Nota di Jamila Mascat – 01/06/2007
Filosofia del diritto, Filosofia politica
Se la questione della giustizia sia riducibile aritmeticamente al consenso della maggioranza, se l’orizzonte della democrazia sia sufficiente a garantire la pacifica risoluzione dei conflitti, se una maggioranza qualificata abbia il diritto di decretare la sospensione dei diritti umani, se una tale sospensione possa giustificare la violazione della sovranità di uno stato da parte di altri, sono alcuni degli interrogativi sollevati e discussi da Massimiliano Tomba nelle pagine de “La vera politica” con l’intento di approfondire la questione del rapporto tra Gewalt e giustizia. Il punto di partenza della riflessione di Tomba è la constatazione dell’avvenuta forclusione (forclusion, preclusione, da intendersi nel senso lacaniano di esclusione dal simbolico) dell’idea di giustizia all’interno della tradizione del pensiero politico moderno, e parallelamente la constatazione della “impensabilità” di tale nozione nell’orizzonte dell’attuale concettualità politica. All’impensabilità della giustizia, che è anche immediatamente ragione della sua impossibilità, Tomba oppone il tentativo di “praticare questa possibilità dell’impossibile” attraverso la ri-posizione della questione della giustizia e della giustizia nel suo rapporto con la Gewalt, intesa conformemente all’ambiguità della significazione tedesca come potestas e insieme violentia. A dimostrazione della significativa parentela che sussiste, seppur dissimulata, tra giustizia e violenza l’autore fa notare come, nella tradizione di un pensiero politico che ha rimosso l’idea di giustizia dalla sue coordinate, la questione del giusto sia stata rinviata inevitabilmente al dominio della doxa; giusta viene pertanto considerata l’opinione del più forte o, nella tradizione liberal-democratica, l’opinione della maggioranza legittimata a sua volta dalla forza del numero. A tal proposito osserva Tomba che “il problema non è costituito dalla reciproca implicazione tra giustizia e forza, ma il fatto che la forza possa contraddire la giustizia e affermarsi come giusta” (p.14); riproporre e ridiscutere il tema della giustizia significa quindi in primo luogo dissotterarrare la retorica altamente mistificante che si cela nel tessuto del discorso liberal-democratico, mostrando in che modo all’interno di esso la logica della forza sia venuta affermandosi a prezzo della rimozione della questione della giustizia ed abbia trovato la propria legittimazione nell’orizzonte del diritto moderno .
Si tratta allora di distinguere in primo luogo la pratica del diritto -intesa in senso procedurale- dalla pratica della giustizia –intesa kantianamente come idea incommensurabile all’orizzonte procedurale del diritto- con la consapevolezza che quest’ultima sia pensabile solo in relazione ad una diversa concezione della temporalità storica, vale a dire in uno spazio teorico diverso dalla temporalità diacronica del diritto, nella misura in cui, consustanziale all’idea di giustizia, è la necessità di interrompere il corso continuo della storia, dischiudendo così la possibilità del mutamento. Non nella falsa alternativa che oppone la continuazione del percorso politico della modernità all’inversione regressiva di esso in direzione di un modello premoderno, si gioca la questione della giustizia, ma nel superamento medesimo dell’alternativa, attraverso una domanda capace di evocare il rapporto della giustizia con la trascendenza. “Riaprire la domanda sulla giustizia –scrive Tomba- come fece Kant affermando la sua irriducibilità alla doxa, o come fece Benjamin riattivando il concetto di messianismo ebraico significa bucare la concettualità politica moderna” (p.20). Kant e Benjamin sono gli interlocutori prescelti all’interno di questo dialogo consacrato a ricercare lo spazio teorico-pratico di una “vera politica”, e, come recita il sottotitolo, a esplorare “la possibilità della giustizia”. Nell’attraversare l’opera di Kant e Benjamin, Tomba privilegia, oltre una lettura stereotipata del pacifismo kantiano e del messianesimo benjaminano, gli elementi radicali della critica funzionali alla decostruzione dei fondamenti concettuali del pensiero politico e giuridico moderno che, per mezzo di tali concetti -la sovranità popolare, il diritto di resistenza, il principio di maggioranza, l’istituto della rappresentanza, il valore dell’uguaglianza-, dissimula e in pari tempo conserva un assetto entro il quale la Gewalt si è affermata come unico criterio di giudizio.
Il tema della Gewalt si configura come legato a doppio filo alla questione della giustizia: da un lato il dominio della Gewalt ha precluso lo spazio e il tempo della giustizia che la “vera politica” è chiamata a ridischiudere; dall’altro la realtà della Gewalt viene legittimata per mezzo di giustificazioni strumentali. E’ così che la guerra diventa giusta.
Nel primo capitolo intitolato “Dal bellum justum al just war? Eclissi della giustizia” Tomba riflette sulla nozione di guerra giusta per mezzo della quale la pratica della guerra è assurta nel novero degli strumenti che decidono della giustezza del diritto. A partire dall’antica definizione di bellum justum, la quale, tuttavia, si inseriva all’interno di un universo di riferimento molto diverso dal contesto dell’attuale just war, egli analizza la riconfigurazione moderna di tale concetto. Se infatti nell’ambito della concezione agostiniana la guerra giusta era lo strumento atto a realizzare/restaurare la giustizia conforme ad un ordo naturalis voluto da Dio, con la nascita dello Stato moderno e la conseguente affermazione della sovranità dello Stato-nazione il concetto premoderno di guerra giusta è diventato improponibile, dal momento che in tale assetto non può essere ammesso il livello di un ordine superiore alla sovranità degli stati, ma spetta alla stessa sovranità nazionale di decidere della conservazione o della trasformazione di un dato ordine.
Nella logica della sovranità e della rappresentanza, in cui le decisioni del potere sovrano, rappresentante del popolo, vengono legittimate dal fatto stesso di essere promanate da tale potere, la questione della giustizia, e con essa la questione del giudizio, vengono ad essere forcluse poiché “la legge essendo ciò che ciascuno vuole e ha voluto non può in alcun modo essere detta ingiusta” (p.41). Stante l’ineffettualità di qualsiasi forma di regolamentazione sovrastatale delle relazioni interstatuali, che contraddirebbe naturalmente lo statuto sovrano dello stato-nazione, ne segue che, una volta assunto il principio della sovranità nazionale degli stati, non è più possibile eliminare l’eventualità della guerra, né porre alcun argine all’uso di una forza giustificata dalla subordinazione a fini cosiddetti morali.
Nel contesto del regime politico moderno che legittima nel rapporto tra gli stati il ricorso alla legge del più forte, osserva opportunamente Tomba, “le odierne giustificazioni delle “nuove guerre” non sono in alcun modo da intendersi come regressive rispetto all’impianto del diritto internazionale moderno, ma sono invece forme massimamente adeguate alla crisi contemporanea di quello stesso impianto” (p.54), crisi a sua volta connaturata allo sviluppo di esso.
La riflessione sul just war oltrepassa il tema della guerra e si estende esponenzialmente fino a coinvolgere i concetti fondanti della politica moderna e contemporanea: la guerra giusta chiama in causa lo statuto della rappresentanza, fa luce sul processo di spoliticizzazione connaturato al principio dell’uguaglianza democratica, problematizza l’universalismo dei diritti umani, solleva un punto interrogativo sulla possibilità della risoluzione pacifica dei conflitti all’interno di un ordine edificato sulla realtà delle sovranità nazionali. E’ qui che si apre il dialogo con Kant. Il II capitolo (“La sfida di Kant: la “vera politica” della pace”) si ricollega al precedente sul tema della dialettica di guerra e pace approfondendo le premesse e i risvolti del pensiero kantiano in merito a tale questione: il filosofo della pace perpetua ha avuto il merito di sforzarsi di concepire la possibilità della pace “senza avventurarsi in utopiche architetture costituzionali di uno Stato mondiale” (p.78), ma dentro e oltre l’assetto della configurazione politica moderna. L’apologia kantiana della libertà di penna –la quale ha ben poco in comune con la critica liberale della censura in quanto rivendicazione della libera espressione dell’opinione privata- acquisisce il proprio peculiare significato nel contesto dell’elaborazione del concetto non doxastico di “pubblicità”, in cui Tomba individua “lo specifico filosofico della riflessione kantiana” (p.106). La difesa della libertà di espressione presuppone in Kant il riconoscimento dello spazio fondamentale della ragione umana universale (allegmeine Menschenvernunft) che può esternarsi solo nella comunicazione di una sfera pubblica, libera di discutere e giudicare; in tal senso la censura rappresenterebbe un serio impedimento alla ricerca della verità comune (gemeinschaftliche Warheit) e conseguentemente una violazione essenziale della socialità umana. Il terreno della pubblicità è quello in cui una pluralità di punti di vista particolari si confronta intorno all’universalità dell’idea, idea della verità e della giustizia, che mantiene rispetto ad essi carattere trascendente; in questa dimensione della ragione comune il consenso si costruisce su base non empirica, ma razionale, ovvero nell’alveo di una razionalità condivisa da cui nessuno, contrariamente all’impostazione rawlsiana, può essere escluso.
Nel paradigma kantiano l’autore rinviene gli argomenti della critica del relativismo e del moderno concetto di tolleranza, nei quali si annida, dietro un apparente elogio del pluralismo, il primato dell’indifferenza all’insegna del quale si costruisce il rapporto che la dimensione doxastica delle opinioni private intrattiene con la verità . Nell’economia della riflessione kantiana la verità comune presuppone invece una partecipazione collettiva alla pratica della ragione in virtù della quale ciascuno è chiamato a mettere in gioco il proprio, rendendo impossibile l’indifferenza della posizioni particolari.
Questa ragione pubblica e partecipata –precisa Tomba- “non è il luogo habermasiano dell’intesa discorsiva, dove attraverso pubbliche discussioni, è possibile convincere o essere convinti della bontà di un argomento, ma è il trascendentale di un diritto pubblico, ciò in virtù di cui il diritto è diritto e viene prodotto come tale.” (p.162). Nell’esercizio pubblico della ragione si apre la possibilità di ripensare la questione della giustizia oltre i presupposti della tradizione liberale e democratica: laddove infatti la logica doxastica della maggioranza –quella in base a cui la decisione viene demandata ad una somma di consensi privati che non necessariamente aspirano alla realizzazione della giustizia- si rivela essere non dissimile dalla logica del più forte, il concetto di pubblicità consente di mettere fuori gioco la validità di questi modelli. Della giustizia decide allora non il consenso empirico degli individui –che, anche qualora fosse superiore numericamente, non darebbe nessuna garanzia della sua superiore giustezza rispetto al giudizio della minoranza- ma l’assenso ideale della ragione ad una legge. Fuorviante risulta perciò agli occhi di Tomba l’interpretazione di Kant in senso canonicamente democratico in relazione all’elemento del consenso, perché la nozione kantiana della Zusammen Bestimmung mette in crisi proprio il criterio della maggioranza, nel sottintendere che affidarsi al consenso della maggioranza equivalga ad affidarsi alla legge del più forte e nel riferirsi parallelamente ad una idea originaria del contratto, posta a fondamento della convivenza politica, cui i governanti e governati devono entrambi fare appello. Costruendo il progetto della Weltrepublik sull’elemento del consenso autonomo della ragione pubblica alla legge, Kant salva la giustizia dalla deriva procedurale cui essa è condannata nella costellazione del pensiero moderno. La risorsa più proficua del pensiero kantiano risiede in ultima istanza nell’eccedenza dell’idea di giustizia in quanto “volontà universale data a priori che sola determina quello che fra gli uomini è giusto” (p.167), con la quale viene sopravanzato l’orizzonte strumentale del diritto. Il riferimento all’idea della giustizia permette la pensabilità di una sfera politica adeguata alle istanze della legge morale, una politica che sia autentica prassi e non mera tecnica, una politica fondata su una concezione non liberale della pubblicità e all’interno della quale la pace sia possibile come reale interruzione dello stato di guerra permanente: essa apre lo spazio di una “vera politica”.
Da Kant a Benjamin, cui è dedicato il III capitolo (“La “vera politica”: rileggendo Walter Benjamin”), la riflessione di Tomba prosegue enucleando il senso di quella operazione di rovesciamento della Zweck-Mittel Relation, insediata al cuore del pensiero politico moderno, che accomuna le filosofie dei due autori. La relazione mezzo-fine sposta tutto l’accento sulla giustezza del fine, ammessa la quale anche i mezzi risultano indirettamente giustificati. A questo paradigma Kant contrappone una teoria della prassi intesa in senso non strumentale, in base a cui l’idea non deve essere realizzata perché la sua realtà è gia implicita nella prassi e la prassi, d’altro canto, deve trovare in se stessa, ovvero nella conformità alla legge morale, la realtà della propria giustificazione; in tal modo vengono meno i fini da realizzare e con essi i mezzi da giustificare.
Parimenti nella filosofia di Benjamin la possibilità rivoluzionaria del cambiamento sussiste solo ed unicamente come interruzione di quella continuità viziosa innescata dalla Zweck-Mittel Relation.
Benjamin parte dall’irriducibilità della sfera del diritto alla realtà della giustizia, constatando come il lessico del diritto conosca solo lo spazio della giustificazione dei mezzi e non l’orizzonte autentico della giustizia, e come conseguentemente ciò renda possibile la giustificazione all’infinito della Gewalt in quanto mezzo in vista di un fine giustificato. Il mezzo deve invece fornire un criterio immanente della propria giustezza, così come la prassi non deve essere organizzata in relazione ad un fine estrinseco e successivo –la realizzazione dell’idea- ma deve determinarsi in se stessa, in quanto prassi conforme all’idea.
Tra diritto naturale e diritto positivo l’autore del breve scritto Zur Kritik der Gewalt (1921) individua non lo spazio di una cesura, ma l’annidarsi di una pericolosa circolarità in base alla quale “il diritto naturale tende a giustificare (rechtfertigen) i mezzi attraverso la giustizia degli scopi, e il diritto positivo garantisce la giustizia degli scopi attraverso la conformità al diritto (Berechtigung) dei mezzi” (p.215). In questo contesto l’uso della violenza monopolizzato dallo Stato sovrano attraverso l’esercizio della prassi poliziesca non deve essere concepito come un elemento di eccezionalità, ma come ciò in cui eccezione e norma si fondono coimplicandosi; tale incastro, da cui si produce la normalizzazione dello stato d’eccezione, viene considerato da Benjamin costitutivo e intrinsecamente connaturato alla struttura dell’edificio democratico e non semplicemente l’espressione puntuale di un processo degenerativo delle istituzioni democratiche.
Nell’eccezione elevata a regola la violenza del potere sovrano è pienamente giustificata e insieme ad essa anche l’insieme di quelle contro-violenze antistatali che lottano per scalfire il monopolio statale della Gewalt. Il circolo scambievole delle opposte violenze tuttavia non interrompe, se non apparentemente, la continuità del diritto, la quale può essere oltrepassata solo attraverso l’istituzione di un altro genere di violenza che sia gewaltlos rispetto alla Gewalt del giuridico; occorre insomma per dirla con le parole di Benjamin della Zur Kritik der Gewalt “un criterio capace di intervenire sulla natura etica (sittlich) della Gewalt in quanto principio” (p.233).
Benjamin si interroga sulla possibilità della ricomposizione non violenta dei conflitti appellandosi a quella sfera extragiuridica della comunicazione che è la lingua priva di violenza -la quale attraverso la parola è in rapporto immediato con il vero- e che richiama da vicino l’orizzonte kantiano della pubblicità. Non si tratta della parola resa strumentale e asservita alle esigenze della comunicazione, anch’essa infiltrata dall’ingrediente della Gewalt giuridica, ma di un ideale della lingua simbolica capace, ancora una volta, di porsi al di là del rapporto mezzo-fine e sottrarsi al destino della violenza.
Da qui il discorso di Benjamin si spinge oltre, alla ricerca di un paradigma che sappia incarnare il modello di una Gewalt gewaltlos, vero punto d’approdo della sua indagine. Egli allude ad un genere di violenza che sia non-violento rispetto alla violenza del diritto, una violenza che sia mezzo puro (reine Mittel), e incontra, attraverso l’analisi marxiana, nella realtà della lotta di classe l’incarnazione del modello di una tale Gewalt. Quest’ultima non è non-violenta nel senso in cui potrebbe esser definita pacifica, ma è gewaltlos nella misura in cui pone la questione di una violenza di altro genere e realizza attraverso la prassi di lotta del proletariato la fine della temporalità violenta del diritto vigente.
E’ necessario pertanto, nel tentativo di pensare una violenza altra, pervenire all’elaborazione di una temporalità storica altra, operazione che Benjamin effettua ricorrendo al concetto del messianico inteso come momento di interruzione della storia. La giustizia viene allora a coincidere con la possibilità dell’interruzione temporale apparentata da Benjamin alla gottliche Gewalt, al giudizio di Dio, che nel dischiudere e redimere le possibilità schiacciate dalla limitatezza dell’ordine terreno, esercita una violenza capace di distruggere il continuum della violenza fenomenica dominata dalla legge del più forte. Ancora una volta, come nel caso kantiano dell’idea, salvifico si rivela pertanto il rapporto con la trascendenza; giusto diviene “il momento della redenzione degli infiniti ordini possibili, ai quali è stata fatta ingiustizia nella de-cisione a favore di un ordine” (p.248).
Interessante è il senso dell’operazione condotta da Tomba nell’accostamento del trascendente e del messianico al fine di individuare il terreno di un pensiero e di un discorso sulla giustizia capaci di sottrarsi alla strumentalità del diritto contemporaneo. Nel ricorso a Kant e a Benjamin - nel fare appello all’idea kantiana e alla Gewalt gewaltlos di W. Benjamin - divengono manifeste le intenzioni dell’autore di destituire l’autorità di una tale concezione strumentale della giustizia e di farlo non per mezzo della confutazione puntuale e circoscritta delle sue conseguenze, ma attraverso un rifiuto generale dell’intero suo paradigma. L’autore vede bene l’impossibilità di poter controbattere alla retorica dei mezzi e dei fini del pensiero giuridico moderno – si pensi nuovamente a Rawls- rimanendo sul piano della medesima logica strumentale; non si tratta pertanto di opporre alle precedenti, nuove e diverse giustificazioni dei mezzi, né di limitarsi a contestare la giustezza di un fine contingente, distinguendo guerre giuste e ingiuste. Si tratta invece di ricusare in blocco la catena delle giustificazioni; procedere alla ricerca di un punto di interruzione che consenta di arrestare il meccanismo di autolegittimazione del discorso giuridico. E questo soprattutto nella misura in cui ciò che all’interno di tale discorso tende ad essere rappresentato in maniera fuorviante come l’esito accidentale – ed evitabile - di un processo degenerativo altrettanto accidentale, viene nel corso di queste pagine significativamente restituito al suo carattere di conseguenza costitutiva e sistematica di un determinato ordine di idee: “l’esito tirannico della statualità moderna” è infatti secondo Tomba necessario e non casuale, discendente proprio da quella consolidata rimozione della giustizia dalla sfera politica moderna che lascia alla forza la possibilità di decidere del giusto e del non-giusto. Merito dell’autore è l’invito rivolto a interrogarsi sul senso e sulle implicazioni profonde di un universo consegnato alla legge della forza: “L’idea che il più forte sia anche il più giusto – nota giustamente - è un dogma che la democrazia condivide con il fascismo” (p.14). Occorre allora sganciare l’elemento della giustizia dalla deriva della forza, che opportunamente Tomba rinviene non solo nell’esperienza della prevaricazione fisica, ma anche nella sfera solo apparentemente non violenta delle opinioni private.
E’ in tal senso che interviene l’appello all’idea della giustizia verso la dischiusura di un orizzonte di eccedenza assolutamente non riducibile alla dialettica dei mezzi e dei fini, e tale da garantire invece l’assoluta ulteriorità dello spazio di una teoria e di una pratica della giustizia. E qui ovviamente l’indicazione di Tomba non deve essere equivocata: Kant e Benjamin non costituiscono in questa sede il presupposto né il pretesto per l’inaugurazione di soluzioni utopiche, né tantomeno contemplative. Di essi l’autore non rievoca nemmeno la presunta attualità, ma solo in maniera paradigmatica “la forza filosofica per porre una domanda intorno al giusto” (p.13); la forza illuminista di Kant filosofo della ragione pubblica, la forza della crisi e della critica di Benjamin; entrambe meritevoli di aver opposto all’apparato tecnico-retorico del diritto l’idea assoluta della Giustizia; entrambe forze dell’interruzione e della redenzione di quel continuum temporale all’interno del quale si conserva e si riproduce l’universo del diritto moderno, entrambe forze della trascendenza.
Il rapporto della trascendenza e del politico, esplorato nella fattispecie attraverso le opere dei due filosofi tedeschi, è probabilmente uno degli elementi più interessanti di questo volume. La trascendenza, cui viene consegnata l’idea della giustizia, opera infatti come un dispositivo dell’interruzione e del mutamento, e come tale si rivela essenziale alla sopravvivenza dell’elemento politico.
Il tempo della Wahre Politik del resto nasce proprio all’interno di una pratica della rottura e della discontinuità. Pertanto l’invito a pensare la possibilità dell’impossibile come possibilità della giustizia, implica e chiama in causa, sull’esempio di Kant e Benjamin, la necessità di un pensiero che sappia impiegare la forza dei suoi concetti nell’operazione di interrompere/redimere il tempo fenomenico e di un pensiero che non intenda rimuovere, bensì evocare e conservare, il proprio rapporto con la trascendenza in vista dell’apertura di una verità altra.
Indice
Abbreviazioni
Introduzione
1.Dal bellum justum al just war? Eclissi della giustizia
2.La sfida di Kant: la “vera politica” della pace
3.La “vera politica”:rileggendo Walter Benjamin
Bibliografia
L'autore
Massimiliano Tomba (1968) è ricercatore di filosofia politica presso l’Università di Padova. Ha pubblicato vari saggi su Kant, Hegel e Marx; ha curato l’edizione di B. Bauer e K. Marx, La questione ebraica, Manifestolibri, Roma, 2004 e recentemente la prefazione alla traduzione italiana del libro di Daniel Bensaid Marx l’intempestif (Marx l’intempestivo. Grandezze e miserie di un’avventura critica, Edizioni Alegre, Roma, 2007). E’ autore di Crisi e critica in Bruno Bauer, Bibliopolis, Napoli, 2002.
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