Trad. it. di Federico Rahola, Milano, Feltrinelli, 2006, pp. 180, € 18,00, ISBN 8807103966.
[Ed. or.: Giving an Account of Oneself, Fordham University Press, New York 2005]
Recensione di Olivia Guaraldo – 26/09/2007
Filosofia politica, Etica
La produzione intellettuale, filosofico-politica, di Judith Butler sembra aver finalmente attratto l’attenzione delle case editrici italiane, che da qualche anno a questa parte puntualmente propongono in tempestiva traduzione italiana le ultime opere della pensatrice statunitense. Critica della violenza etica è forse il lavoro filosoficamente più impegnativo – e interessante – di Judith Butler degli ultimi anni. Si tratta di una complessa riflessione – a partire da Adorno, Foucault, Cavarero, Lévinas e Laplanche – sullo statuto etico e ontologico del soggetto postmoderno. Il testo mette a fuoco e approfondisce tematiche che avevano trovato una prima enucleazione in Vite precarie (Meltemi 2003). Scritto all’indomani del 9/11 sulla scorta di una forte indignazione per il modo in cui gli Stati Uniti avevano risposto, sia militarmente che mediaticamente, al ‘lutto collettivo’. Vite precarie abbozzava questioni diventate ora centrali in Critica della violenza etica: il rapporto fra violenza e ethos collettivo, la dimensione sociale del legame e della perdita, la possibilità filosofica – e la necessità politica - di superare una ormai obsoleta (e fallocentrica) nozione dell’umano strutturato a partire da un sé autocreato, autofondato, sovrano sui propri bisogni e sul modo di soddisfarli, indipendente dai legami, immune alle relazioni.
Il titolo inglese del libro è Giving an Account of Oneself, che in italiano potrebbe essere tradotto con ‘dar conto di sé’, nel duplice senso di raccontare di sé e di rendere conto, di narrarsi e di giustificarsi, di intessere il racconto con quella che Cavarero (interlocutrice privilegiata di Butler in questo testo) chiamerebbe la pulsione autobiografica infarcita di narcisismo autoassolutorio. Già in Vite Precarie Butler sosteneva che lo sbaglio fondamentale seguìto al trauma del 9/11 fosse stato proprio quello di leggere l’intera vicenda come una narrazione in prima persona, con il gigante statunitense – ferito nella sua presunta invulnerabilità – come unico protagonista. Invisibilità e indicibilità divennero invece le caratteristiche di tutto ciò che non trovava spazio in quella narrazione autocentrata e autocelebrativa - i necrologi delle vittime gay e lesbiche, i discorsi relativi alla violenza statunitense nel mondo e, di lì a poco, le vittime dei bombardamenti in Afghanistan, i volti o i corpi dei militari caduti in Iraq, le vittime palestinesi della violenza israeliana - di un dolore incommensurabile, ingiustificabile, inspiegabile, e che tale doveva rimanere. Ora, in Critica della violenza etica Butler pone come questione da pensare, all’indomani del 9/11 e in concomitanza con l’interminabile ‘war on terror’, la possibilità che la sovranità su di sé e sulle proprie azioni, come se il soggetto (e, per estensione, l’Occidente) fosse il protagonista assoluto di una storia in prima persona, non sia il presupposto dell’etica (come la tradizione vuole), ma la sua perversione. La possibilità dell’etica, azzarda Butler, risiede invece nell’impossibilità di ‘dar conto di sé’, in maniera conseguente, razionale e trasparente, ovvero si fonda sull’assenza di sovranità e controllo del soggetto sulle proprie azioni.
Butler non è sola nel sostenere, ormai da tempo, che il soggetto autocentrato e sovrano è un emblema – fittizio – del passato, di quella modernità che è stata liquidata dai fatti e dalle teorie del Novecento. Il tentativo – altrettanto fittizio, artificioso ma essenzialmente violento – di restaurare un soggetto pieno e consapevole, in grado di rendere pienamente e razionalmente conto di sé e dei suoi atti, di giustificare le sue azioni in virtù di una ferita ‘ingiustamente subita’ (torna sempre lo spettro del 9/11 e della guerra preventiva) - implica una pericolosa deriva identitaria che, come è ormai chiaro a tutti, pretende di fondare la propria azione militare sulla giustezza etica della guerra.
Nel variegato panorama del dissenso e dell’opposizione alla guerra, però, Butler emerge per la sua criticità sistematica, per il rifiuto di qualsiasi schieramento immediatamente di parte (à la Chomsky, per intenderci) e per l’originalità della sua proposta.
La sfida di Butler è in primo luogo quella di smascherare i tentativi restaurativi di un soggetto forte, postulato come ‘pienamente umano’, che si declina politicamente in un ‘noi’ ferito e legittimato alla vendetta, a sua volta giustificata dalla disumanizzazione dell’altro. Il ‘narcisismo morale’ di un soggetto autocentrato e convinto della propria indipendenza necessariamente porta a concepire l’autoconservazione come criterio dirimente dell’umano, il quale, di nuovo, giustifica e promuove l’uso della violenza come unica risposta possibile all’offesa subita:
“Si cerca sempre di proteggersi e immunizzarsi dalle offese dell’altro, ma quando si riesce davvero a erigere un muro, si finisce per diventare inumani.[…] Uno dei principali problemi che incontra chi insiste sull’autoconservazione come fondamento dell’etica è che così finisce per trasformare quest’ultima in una pura etica del sé, se non addirittura in una forma di narcisismo morale. Perché solo continuando a oscillare tra il bisogno di rivendicare il diritto a non essere offesi o respinti, e la necessità di resistere a un tale bisogno, si può davvero ‘diventare umani’”. (p. 139).
Nell’aporia, nell’assenza di sintesi tra il bisogno di proteggersi dall’altro e l’apertura verso di esso sta, secondo Butler, la possibilità di pensare diversamente l’eticità.
In secondo luogo, infatti, compito della sua Critica è proporre un nuovo paradigma dell’umano, o meglio, criticare l’idea che l’umano sia pensabile e codificabile una volta per tutte, sia secondo trame contrattualistiche che pongono appunto l’autoconservazione – e la sovranità – come criteri privilegiati di definizione dell’etica, sia secondo varianti neokantiane dell’universalismo a tutti i costi, incapaci di adeguarsi alle specificità culturali e divenire, così, violente. Anziché essere il luogo di una inoppugnabile razionalità e di una identità fortificata da una storia di successi politici e culturali, l’Occidente – e il soggetto – sono (da sempre) il luogo di una costante intrusione da parte dell’altro. Svelare il feticcio di una razionalità autocentrata e di un sé sovrano sono compiti che la filosofia post-strutturalista ha ormai ampiamente svolto in tutte le sue possibili varianti. Butler, dal canto suo, tenta l’impresa (già iniziata da Derrida) di una declinazione etica della svolta decostruzionista, senza però celebrare la dissoluzione dell’umano e l’avvento del post-umano. Al contrario, la questione dell’umano sta al centro della teoria butleriana, in quanto questione da pensare. Sulla scorta delle riflessioni morali dell’ultimo Adorno e delle indagini sulla ‘cura di sé’ dell’ultimo Foucault, Butler giunge a sostenere che umano e inumano vanno pensati assieme, in tutta la loro inestricabile interdipendenza.
L’umano risiederebbe quindi nell’ininterrotto costituirsi e destituirsi del soggetto, nel prender coscienza della sua vulnerabilità, dipendenza, relazionalità. Tale opacità del soggetto a se stesso prende le fattezze sia di un altro in carne ed ossa (il volto di Lévinas) sia di una generica alterità, costitutiva delle relazioni primarie (l’inconscio come risposta alle sollecitazioni seduttive del mondo adulto per lo psicanalista Laplanche). Ma questo non significa che il soggetto sia semplicemente assenza, vuoto – come direbbe il lacaniano Zizek – che necessita di essere riempito da un ordine simbolico dominante. Significa invece che il soggetto è il luogo di un decentramento del sé da parte di una esteriorità che come tale è incontrollabile, perché precede e permette l’emergere del soggetto in quanto tale. Dar conto di sé è perciò possibile solo nella forma dell’interruzione, della dislocazione del sé parlante dal piedistallo di un monologo autocentrato: dar conto di sé significa prendere parte ad una scena interlocutoria dove l’altro mi convoca, mi chiama in causa, mi interpella, mi fa, in altre parole, esistere in virtù di questa convocazione. Dar conto di sé significa infine prendere coscienza dell’impossibilità di una autorialità e di una consequenzialità narrative, decentrare il racconto in prima persona (quel narcisismo autobiografico e morale di cui sopra) non attraverso un atto volontaristico, bensì proprio in virtù di una struttura interlocutoria che ci chiama ad essere. Senza l’appello di altri (che in parte sono anche personificazioni delle norme, portatori delle griglie di intelligibilità attraverso cui il sé può emergere come soggetto) restiamo muti ed invisibili. Relazionalità quindi non significa semplicemente celebrazione dell’apertura all’altro, impegno etico verso chi mi sta di fronte: essa ha invece a che fare con la vivibilità. Al di fuori della scena interlocutoria in cui sono chiamata in causa, in cui entro a fare parte di un regime di verità e di realtà – in cui, direbbe Foucault, mi costituisco come soggetto, pagando un certo prezzo - non c’è riparo individuale. Dalla relazionalità interlocutoria dipendo per esistere. Prendere atto di questa totale dipendenza dalla convocazione altrui significa anche, per Butler, fare il contropelo a quel discorso pubblico che disumanizza i propri ‘nemici’, iperumanizzando le proprie vittime.
La violenza etica di cui Butler intraprende la critica coincide con l’imposizione di una norma morale come se essa fosse naturale, condivisa, collettivamente accettata, come se ciascun individuo, sovranamente e razionalmente potesse decidere di ‘dar conto di sé’ affidandosi ai principi morali di una società. Sappiamo bene – e Butler in quanto attivista queer, lo sa ancora meglio – quanto la presupposizione di un ethos collettivo e condiviso nasconda invece la violenza dell’imposizione normativa, la repressione di ciò che non si conforma all’apparenza collettiva. L’ethos collettivo (afferma Butler sulla scorta di Adorno) diviene violento nel momento in cui non è più universalmente condiviso e ogni volta che ignora le condizioni sociali esistenti. Ma ben oltre una critica della società repressiva di francofortese memoria, ciò che Butler auspica è una critica sociale che non può non comprendere anche una critica del soggetto. Di come, in altre parole, viene pensato, strutturato, reso intelligibile l’io. Le forme della soggettivazione, foucaultianamente intese, non possono però essere analizzate solo nella loro dimensione genealogica o storico-strutturale, ma devono essere declinate anche secondo una prospettiva ontologica relazionale, che prenda in considerazione come le norme che precedono la mia soggettivazione siano sempre mediate da una relazione umana. Io apprendo le norme da altri, e vengo interpellata, convocata, fatta esistere da questi altri che mi introducono alle norme. C’è una dimensione relazionale, intersoggettiva che presiede ai processi di soggettivazione e che occorre vedere sotto luce nuova. Il tentativo butleriano è quello di dare forza teoretica e praticabilità etica alla critica post-strutturalista dell’umanesimo. Ma, in vigorosa polemica con i critici del ‘relativismo morale’ che sarebbe tipico della postmodernità, Butler è convinta che post-strutturalismo non significhi nichilismo morale. La sua sfida è proprio quella di contrastare, filosoficamente, il pregiudizio secondo cui al fine di attribuire responsabilità in ambito etico sia necessario postulare un sé autonomo, razionale, in ‘possesso di sé’. L’assenza di ‘possesso di sé’, afferma Butler, non significa nichilismo morale, né tantomeno infondatezza dell’etica. Tutt’altro: dati i disastrosi risultati di una politica eticamente giustificata a partire dalla sovranità violata, dal controllo su di sé e sugli altri, proprio la critica alla nozione di un sé sovrano è forse l’unico modo rimasto per fondare l’etica. L’altro, sia in qualità di mediatore di norme, sia come elemento di espropriazione della mia ‘autoaffezione’, mi costituisce, mi consegna ad una esteriorità che impedisce al sé di essere trasparente a sé stesso. Proprio in virtù di questa relazionalità costitutiva (che Butler legge principalmente in chiave psicoanalitica) sono ‘già da sempre fuori di me’, e lungi dall’essere frustrata per questo spossessamento, cerco di trasformarlo in una risorsa morale: “[…]se è proprio in virtù delle relazioni con gli altri che si è opachi a sé stessi, e se queste relazioni con gli altri sono il luogo della propria responsabilità etica, allora significa che è proprio in virtù dell’opacità verso di sé che il soggetto si espone e accetta alcuni dei più importanti vincoli etici” (p. 32).
Lo scopo della complessa operazione critica e decostruttiva che Butler intraprende in questo testo (in linea con la sua precedente produzione intellettuale) è quello di proporre “un’etica pubblica non violenta”, come suggerisce Ida Dominijanni. Tale proposizione prende le mosse da una complessa compenetrazione di soggettività e socialità, proprio perché l’intenzione è trasformativa. Contestare egemonia e naturalità di un ethos collettivo fondato sulla padronanza di sé, sulla coerenza, sulla reciprocità violenta moralmente ammessa significa avvalorare l’ipotesi che l’eticità risieda invece in un soggetto non sovrano, opaco a sé stesso, incapace di dare pienamente conto di sé e costitutivamente dipendente dalla convocazione altrui.
È facile vedere una continuità tra i lavori di Butler relativi alla critica del femminismo ‘essenzialista’ e all’elaborazione di una teoria performativa del gender (Gender Trouble, Bodies That Matter) e la più recente produzione ‘etica’: la meticolosa revisione dei paradigmi di intelligibilità del soggetto (l’eredità foucaultiana che Butler mette a frutto in un’originalissima chiave femminista) non è mai scissa dalla volontà di rendere possibile una agency politica consapevole sì della propria fallibilità, emendabilità, e dipendenza da un crogiolo di relazioni sociali, ma non per questo acquiescente. Il lavoro su di sé – portato rivoluzionario della pratica femminista degli anni ’70 - comporta sempre il contemporaneo lavoro su un regime impersonale di intelligibilità e rappresentabilità politica. Il lavoro su di sé, (sulla propria ‘differenza’, che non è mai però indicibile unicità) quindi, acquisisce automaticamente una dimensione impersonale, che potremmo spingerci a definire collettiva. Tale compito critico era già presente nella ‘citazione sleale’ della norma eterosessuale di cui Butler parla in Gender Trouble: il disincantamento ipermoderno verso ogni forma utopica di liberazione prendeva già in quel testo l’originale forma di una critica parodistica, ironica, sfacciata dei feticci identitari di genere. È come se Butler continuasse a dirci: prendiamo consapevolezza dell’impossibilità di una escatologia secolare, di una liberazione finale dalla discriminazione, dall’oppressione, dallo sfruttamento, ma non smettiamo di contestare la violenza che si annida in ogni ‘regime di verità’ che si pretende esclusivo.
Si tratta, a mio avviso, dell’elaborazione di un’etica ‘tragica’, che rimane consapevole delle ambivalenze costitutive del sé e del mondo, e che si ‘limita’ al riconoscimento che non può esserci altro modo di vivere se non quello, preconizzato da Marìa Zambrano, del ‘conoscere patendo’, del collocarsi in una frattura costitutiva del sé (la sua opacità a se stesso) senza però rinunciare alla contestazione, alla trasformazione, sempre provvisoria ma non per questo inefficace. Il ‘prezzo’ da pagare in quest’etica tragica è quello dell’inattingibilità di un prodotto finale, di un controllo su di sé, di una trasparenza a se stessi, di un ‘ordine nuovo’ stabilito una volta per tutte. Questo è il portato ‘moderno’, la consapevolezza che il soggetto, una volta che conosce la sua verità non può essere salvato (Foucault)
Ma in questo sta il paradosso dell’eticità del soggetto non sovrano: l’assenza di controllo su di sé, lo spossessamento, la destituzione da parte di altri è ciò che rende pensabile – e forse praticabile – un agire politico non violento. In forza della mia ‘non libertà’, sempre paradossalmente agita in relazione ad altri – nelle forme della dipendenza, della convocazione, dello spossessamento – sono in grado di accogliere la ‘non libertà’ altrui, la sua dipendenza da me, la mia responsabilità verso la sua sofferenza.
“La violenza non è né una giusta punizione che subiamo, né una giusta vendetta per ciò che abbiamo subito. Al contrario, attesta una vulnerabilità fisica di cui non possiamo sbarazzarci e che non possiamo risolvere una volta per tutte nel nome del soggetto, ma che può offrirci l’opportunità di comprendere come nessuno di noi sia totalmente delimitato, assolutamente separato, e come si sia invece tutti costitutivamente, epidermicamente, affidati gli uni agli altri, nelle mani gli uni degli altri, alla mercé gli uni degli altri” (p. 136).
Indice
Dar conto di sé
Contro la violenza etica
Responsabilità
Indice dei nomi
L'autore
Judith Butler insegna alla University of California, a Berkeley, presso il Dipartimento di Letteratura comparata. È autrice di numerosi volumi di filosofia e teoria femminista, tradotti in molte lingue. In italiano sono stati pubblicati i seguenti volumi: Corpi che contano (1996), La rivendicazione di Antigone (2000), Vite precarie (2004), Scambi di genere (2004), La vita psichica del potere (2005), La disfatta del genere (2006).
Links
Bibliografia e altre risorse su Judith Butler (in inglese)
Bibliografia completa di Judith Butler (in inglese)
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