Chiara Conterno – 23/06/2007
Filosofia del linguaggio, filosofia della mente
Da sempre si cerca di scoprire se esistono delle proprietà che caratterizzano l’essere umano e lo distinguono dagli altri animali. Qualcuno indica la capacità di creare, l’autocoscienza, la stazione eretta. Ferretti ritiene invece che la peculiarità degli esseri umani sia il linguaggio. Analizzando il rapporto tra natura umana e linguaggio da una prospettiva cognitiva, Ferretti non può evitare di fare i conti con la teoria chomskiana.
Secondo Noam Chomsky il linguaggio è responsabile di una vera e propria differenza qualitativa tra animali umani e non umani. Ribadendo gli aspetti di unicità di cui, grazie al linguaggio, gli esseri umani godono, Chomsky giunge ad affermare che gli umani sono esseri “speciali” all’interno del mondo naturale. Presuppone così una distinzione verticale tra gli esseri umani, considerati superiori, e gli altri non umani, considerati inferiori.
Ferretti pone invece la riflessione su un piano orizzontale: tutte le specie si trovano allo stesso livello e ognuna è dotata di caratteri specifici che la rendono unica e diversa. Alla tesi della specialità, Ferretti oppone quella della specificità. Indagando la natura umana senza ipotizzare statuti speciali o speciali metodologie d’indagine, il lavoro di Ferretti si colloca in una prospettiva naturalistica. Inoltre, escludendo che gli esseri umani siano speciali, egli inserisce l’analisi della specificità degli umani in un quadro continuista. A suo parere il linguaggio determina alcuni tratti peculiari della natura umana senza però rompere il legame di continuità supposto dall’indagine naturalistica.
L’elemento che fa da punto di convergenza tra aspetti specifici e tratti condivisi della natura umana è l’intelligenza: si tratta di una proprietà che non è specifica del linguaggio, ma è una delle sue caratteristiche basilari. Secondo Ferretti, mostrare che l’intelligenza è uno dei tratti costitutivi della capacità linguistica, giustifica l’idea secondo cui il linguaggio rende l’essere umano specifico senza renderlo speciale. E proprio questo è lo scopo dell’autore. Per riuscirci Ferretti punta su una prospettiva in grado di coniugare specificità e continuismo.
Ricorrere all’intelligenza sembra interessante; essa deve però essere compatibile con una concezione modulare della mente e deve avere un ruolo importante nella genesi, nell’acquisizione e nella comprensione del linguaggio. Naturalmente, per fare ciò l’intelligenza deve essere considerata diversamente da come aveva suggerito Chomsky.
Nel primo capitolo Ferretti rifiuta la distinzione tra scienze della natura e dello spirito e si scaglia contro l’ipotesi dell’unidirezionalità del percorso di costituzione – dai fattori esterni a quelli interni – in quanto ciò presuppone il dualismo tra cultura e biologia, improponibile per chi tende ad una concezione unitaria dell’essere umano. L’unidirezionalità del modello standard viene qui sostituita da un doppio percorso costitutivo che prevede la mutua interazione fra fattori esterni e interni all’individuo. Il linguaggio, lo strumento che rende specifici gli umani, rappresenta il punto di convergenza delle spinte costitutive totali, in cui i fattori esterni sono tanto importanti come quelli interni. Ferretti insiste anche sui caratteri di flessibilità e creatività che caratterizzano gli umani. Tali caratteri sono dovuti alla natura plastica e indeterminata di cui gli umani dispongono sin dalla nascita. Flessibilità e creatività non sono inoltre in contrasto con l’ipotesi di costituenti interni ricchi e articolati. Anzi, soltanto presupponendo questi ultimi è possibile spiegare le caratteristiche che rendono intelligenti gli umani.
Nel secondo capitolo Ferretti esamina i pro e i contro della teoria chomskiana nel definire la natura umana. Ciò con cui egli discorda è l’idea che il linguaggio sia alla base della differenza qualitativa tra esseri umani e non umani. Soprattutto egli non accetta che tale differenza venga spiegata definendo il linguaggio un sistema autonomo e autosufficiente dagli altri sistemi cognitivi e, in primis, dall’intelligenza. Per controbattere tale asserto Ferretti si serve della concezione di Steven Pinker secondo il quale la comprensione del linguaggio implica uno sforzo cognitivo governato dall’intelligenza generale in tutta la sua potenza. A differenza di Pinker, però, Ferretti sostiene che questo sforzo cognitivo non avvenga soltanto in occasioni particolari, ma in ogni situazione di comprensione del linguaggio.
Il terzo capitolo affronta la spinosa questione del rapporto tra intelligenza e mente modulare. Per risolverla Ferretti invita a considerare l’intelligenza come la capacità in grado di stabilire un equilibrio adattivo tra sistemi di elaborazione in cooperazione-competizione tra loro. L’intelligenza è in grado di regolare il legame dell’organismo al mondo sociale e a quello fisico: io-tu-mondo, tre elementi in forte competizione, costituiscono una relazione triadica. Essi raggiungono un equilibrio adattivo grazie allo sforzo cognitivo guidato dall’intelligenza.
Il rapporto tra linguaggio e intelligenza è il tema centrale del quarto capitolo. Alla base dei processi di acquisizione e di comprensione del linguaggio vi sono i due tipi di intelligenza: quella sociale e quella ecologica. Il linguaggio dipende quindi dai sistemi concettuali che stanno alla base delle due forme di intelligenza. Si tratta di due sistemi concettuali in competizione tra loro: spetta all’intelligenza riequilibrare gli effetti della competizione per avviare i processi di acquisizione e uso del linguaggio.
Nell’ultimo capitolo Ferretti dimostra la coevoluzione di linguaggio e pensiero. Dopo aver ripetutamente ribadito la teoria della continuità e della dipendenza del linguaggio dal sistema concettuale, Ferretti si sente ora in dovere di dimostrare che alcune delle specificità cognitive che caratterizzano gli umani dipendono dal pensiero. Cerca inoltre di salvaguardare la tesi della specificità del linguaggio nella cognizione rimanendo fedele alla teoria continuista. La soluzione sta, secondo lui, nel fatto che il ruolo del linguaggio nel pensiero deve essere inteso come un “effetto di ritorno” e non come una relazione costitutiva di base. Ciò porta a due conclusioni: il sistema cognitivo su cui si basa il linguaggio accomuna umani e non umani; il linguaggio nel suo effetto di ritorno sul pensiero non inventa nulla, ma modifica ciò che è già organizzato dai sistemi concettuali posseduti. Il linguaggio possiede dunque sia elementi di comunanza, sia elementi di specificità. La co-evoluzione delle due componenti mostra che gli umani non sono così speciali come vorrebbero essere.
Indice
Introduzione
Il primato dei fattori esterni all’individuo
Uno sguardo dentro la “black box”
L’evoluzione dell’intelligenza
Intelligenza e linguaggio
Coevoluzione e natura umana
Bibliografia
Il curatore
Francesco Ferretti insegna Filosofia del linguaggio all’Università Roma Tre. E’ autore di saggi di filosofia della mente e del linguaggio. Tra le sue pubblicazioni si ricorda Pensare vedendo (1998). Ha curato varie opere, tra cui: La mente degli altri. Prospettive teoriche sull’autismo (2003); Mente e linguaggio, una raccolta di scritti di Jerry Fodor (2003); Comunicazione e scienza cognitiva (2005).
Links
Nessun commento:
Posta un commento