin parte dall’irriducibilità della sfera del diritto alla realtà della giustizia, constatando come il lessico del diritto conosca solo lo spazio della giustificazione dei mezzi e non l’orizzonte autentico della giustizia, e come conseguentemente ciò renda possibile la giustificazione all’infinito della Gewalt in quanto mezzo in vista di un fine giustificato. Il mezzo deve invece fornire un criterio immanente della propria giustezza, così come la prassi non deve essere organizzata in relazione ad un fine estrinseco e successivo –la realizzazione dell’idea- ma deve determinarsi in se stessa, in quanto prassi conforme all’idea.
Tra diritto naturale e diritto positivo l’autore del breve scritto Zur Kritik der Gewalt (1921) individua non lo spazio di una cesura, ma l’annidarsi di una pericolosa circolarità in base alla quale “il diritto naturale tende a giustificare (rechtfertigen) i mezzi attraverso la giustizia degli scopi, e il diritto positivo garantisce la giustizia degli scopi attraverso la conformità al diritto (Berechtigung) dei mezzi” (p.215). In questo contesto l’uso della violenza monopolizzato dallo Stato sovrano attraverso l’esercizio della prassi poliziesca non deve essere concepito come un elemento di eccezionalità, ma come ciò in cui eccezione e norma si fondono coimplicandosi; tale incastro, da cui si produce la normalizzazione dello stato d’eccezione, viene considerato da Benjamin costitutivo e intrinsecamente connaturato alla struttura dell’edificio democratico e non semplicemente l’espressione puntuale di un processo degenerativo delle istituzioni democratiche.
Nell’eccezione elevata a regola la violenza del potere sovrano è pienamente giustificata e insieme ad essa anche l’insieme di quelle contro-violenze antistatali che lottano per scalfire il monopolio statale della Gewalt. Il circolo scambievole delle opposte violenze tuttavia non interrompe, se non apparentemente, la continuità del diritto, la quale può essere oltrepassata solo attraverso l’istituzione di un altro genere di violenza che sia gewaltlos rispetto alla Gewalt del giuridico; occorre insomma per dirla con le parole di Benjamin della Zur Kritik der Gewalt “un criterio capace di intervenire sulla natura etica (sittlich) della Gewalt in quanto principio” (p.233).
Benjamin si interroga sulla possibilità della ricomposizione non violenta dei conflitti appellandosi a quella sfera extragiuridica della comunicazione che è la lingua priva di violenza -la quale attraverso la parola è in rapporto immediato con il vero- e che richiama da vicino l’orizzonte kantiano della pubblicità. Non si tratta della parola resa strumentale e asservita alle esigenze della comunicazione, anch’essa infiltrata dall’ingrediente della Gewalt giuridica, ma di un ideale della lingua simbolica capace, ancora una volta, di porsi al di là del rapporto mezzo-fine e sottrarsi al destino della violenza.
Da qui il discorso di Benjamin si spinge oltre, alla ricerca di un paradigma che sappia incarnare il modello di una Gewalt gewaltlos, vero punto d’approdo della sua indagine. Egli allude ad un genere di violenza che sia non-violento rispetto alla violenza del diritto, una violenza che sia mezzo puro (reine Mittel), e incontra, attraverso l’analisi marxiana, nella realtà della lotta di classe l’incarnazione del modello di una tale Gewalt. Quest’ultima non è non-violenta nel senso in cui potrebbe esser definita pacifica, ma è gewaltlos nella misura in cui pone la questione di una violenza di altro genere e realizza attraverso la prassi di lotta del proletariato la fine della temporalità violenta del diritto vigente.
E’ necessario pertanto, nel tentativo di pensare una violenza altra, pervenire all’elaborazione di una temporalità storica altra, operazione che Benjamin effettua ricorrendo al concetto del messianico inteso come momento di interruzione della storia. La giustizia viene allora a coincidere con la possibilità dell’interruzione temporale apparentata da Benjamin alla gottliche Gewalt, al giudizio di Dio, che nel dischiudere e redimere le possibilità schiacciate dalla limitatezza dell’ordine terreno, esercita una violenza capace di distruggere il continuum della violenza fenomenica dominata dalla legge del più forte. Ancora una volta, come nel caso kantiano dell’idea, salvifico si rivela pertanto il rapporto con la trascendenza; giusto diviene “il momento della redenzione degli infiniti ordini possibili, ai quali è stata fatta ingiustizia nella de-cisione a favore di un ordine” (p.248).
Interessante è il senso dell’operazione condotta da Tomba nell’accostamento del trascendente e del messianico al fine di individuare il terreno di un pensiero e di un discorso sulla giustizia capaci di sottrarsi alla strumentalità del diritto contemporaneo. Nel ricorso a Kant e a Benjamin - nel fare appello all’idea kantiana e alla Gewalt gewaltlos di W. Benjamin - divengono manifeste le intenzioni dell’autore di destituire l’autorità di una tale concezione strumentale della giustizia e di farlo non per mezzo della confutazione puntuale e circoscritta delle sue conseguenze, ma attraverso un rifiuto generale dell’intero suo paradigma. L’autore vede bene l’impossibilità di poter controbattere alla retorica dei mezzi e dei fini del pensiero giuridico moderno – si pensi nuovamente a Rawls- rimanendo sul piano della medesima logica strumentale; non si tratta pertanto di opporre alle precedenti, nuove e diverse giustificazioni dei mezzi, né di limitarsi a contestare la giustezza di un fine contingente, distinguendo guerre giuste e ingiuste. Si tratta invece di ricusare in blocco la catena delle giustificazioni; procedere alla ricerca di un punto di interruzione che consenta di arrestare il meccanismo di autolegittimazione del discorso giuridico. E questo soprattutto nella misura in cui ciò che all’interno di tale discorso tende ad essere rappresentato in maniera fuorviante come l’esito accidentale – ed evitabile - di un processo degenerativo altrettanto accidentale, viene nel corso di queste pagine significativamente restituito al suo carattere di conseguenza costitutiva e sistematica di un determinato ordine di idee: “l’esito tirannico della statualità moderna” è infatti secondo Tomba necessario e non casuale, discendente proprio da quella consolidata rimozione della giustizia dalla sfera politica moderna che lascia alla forza la possibilità di decidere del giusto e del non-giusto. Merito dell’autore è l’invito rivolto a interrogarsi sul senso e sulle implicazioni profonde di un universo consegnato alla legge della forza: “L’idea che il più forte sia anche il più giusto – nota giustamente - è un dogma che la democrazia condivide con il fascismo” (p.14). Occorre allora sganciare l’elemento della giustizia dalla deriva della forza, che opportunamente Tomba rinviene non solo nell’esperienza della prevaricazione fisica, ma anche nella sfera solo apparentemente non violenta delle opinioni private.
E’ in tal senso che interviene l’appello all’idea della giustizia verso la dischiusura di un orizzonte di eccedenza assolutamente non riducibile alla dialettica dei mezzi e dei fini, e tale da garantire invece l’assoluta ulteriorità dello spazio di una teoria e di una pratica della giustizia. E qui ovviamente l’indicazione di Tomba non deve essere equivocata: Kant e Benjamin non costituiscono in questa sede il presupposto né il pretesto per l’inaugurazione di soluzioni utopiche, né tantomeno contemplative. Di essi l’autore non rievoca nemmeno la presunta attualità, ma solo in maniera paradigmatica “la forza filosofica per porre una domanda intorno al giusto” (p.13); la forza illuminista di Kant filosofo della ragione pubblica, la forza della crisi e della critica di Benjamin; entrambe meritevoli di aver opposto all’apparato tecnico-retorico del diritto l’idea assoluta della Giustizia; entrambe forze dell’interruzione e della redenzione di quel continuum temporale all’interno del quale si conserva e si riproduce l’universo del diritto moderno, entrambe forze della trascendenza.
Il rapporto della trascendenza e del politico, esplorato nella fattispecie attraverso le opere dei due filosofi tedeschi, è probabilmente uno degli elementi più interessanti di questo volume. La trascendenza, cui viene consegnata l’idea della giustizia, opera infatti come un dispositivo dell’interruzione e del mutamento, e come tale si rivela essenziale alla sopravvivenza dell’elemento politico.
Il tempo della Wahre Politik del resto nasce proprio all’interno di una pratica della rottura e della discontinuità. Pertanto l’invito a pensare la possibilità dell’impossibile come possibilità della giustizia, implica e chiama in causa, sull’esempio di Kant e Benjamin, la necessità di un pensiero che sappia impiegare la forza dei suoi concetti nell’operazione di interrompere/redimere il tempo fenomenico e di un pensiero che non intenda rimuovere, bensì evocare e conservare, il proprio rapporto con la trascendenza in vista dell’apertura di una verità altra.

Indice

Abbreviazioni
Introduzione
1.Dal bellum justum al just war? Eclissi della giustizia
2.La sfida di Kant: la “vera politica” della pace
3.La “vera politica”:rileggendo Walter Benjamin
Bibliografia


L'autore

Massimiliano Tomba (1968) è ricercatore di filosofia politica presso l’Università di Padova. Ha pubblicato vari saggi su Kant, Hegel e Marx; ha curato l’edizione di B. Bauer e K. Marx, La questione ebraica, Manifestolibri, Roma, 2004 e recentemente la prefazione alla traduzione italiana del libro di Daniel Bensaid Marx l’intempestif (Marx l’intempestivo. Grandezze e miserie di un’avventura critica, Edizioni Alegre, Roma, 2007). E’ autore di Crisi e critica in Bruno Bauer, Bibliopolis, Napoli, 2002.