Bologna, il Mulino, [Le vie della civiltà], 2007, pp. 294, € 19,50, ISBN 978-88-15-11519-5.
Ed. Orig: Crowder, George, Isaiah Berlin. Liberty and Pluralism, Cambridge, Polity Press, 2004.
Recensione di Giuliano Manselli – 15/07/2007
Liberalismo, Pluralismo, Filosofia politica, Storia della filosofia, Illuminismo, Determinismo storico
Il titolo dell’edizione italiana dell’opera di Crowder occulta in parte il vero scopo del libro, reso ben più chiaramente da quello originale “Isaiah Berlin. Liberty and Pluralism”. Il testo infatti, pur presentandosi come una monografia su Berlin, approfondendo quelli che Crowder considera, non senza ragione, i due motivi fondamentali della produzione berliniana, ossia la riflessione sul concetto di libertà e la delineazione del pluralismo dei valori, tenta in realtà di dimostrare se e come la prospettiva pluralista di Berlin sia compatibile col liberalismo.
Da questo punto di vista il testo va considerato in stretta continuità con le opere precedenti di Crowder, “Pluralism and Liberalism” (1994) e “Liberalism and Value Pluralism” (2002), in cui lo spinoso problema dei rapporti tra pluralismo e liberalismo era già stato sollevato. E porta avanti una tesi che, pur restando nell’ambito della posizione generale di Berlin, va ben oltre le sue intenzioni. Così se nei primi cinque capitoli del libro viene chiarito e analizzato in maniera approfondita il pensiero di Berlin, è negli ultimi tre che si delinea l’ardito tentativo di Crowder di trasformarne l’opzione pluralista, più legata ad una politica liberale moderata particolarmente attenta alla libertà negativa, in una prospettiva che, insistendo sul valore dell’autonomia personale, si lega più direttamente ad una concezione positiva della libertà.
Riguardo alla brillante analisi condotta da Crowder sul pensiero di Berlin nei primi capitoli, essa è portata avanti secondo un andamento cronologico e in modo straordinariamente approfondito. Più che la massa di particolari e di citazioni, ciò che colpisce è il tentativo di affrontare senza timore quelli che possono essere i punti più controversi, più deboli o meno chiari dell’esposizione berliniana. Preoccupandosi di rispondere inoltre a tutte le critiche con riferimenti precisi ai testi dell’autore o, dove questi tace, cercando di interpretare ciò che egli avrebbe potuto dire.
Da quanto emerge nel capitolo primo, “Riccio e volpe”, gran parte dell’opera di Berlin ruota attorno ad un progetto dominante: la lotta liberale contro il totalitarismo del XX secolo, in particolare nella sua forma comunista. Secondo Berlin le origini del totalitarismo si radicano in quel tradimento della libertà operato dal monismo morale dominante nella storia del pensiero occidentale, che, ritenendo vi sia un’unica soluzione capace di risolvere tutti i conflitti, armonizzandoli in una società perfetta, permette di giustificare qualsiasi mezzo, anche totalitario, per la sua realizzazione.
Berlin di contro, come antidoto alla deriva totalitaria, propone il pluralismo dei valori, non solo perché rispecchia più fedelmente la vera natura della morale umana, ma anche perché, cercando di contenere il disaccordo piuttosto che trascenderlo, tende per sua natura alla moderazione e alla tolleranza tipiche del liberalismo.
Ma come risulta dall’analisi dei diversi aspetti dell’identità, che in varia misura hanno contribuito alla formazione del suo pensiero, il favore di Berlin per la moderazione liberale è soprattutto il frutto di esperienze e convinzioni personali. Nel capitolo secondo, “Tre aspetti di una identità”, emerge così come la sua personalità sia stata formata da tre diverse tradizioni: russa, inglese ed ebraica.
È infatti nel suo paese adottivo, l’Inghilterra, che egli fa esperienza della libertà e della tolleranza tipici di quella società e si forma intellettualmente, cominciando la sua carriera filosofica ad Oxford. Ambiente in cui fa sue le tesi di fondo dell’empirismo inglese, anche se in controtendenza rispetto al positivismo logico allora in voga ad Oxford. Pur ammirandone la chiarezza espositiva, e la critica dei grandi sistemi metafisici, Berlin ne rigetta però lo scientismo psicologista che pretende di applicare i metodi delle scienze naturali a tutti i campi del sapere. Secondo Berlin, invece, ambiti come la teoria politica e la filosofia necessitano di un approccio storicistico, che tenga conto del contesto storico delle idee. E tale interesse per la dimensione storica delle idee si radica non solo nella risposta alla filosofia oxfordiana, ma anche nel suo studio su Marx, “Karl Marx. His Life and Environment” (1939), sua prima opera pubblicata, che rappresenta proprio il suo passaggio dalla filosofia analitica alla teoria politica e alla storia delle idee.
Berlin pur condividendo con Marx la convinzione della storicità di idee e valori, ritiene che il suo materialismo generi uno scientismo utopico secondo cui le leggi della storia garantiscono la creazione di una nuova società perfetta in cui tutti i bisogni umani legittimi saranno infine realizzati. In questo si adombra il modello di ciò che in seguito Berlin chiamerà monismo morale, la credenza cioè in un unico fine cui tutto il resto va subordinato, giustificando ogni mezzo per la sua realizzazione. Marx si pone così come l’archetipo del suo bersaglio critico, in quanto incarnazione di una delle più antiche tradizioni del pensiero occidentale. Berlin si occuperà di ricostruire tali tradizioni, stimolato proprio dallo studio su Marx, che lo aveva posto in contatto coi suoi precursori: i philosophes illuministi e i critici dell’illuminismo.
Non meno importante per la comprensione di Berlin è poi l’analisi dell’elemento russo della sua identità. Anzitutto egli era di madrepatria e madrelingua russa, nonché avido lettore dei grandi scrittori russi del XIX secolo: Tolstoj, Dostoevskij, Puškin, Turgenev, Čechov. Ma ancora più determinante fu per lui l’esperienza di un breve ritorno in Russia nel 1945 dove venne in contatto con gli scrittori Boris Pasternak e Anna Achmatova. Incontri che gli aprirono gli occhi sull’effetto che un sistema totalitario può produrre in generale sugli individui, e in particolare, opprimendo gli artisti, su un’intera cultura. Per Berlin, Pasternak e la Achmatova, sono infatti gli ultimi rappresentanti di una tradizione culturale russa prerivoluzionaria che, combinandosi col meglio della civiltà occidentale, aveva ben compreso il pericolo della libertà individuale insito nel radicalismo politico che ammette qualsiasi sacrificio per il raggiungimento di un valore ultimo. Tale tradizione fu sommersa dal radicalismo dell’intellighenzia russa del XIX secolo che, appropriandosi delle idee più drammatiche provenienti dall’Occidente, le avevano portate alle estreme conseguenze senza curarsi degli effetti che tali idee avrebbero avuto sulle persone in carne ed ossa.
Berlin si sforza così attraverso una serie di saggi, primo fra tutti “Russian Thinkers” (1978), di recuperare le voci perdute di pensatori russi come Belinskij, Herzen o Turgenev che, per quanto appassionati ed impegnati, esibivano minori certezze e un liberalismo moderato, cancellato dalla Rivoluzione bolscevica del 1917.
La sua origine ebraica lo spinge invece a porre l’attenzione sull’importanza dell’identità culturale, una delle caratteristiche più importanti del suo liberalismo, rendendolo consapevole del danno inflitto agli uomini negando la loro esigenza di appartenenza. Berlin subordina però il principio dell’identità culturale a quello della libertà di scelta: in “Schiavitù ed emancipazione degli ebrei” (1951), sostiene vi sia più di un modo di essere ebrei, per cui ciò che più conta è la libertà dell’individuo di scegliere tra più forme di vita. Ciò va al cuore della concezione di libertà negativa su cui insiste Berlin.
L’esistenza stessa di Israele emancipa infatti tutti gli ebrei, ovunque essi si trovino, poiché dà loro un’opportunità di scelta su come realizzare il proprio essere ebreo. Dunque, al di là della questione ebraica, il bisogno di appartenenza viene da lui posto come bisogno in sé universale, legandosi in tutto e per tutto alla sua concezione liberale.
Il capitolo terzo “Il tradimento della libertà” si occupa invece dell’opera di Berlin agli inizi degli anni Cinquanta, situandola nel contesto della guerra fredda in cui si fa più urgente il problema della libertà individuale.
Per Berlin il razionalismo settecentesco è la radice tanto della democrazia liberale quanto del comunismo, poiché entrambi si fondano sull’idea che le questioni morali e politiche possano essere affrontate con metodo scientifico. Tuttavia, se nel primo caso il razionalismo è temperato dalla consapevolezza che i valori fondamentali, come libertà ed eguaglianza, siano incompatibili e vadano bilanciati assegnando maggior importanza all’autonomia morale dell’individuo, il comunismo non pone limiti al razionalismo. Non che nel mondo occidentale per Berlin la libertà individuale sia del tutto immune dalla minaccia razionalista. Anzi in “Le idee politiche del ventesimo secolo” (1950) egli sostiene che l’irrazionalismo caratteristico dei totalitarismi del XX secolo sia scaturito direttamente dalle grandi ideologie del XIX secolo: liberalismo e socialismo, che, benché opposti, trovano un comune denominatore proprio nell’ottimismo razionale figlio dell’illuminismo. Nella convinzione di poter risolvere razionalmente tutti i problemi significativi del mondo si è finito infatti per privilegiare il ripudio del giudizio critico e razionale da parte di individui autonomi. L’irrazionalismo del pensiero politico del XX secolo non si riferisce però al rifiuto esplicito della ragione di alcune argomentazioni controilluministe, si radica piuttosto nella riduzione della ragione a funzioni puramente strumentali, prodotto dall’inclinazione alla tecnocrazia dello scientismo illuminista che, nel XX secolo, si è manifestata in una pratica politica tesa alla rimozione dei problemi. Presente non solo in regimi totalitari come il fascismo o il comunismo, ma anche in quelle società democratiche che affrontano i problemi di coscienza come nevrosi da curare o eliminare. Antidoti a tali pericoli si possono per Berlin rintracciare proprio nel controilluminismo e nel Romanticismo: i primi romantici hanno infatti compreso la giusta esigenza dell’autonomia individuale. Ma anche in questo caso bisogna tuttavia fare molta attenzione. Sulla scia di tali considerazioni infatti Berlin abbozza per la prima volta quella distinzione tra libertà negativa e positiva che inizialmente sarà posta come distinzione tra: una visione preromantica e liberale della libertà, intesa come assenza di costrizioni esterne, ed una concezione romantica, intesa come autodeterminazione, come capacità cioè di realizzare il proprio vero io. È a partire da ciò che Berlin imposta quella che Crowder definisce la teoria dell’inversione, secondo cui la libertà positiva dei romantici sia pericolosa perché suscettibile di essere capovolta nel suo opposto, e capace di fornire un modello ai dittatori del XX secolo per giustificare l’oppressione in nome della libertà stessa. Una drammatica esposizione di tale inversione è fornita da Berlin nelle sue conferenze radiofoniche del 1952, pubblicate poi come “La libertà e i suoi traditori” (2002), attraverso l’analisi di pensatori come Rousseau, Fichte o Hegel che, dichiarandosi amanti della libertà, ne hanno trasformato il significato giustificandone ogni abuso. È contro tale potenziale capovolgimento insito nell’ideale romantico di libertà che Berlin si propone di difendere la nozione più fondamentale di libertà negativa.
Così nel capitolo quarto, “Due concetti di libertà”, viene approfondita l’opera in cui la distinzione concettuale tra libertà negativa e positiva trova la sua formulazione più classica. La lezione inaugurale tenuta da Berlin ad Oxford, alla cattedra di Teoria Politica e Sociale, dal titolo “Due concetti di libertà” (1958), rappresenta il suo capolavoro, ed è una delle opere più famose e influenti del pensiero politico del XX secolo. Tuttavia, Crowder non si limita ad esporne i contenuti, ma si propone anche di rispondere a molte delle critiche che l’opera ha sollevato. Mostra così come molte di esse siano basate su fraintendimenti che, accumulandosi, hanno finito per acquisire lo status di veri e propri miti sul pensiero di Berlin. Primo fra tutti quello per cui le due categorie di libertà da lui proposte debbano intendersi come esaustive di tutti i possibili significati della parola libertà, quando lo stesso Berlin riconosce per primo che vi siano molte concezioni valide del termine, fra le quali egli si è limitato solo a scegliere le due più rilevanti. Altro mito è la presunta confusione di Berlin della libertà positiva come autonomia con la libertà effettiva e la partecipazione politica, laddove Berlin è sempre attento a tenere ben distinti questi concetti.
Ma è la decostruzione del terzo mito, e cioè che la critica della libertà positiva si risolva in un suo totale rifiuto e nell’affermazione della libertà negativa come unica concezione legittima, che dà modo a Crowder di approfondire quello che è l’obiettivo principale di “Due concetti di libertà”. Per quanto sospettoso nei confronti della nozione positiva di libertà, Berlin non è infatti del tutto ostile al concetto, né esclusivamente favorevole alla sua versione negativa. La sua critica alla libertà positiva per Crowder si articola infatti su tre livelli progressivi: al primo si fa nuovamente riferimento alla teoria dell’inversione. Cioè a quel rischio di tradimento della libertà che una sua concezione positiva può produrre, e a cui la libertà negativa sarebbe meno esposta, essendo mera non interferenza con ciò che il soggetto voglia fare indipendentemente da considerazioni moralistiche sulle sue scelte personali. Al secondo livello della critica si situa invece la tesi della confusione secondo la quale il discorso politico moderno tende a sminuire e a svuotare di significato la libertà confondendola con altri valori: “ma la libertà è libertà, e non eguaglianza o equità o giustizia o cultura o felicità umana o coscienza tranquilla” (p.106). Ancora una volta la concezione positiva di libertà può, attraverso questa confusione concettuale, portare ad una trasformazione della libertà in oppressione, ingenerando l’idea che essa possa venir sacrificata a favore di altri valori. Infine il terzo livello della critica alla concezione positiva di libertà riguarda il suo presupposto monismo morale, che, esigendo il sacrificio degli individui in vista della realizzazione di una società politica perfetta, si pone come premessa ultima della prospettiva autoritaria. È proprio nell’ottica del monismo morale dominante nella storia del pensiero occidentale che si annida la minaccia più insidiosa: è infatti esso che ha aperto la porta al tradimento della libertà e alla confusione dei valori.
Tutto ciò tuttavia non comporta l’abbandono della libertà positiva a vantaggio di quella negativa, perché, dal punto di vista del pluralismo etico adottato da Berlin, la libertà positiva è un bene legittimo quanto quella negativa. Egli si limita a considerare che un sistema politico liberale moderato, in cui la libertà negativa abbia un ruolo più centrale, sia meno soggetta al pericolo autoritario e più coerente con una prospettiva pluralista. In definitiva, conclude Crowder, interpretare il saggio solo nella retorica della guerra fredda sminuisce la profondità della sua analisi della libertà: “come il terrorismo internazionale ha reso sin troppo evidente, l’idea che la liberazione possa essere concepita attraverso l’identificazione totale con un ideale che è più grande dell’individuo, e che si ritiene possa essere legittimamente attuato con l’uso massiccio della violenza, è vivo e fiorisce anche nel nostro mondo (p.134).
Nel capitolo quinto “L’illuminismo e i suoi critici” Crowder ritorna sul concetto di tradimento della libertà, soffermandosi però più approfonditamente sul ruolo determinante avuto in ciò dall’illuminismo e i suoi oppositori, ossia il controilluminismo e i romantici. Questo tema, centrale nelle opere di Berlin degli anni Sessanta e Settanta, permetterebbe a Crowder, non solo di comprendere meglio il peculiare metodo applicato da Berlin allo studio della storia delle idee, ovvero la pratica dell’empatia immaginativa, ma di approfondire tanto i nessi tra l’analisi di Berlin dell’autoritarismo e della libertà, quanto il suo modo di intendere il pluralismo dei valori e il monismo morale.
L’atteggiamento di Berlin verso l’illuminismo e i suoi oppositori del resto è molto complesso: se l’illuminismo ha infatti prodotto valori importanti come la libertà e la tolleranza, un esempio per tutti il pensiero di Voltaire, lo scientismo e utopismo tecnocratico da esso implicati sono stati però la fonte del totalitarismo sovietico; mentre controilluminismo e romanticismo hanno finito per generare quel tipo di nazionalismo estremo, culminante nei fascismi del XX secolo, che non va tuttavia confuso con quel bisogno di appartenenza e di riconoscimento fondamentali della natura umana.
Ma Berlin è altresì convinto che proprio i critici dell’illuminismo ci abbiano fornito l’antidoto intellettuale al totalitarismo in tutte le sue forme: la nozione di pluralismo dei valori. Pensatori come Vico e Herder hanno infatti confutato l’atteggiamento astorico e universalistico dello scientismo illuminista, affermando, l’uno, che le società passano attraverso fasi storiche successive contrassegnate ognuna da una propria cultura e da propri standard giuridici, politici, etici ed estetici; l’altro, che le culture umane non solo sono diverse, ma incommensurabili, non esiste quindi un criterio comune per sottoporle ad una critica comparativa. Costoro ci hanno dunque fornito l’idea del pluralismo dei valori, ossia l’idea che i valori fondamentali sono irriducibilmente multipli e talvolta confliggenti. È questa per Berlin un’arma potente contro l’autoritarismo derivante dal monismo morale.
A questo punto si apre però la questione se ciò che egli chiama pluralismo non sia in realtà assimilabile al più comune concetto di relativismo etico. Ciò comprometterebbe infatti il suo liberalismo, minacciando la pretesa che certi diritti umani fondamentali abbiano valore universale. In “Sul presunto relativismo nel pensiero europeo del Settecento” (1980), egli replica a tale obbiezione affermando che Vico ed Herder sono pluralisti, perché insistono sul fatto che si possano capire e apprezzare le altre culture entrando immaginativamente dentro la loro visione del mondo e della morale. Vi sarebbe infatti sufficiente universalità nell’esperienza umana da rendere le culture altre comprensibili, ed apprezzarne i valori genuini con cui possiamo immaginare di poter vivere. Si tratta di un tipo di comprensione empatica che implica la concezione di un orizzonte umano fatto di un insieme di valori universali condivisi.
Ovviamente capire dei valori non significa necessariamente condividerli, possiamo ad esempio comprendere e simultaneamente condannare il nazismo. L’orizzonte comune di valori a cui fa riferimento Berlin riguarda infatti valori che esprimono “i bisogni e le aspirazioni reali di normali esseri umani”. Ciò costituirebbe dunque una base per una critica transculturale ove i valori umani fondamentali fossero negati, realizzati inadeguatamente o in maniera distorta. Il pluralismo perciò, diversamente dal relativismo, riconosce l’esistenza di criteri in base ai quali certe pratiche possono essere messe in discussione. Ma tutto ciò, si chiede Crowder, basta a giustificare il liberalismo di Berlin?
Nel capitolo sesto, “Pluralismo e liberalismo”, Crowder ribadisce che la relazione tra pluralismo e liberalismo rappresenta il problema centrale del pensiero di Berlin. Infatti, da un lato, il tradizionale progetto liberale è universalista, rivendica cioè la validità di valori come la libertà individuale e la tolleranza per ogni luogo e tempo; dall’altro, per il pluralismo sembrano esistere diversi ed egualmente validi insiemi di valori, di cui il liberalismo sarebbe solo un’espressione politica, senza alcuna pretesa di superiorità. Pur distinguendo però il pluralismo dal relativismo, l’incommensurabilità dei beni lascia aperto il problema riguardo alla possibilità di scelta tra valori conflittuali:perché mai infatti la nostra scelta deve essere necessariamente di tipo liberale?
E’ a questo punto che comincia a delinearsi il superamento dell’effettivo pensiero di Berlin da parte di Crowder, anche se nel tentativo di mantenersi coerente con la prospettiva da lui tracciata. Per Crowder le due tesi portate da Berlin a sostegno del rapporto tra pluralismo e liberalismo, pur se non completamente soddisfacenti, offrono lo spunto per argomentazioni migliori. La prima tesi proposta da Berlin si basa sul valore della scelta: se il pluralismo è vero, la necessità di scegliere tra esigenze assolute è ineluttabile. Ciò conferirebbe valore alla libertà come attributo indispensabile per operare una scelta, implicando di conseguenza un ordine liberale basato sulla libertà negativa. Ma a dire di Crowder questa tesi sarebbe errata, poiché passa direttamente dalla constatazione di fatto dell’inevitabilità della scelta all’assunzione del valore della libertà senza una qualche giustificazione. E anche la seconda tesi addotta da Berlin, benché più cogente, resta incompleta: si basa infatti sull’idea che il pluralismo, implicando l’impossibilità della perfezione politica, esiga forme di politica compatibili con tale imperfettibilità. Per cui il liberalismo, la cui missione storica è sempre stata il contenimento del conflitto sociale piuttosto che la sua eliminazione, sarebbe quella più adatta. Su questo punto Crowder, pur se d’accordo sulla corrispondenza tra liberalismo e antiutopismo pluralista, ritiene tuttavia che quest’ultimo sia compatibile anche con altre forme politiche, come ad esempio il conservatorismo, che sottolinea la necessità di contenere il conflitto derivante dall’imperfettibilità umana. Ciò non significa che non si possa condurre comunque una difesa pluralistica del liberalismo. Anzi, è proprio riprendendo e migliorando le argomentazioni di Berlin che secondo Crowder questo può essere fatto.
Così nel capitolo settimo, “Dopo Berlin”, egli sviluppa questo tentativo confrontandosi anche con alcuni pensatori critici nei confronti di Berlin. Nei primi anni Ottanta il dibattito sul pensiero di quest’ultimo si era infatti spostato, rispetto agli anni Sessanta e Settanta in cui l’attenzione dei critici era focalizzata sulla nozione di libertà, sul concetto di pluralismo. La principale divisione di opinioni era quella tra scuole liberali e non, cioè tra chi difendeva il legame stabilito tra pluralismo e principi liberali, e chi invece lo rifiutava associando il pluralismo ad alternative politiche come conservatorismo e pragmatismo. Principale portavoce di questo secondo orientamento è stato John Gray, il quale sostiene che il pluralismo, lungi dal sostenerlo, riconosca il liberalismo solo come forma politica agonistica in competizione con altri sistemi di valori altrettanto rilevanti. Non essendovi quindi criteri validi per una scelta razionale tra valori incommensurabili se non a livello contestuale, solo la rispettiva tradizione culturale di appartenenza può fornire le basi per una soluzione razionale dei conflitti. Questo contestualismo tradizionalista secondo Crowder è opinabile: infatti nulla ci impone di identificare il contesto con la tradizione, né le tradizioni stesse, attraversate spesso da conflitti interni irresolubili, sembrano in grado di trovare soluzioni all’incommensurabilità dei valori. Proprio per rispondere ad obiezioni di questo tipo Gray ha in seguito abbandonato il tradizionalismo, per approdare ad una forma di pragmatismo fondata sul concetto di modus vivendi, ossia una regola universale per la soluzione di conflitti, determinata da una sorta di compromesso su standard minimi di decenza e legittimità. Questi, secondo Gray, sarebbero rappresentati da alcuni valori universalmente prevalenti, tra cui la pace e l’interesse personale. Ma, sottolinea Crowder, Gray finisce così per assumere la stessa posizione da lui attribuita ai liberali e da lui criticata in nome del pluralismo. Perché infatti una prospettiva pluralista dovrebbe sostenere la pace o l’interesse personale piuttosto che i valori liberali? Crowder è convinto che sia invece possibile individuare criteri per una scelta ragionata proprio all’interno del concetto stesso di pluralismo. Anzi, riflettendo sugli elementi costitutivi, messi in luce da Berlin, si possono desumere principi, non solo applicabili universalmente, ma addirittura riferibili a valori specificatamente liberali. Accettare il pluralismo significa infatti promuovere la diversità di beni e stili di vita, implica cioè un’etica della diversità che politicamente può essere meglio soddisfatta dalla tolleranza e dalla libertà individuale garantite dal liberalismo. Quest’ultimo rappresenta inoltre lo strumento migliore per contenere il disaccordo ragionevole, legittimato dal pluralismo, proprio per questa sua capacità di ospitare un’ampia diversità di valori.
Crowder attua però a questo punto una netta distinzione tra un modello di liberalismo della Riforma ed uno dell’illuminismo. Se il primo si fonda infatti sulla tolleranza e considera lo stato come un contenitore politico per concezioni differenti del bene, anche illiberali; il secondo pone l’autonomia personale come suo ideale guida, e reputa che lo stato, promuovendo attivamente valori liberali, debba intervenire nei confronti di quegli atteggiamenti che liberali non sono. E’ su questa seconda prospettiva che si colloca Crowder richiamandosi al concetto di orizzonte umano di Berlin. Questo concetto infatti riconosceva la possibilità di una critica transculturale verso valori e pratiche illiberali. Ma, ammonisce Crowder, perché ciò sia possibile, è necessario lo sviluppo del giudizio critico, il che presuppone l’autonomia personale: se il pluralismo è vero, non possiamo evitare di scegliere, ma affinché ogni scelta sia fatta adeguatamente è necessario essere autonomi. La tesi forte di Crowder è dunque che, in regime di pluralismo, la scelta razionale richiede l’esercizio di alcune virtù liberali che il liberalismo, appunto, è l’unico sistema in grado di promuovere. Così, attraverso l’adozione del concetto di autonomia personale, più intimamente connesso alla nozione positiva di libertà, risulta sempre più netto il distacco da Berlin, che associava l’opzione pluralista alla libertà negativa. Pur se costruita a partire da assunti base del pensiero di Berlin, la riaffermazione del pluralismo liberale portata avanti da Crowder si spinge dunque ben oltre: le decisioni morali vengono inevitabilmente prese all’interno di un contesto politico formato da una qualche gerarchia generale dei valori, quindi “i pluralisti berliniani non possono far altro che insistere sul fatto che questa gerarchia dovrebbe rispondere quanto più possibile agli interessi fondamentali del pluralismo, e fra questi, la diversità dei valori e il ragionevole disaccordo, che richiedono una politica capace di ospitare molti beni e stili di vita diversi”(p. 234). Di conseguenza il pluralismo sembra sì suggerire un liberalismo della tolleranza, ma perché ognuno possa operare le proprie scelte è necessario riconoscere anche il valore dell’autonomia personale.
Nel capitolo ottavo “Un bilancio di Berlin”, Crowder cerca di chiarire dunque come Berlin si collochi nella tradizione liberale e il significato complessivo del suo pensiero politico e morale. Anzitutto le sue convinzioni liberali sono universalistiche: egli sostiene con forza la validità dei diritti umani, fra questi la garanzia di un’area minima di libertà negativa per l’individuo come condizione per ogni vita umana realmente soddisfacente. L’universalismo è richiesto dalla sua stessa nozione di pluralismo che giustifica istituzioni liberali in termini transculturali.
Il suo antiutopismo lo colloca poi su un fronte pessimista o realista: nella sua visione segnata dal totalitarismo e dalla guerra mondiale, il liberalismo non cavalca più, come l’ottimista Mill confidava, il progresso della ragione, semmai indica il limite fra civiltà e barbarie. Ciò non comporta il rifiuro totale della ragione, Berlin è ancora un liberale razionalista, ma solo il riconoscimento dei suoi limiti.
Crowder, pur accogliendo in parte la critica rivolta a Berlin di non proporre alcun programma politico positivo, ritiene tuttavia che il suo pensiero sia ricco di implicazioni per politiche pubbliche. Dalla sua posizione è infatti possibile derivare principi e argomenti capaci di guidare le politiche degli stati liberali, e ciò vale soprattutto per due ambiti: la giustizia sociale e lo statuto politico delle culture. Secondo Crowder infatti, a causa della sua preferenza per la libertà negativa, Berlin è stato spesso considerato erroneamente un difensore del liberalismo classico e del laissez-faire. Secondo tale posizione, teorizzata ad esempio da autori liberisti come Hayek o Nozick per criticare la legittimità dell’intervento statale contro le disuguaglianze economiche, una persona potrebbe essere negativamente libera anche se la povertà non gli permette di esercitare la propria libertà. Per Berlin invece le condizioni per l’esercizio della libertà sono importanti quanto la libertà stessa, i liberali dovrebbero quindi sostenere l’intervento positivo dello stato per assicurare tali condizioni.
Pur concependo il valore della uguaglianza o equità o giustizia come distinto da quello della libertà, è esplicito nel suo sostegno al liberalismo egualitario della redistribuzione del benessere. Per Crowder infatti, anche se Berlin non ha mai sviluppato questo lato del suo pensiero, né ha offerto mai alcuna difesa esplicita del welfare State, diversamente da autori come Rawls o Dworkin, sarebbe comunque possibile tentare di fare ciò sviluppando la sua nozione di pluralismo. Così la stessa linea argomentativa già utilizzata per sostenere un tipo di liberalismo illuministico, in cui lo stato è chiamato a promuovere l’autonomia personale come componente necessaria in regime di pluralismo, può ora essere utile per costruire un argomento a favore della redistribuzione del benessere. L’esercizio dell’autonomia individuale richiede infatti risorse economiche, perciò società che, basandosi sulle leggi di mercato, rifiutano la redistribuzione dei beni, da un punto di vista pluralista sono fortemente discutibili. Società simili, enfatizzando i valori e le virtù del mercato a scapito di tutti gli altri, risultano infatti profondamente asimmetriche. Ed anche se ovviamente nessuna società può realizzare in modo eguale tutti i valori umani, ve ne sono fra questi alcuni che, secondo una prospettiva pluralista, vanno comunque incoraggiati e per quanto possibile preservati.
Ancor più gravide di implicazioni sono le conclusioni che si possono trarre dall’insegnamento di Berlin riguardo al ruolo delle culture rispetto allo stato. Fino a che punto vanno preservate e tollerate? Si è già visto come il pluralismo sostenga la desiderabilità delle diversità culturali, e l’importanza attribuita da Berlin al senso di appartenenza che egli considera un bisogno e un bene fondamentale per tutti gli esseri umani. Tuttavia, si è detto che le culture hanno un valore solo finché promuovono l’appartenenza umana, senza tentare di distruggere le altre culture attraverso pratiche illiberali. Egli si allontana così da quelle forme di multiculturalismo estremo che vorrebbero preservare ogni cultura senza limiti, considerando i principi liberali culturalmente relativi. Pare invece avvicinarsi di più a un tipo di multiculturalismo simile a quello proposto da Kymlicka, secondo cui lo stato liberale ha il diritto e il dovere di agire per preservare le culture, specie quelle nazionali che favoriscono la coesione sociale, in subordine al fondamentale valore liberal-pluralista della libertà dell’individuo. Il modello di Berlin riguardo alle minoranze culturali sembra così una via di mezzo tra l’assimilazione e il multiculturalismo: alla base vi è una nozione dell’integrazione secondo la quale i membri di un gruppo mantengono la loro identità, ma accettano gli stessi diritti e doveri pubblici degli altri cittadini.
Ma, si chiede alla fine Crowder, come dovrebbe essere giudicato, complessivamente, Berlin in quanto pensatore?
Nel contesto della tradizione liberale, per limitarsi ad un solo esempio, la sua importanza resta difficile da valutare: il grande realismo della sua posizione è infatti controbilanciato dalla mancanza di attenzione alle implicazioni politiche della sua prospettiva, soprattutto rispetto ad altri social-liberali come Rawls e Kymlicka. Nonostante ciò, Crowder è convinto del fatto che Berlin continuerà ad essere letto, per ragioni che riguardano i suoi risultati soprattutto in tre aree principali: la sua spiegazione delle radici concettuali del totalitarismo, la sua illustrazione del pluralismo dei valori e relative implicazioni, e il suo caratteristico approccio alla storia delle idee.
In primo luogo la sua analisi del totalitarismo novecentesco si confronta con la grande sfida della comprensione politica e morale del suo tempo, e la sua risposta è profonda e originale. La sua analisi è però complessa e stratificata come i livelli multipli di uno scavo archeologico: in superficie sta il tradimento della libertà da parte degli intellettuali del XVIII e XIX secolo, ma alla base si trova lo scientismo fondato sul monismo morale. La sua alternativa ad esso è il pluralismo dei valori, che è la seconda ragione per cui continuerà ad essere letto. Nonostante diversi predecessori, Berlin è il primo a formulare questa idea come fulcro di una vera e propria filosofia politica, ponendola come arma contro i modelli di pensiero autoritari basati sul monismo. Inoltre, questa è la tesi principale di Crowder, il pluralismo di Berlin implica una serie di principi che raccomandano una struttura politica liberale.
Ma la ragione finale per cui la sua opera continuerà a sopravvive è la straordinaria capacità e vitalità delle sue argomentazioni sulle idee e gli autori che le hanno generate. E’ in particolare il metodo dell’ immaginazione empatica, ereditato da Vico ed Herder, che gli permette di entrare nello spirito di ciò che intende capire, e ci offre uno strumento per capire i più profondi propositi umani. Perché l’importanza dei filosofi del passato risiede alla fine nel fatto che i problemi posti da loro sono vivi tuttora. Tale posizione si integra direttamente anche con l’insistenza di Berlin sulla possibilità di una comprensione trans-storica in base a un comune orizzonte umano.
Indice
Presentazione, di Mauro Barberis
Prefazione
I. Riccio e volpe
II. Tre aspetti di un’identità
III. Il tradimento della libertà
IV. Due concetti di libertà
V. L’illuminismo e i suoi critici
VI. Pluralismo e liberalismo
VII. Dopo Berlin
VIII. Un bilancio di Berlin
Bibliografia
Indice dei nomi
L'autore
George Crowder insegna nella School of Political and International Studies della Flinders University, in Australia. E' autore anche di Classical Anarchism. The Political Thought of Godwin, Proudhon, Bakunin, and Kropotkin (1991) e di Liberalism and Value Pluralism (2002).
Links
Homepage G. Crowder presso Flinders University – Adelaide (Australia)
Sito web curato da H. Hardy che raccoglie tutto ciò che riguarda l’universo Berlin.
Pagina dedicata a I. Berlin sulla Stanford Encyclopedia of Philosophy.
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