Recensione di Paolo B. Vernaglione – 11/09/2007
Etica, Filosofia politica
Tra scienza e fede raccoglie otto interventi di Jurgen Habermas dal 2001 al 2005 sulla cruciale questione del trattamento delle religioni, delle culture e dell’ethos in uno Stato diritto. Ma a differenza delle precedenti riflessioni sulla costituzione problematica di un'identità europea, condensate in L’Occidente diviso, qui Habermas ha di fronte un variegato quadro del confronto sempre più urgente tra etiche religiose nella sfera pubblica e presupposti laici dello Stato costituzionale. L’elaborazione di una possibile soluzione razionale delle controversie tra laicità e religione tiene dunque conto del fondamentalismo e dell’ideologia neocon che ha animato il tentativo di scontro di civiltà.
Infatti l'escalation distruttiva del diritto internazionale operata da Bush con la guerra in Iraq, simbolicamente conclusa alla fine dello scorso 2006 con l’esecuzione di Saddam Hussein si risolve nell’aumento del contingente militare in Iraq, malgrado il Congresso a maggioranza democratica si sia pronunciato per il ritiro, e nel parallelo appello alla guerra santa, lanciato da Ahmadinejad nel tentativo di stabilire una supremazia dell’Iran in medio oriente. Dunque la politica globale di inizio millennio richiede un confronto pubblico sulle prerogative dello Stato laico in dimensione post-nazionale.
L’altra tematica che dà il titolo al testo è il “pericolo” del naturalismo scientista, cioè il tentativo di riduzione dell’esistenza umana a fatto psico–biologico, nella sua componente genetica. Su questo versante Habermas riprende la precedente riflessione sul Futuro della natura umana, in verità alquanto moderata nell’indicare nel principio di precauzione l’alternativa alla genetica neoliberale, mentre in questi interventi la tensione è rivolta al dibattito teorico tra i fautori cognitivisti dell’interpretazione selettiva della natura umana e quanti propongono una discontinuità tra mente e cervello, cultura e biologia, affetti, linguaggio e genetica, nonché una descrizione del loro intreccio.
Degli otto saggi due sono inediti, mentre gli altri rielaborano interventi per lo più già conosciuti dal grande pubblico, come ad esempio il confronto con Joseph Ratzinger, tenutosi nel gennaio del 2004 all’Accademia Cattolica di Monaco di Baviera e pubblicato anche in Italia (Ragione e fede in dialogo, Marsilio editore, 2005) e di cui è qui riportata l’argomentazione generale.
Conviene dunque esaminare gli scritti “Una religione nella sfera pubblica” e “Una costituzione politica per la società pluralistica mondiale?”, in cui Habermas avanza proposte organiche di soluzione dei conflitti tra religione e sfera pubblica e tra normatività e fatticità del diritto internazionale. Pure se questa seconda questione è tangente a quelle affrontate negli altri saggi inerenti la «diffusione di rappresentazioni naturalistiche… e il crescente influsso politico esercitato dall’ortodossia religiosa», rappresenta un passo importante nella costituzione di una sfera pubblica globale che si autolegittima senza bisogno di “un governo mondiale”.
Come già il confronto su fede e ragione del 2004 evidenziava, la questione del rapporto tra fedi organizzate e Stato di diritto è dirimente per la vita stessa di società secolarizzate, nel momento in cui i limiti di etica, religione e laicità sono ridisegnati dalle dinamiche complesse della post-modernità. A questo proposito sarebbe bene intrecciare la lettura di questo testo con quella dell’affascinante opuscolo di Julia Kristeva, Bisogno di credere, (Donzelli editore, Roma, 2006) che segue invece la strada dalla singolarizzazione del problema e perviene a una risposta interlocutoria.
Come dimostrano i casi della legge francese “sul velo”, delle diatribe italiane sull’uso e abuso di crocifissi e segni religiosi in luoghi pubblici e ultimamente la vicenda di Piergiorgio Welby che ha dimostrato, se ce ne fosse ancora bisogno, il Medioevo in cui è impaniato lo Stato cattolico italiano, in causa è la laicità, mentre l’intera sfera del diritto subisce una profonda e inevitabile mutazione, come dimostra il recente libro di Stefano Rodotà La vita e le regole (Feltrinelli editore, Milano, 2006). D’altra parte l’offensiva teocon in Occidente e la sua riduzione “teodem” sui temi eticamente sensibili (eutanasia, testamento biologico, diritti dell’embrione, tecnologie di controllo) fanno emergere una spinta regressiva che il più delle volte proviene dalla sfera pubblica politica e non dalla società civile.
È necessario dunque chiedersi «cosa significa nelle costituzioni liberali la separazione richiesta tra Stato e Chiesa per il ruolo che le tradizioni e le comunità religiose possono svolgere nella società civile». L’argomentazione di Habermas, sulla base del liberalismo politico rawlsiano, si fonda sul dato di fatto che la laicità è condizione necessaria ma non sufficiente «per una equa garanzia della libertà religiosa».
Infatti benché Stato e Costituzione rappresentino i due fondamenti della laicità, il primo sul piano della legalità inerente l’esercizio del pluralismo, l’altro su quello della legittimità dell’ordinamento (che produce una dialettica tra i diritti e democrazia, delineata da Habermas in Fatti e norme), essi non coprono automaticamente le richieste politiche inerenti al pluralismo religioso in una società post-secolare.
Secondo Habermas c’è bisogno di un nesso interno alla sfera pubblica di natura motivazionale: i cittadini, sia laici che religiosi, devono sentirsi spinti ad una reciproca traduzione delle loro motivazioni in modo da trovare nell’arena del pubblico dibattito temi e motivi di negoziazione. Ciò perché da un lato «nello Stato liberale… i cittadini credenti sono tenuti a stabilire una specie di equilibrio – un theo-etical equilibrium – tra le loro convinzioni religiose e quelle laiche» (pag. 30), dall’altro perché «lo Stato liberale non deve trasformare la debita separazione istituzionale tra religione e politica in un peso mentale e psicologico che è impossibile imporre ai cittadini credenti…» (pag. 33).
Insomma, l’idea, condivisibile, è che ragioni discorsivamente elaborate dall’una e dall’altra parte possono regolare i rapporti pubblici tra Stato e religioni, e che un agire discorsivo è in grado di de-trascendentalizzare l’effetto di concezioni comprensive (Rawls) del mondo nella sfera pubblica. Infatti, affinché ci sia traduzione è sufficiente la «capacità epistemica di considerare le proprie convinzioni religiose …, riflessivamente, e di collegarle a concezioni laiche» (pag. 33). Rispetto alla “riserva” di Rawls nei confronti di cittadini monoglotti che non riescono a tradurre le loro convinzioni etico-religiose in motivazioni politiche (e che pertanto entrano di peso nella vita pubblica), l’argomentazione discorsiva è in grado di fare opera trasduttiva delle ragioni di credenti e non credenti.
I limiti di tale agire sembrano però essere il fatto che i «contenuti di verità di enunciati religiosi non vanno perduti… soltanto quando la prevista traduzione viene effettuata nello spazio pre- parlamentare, dunque nella stessa sfera pubblica politica» (pag. 35). Il dubbio però è che se devono essere i partiti a gestire il dibattito pubblico tra credenti e non, non si vede quale peso abbia quella società civile globale in cui pure la questione della laicità si presenta e che dovrebbe realizzare l’opera di traduzione.
Questa possibilità è basata sulla capacità di cittadini “consapevoli” di passare agevolmente dalla posizione “liberale” dell’osservatore neutrale nei conflitti a quella di partecipante, ciò che implica l’attenzione verso un tu, una seconda persona, di cui si cerca di comprendere le ragioni «senza che ci sia bisogno di giustificazione reciproca» (pag. 39), visto che siamo all’interno dello Stato di diritto.
Da altra parte «il superamento critico dei… limiti della coscienza laicista è … sostanzialmente controverso», perché una volta constatato il prevalere dello scientismo come «naturalismo radicale (che) svaluta tutti i tipi di asserzioni che non si possono ricondurre a osservazioni sperimentali», l’uso pubblico della ragione non dipende affatto da ovvie premesse cognitive, specialmente nell’odierna post–truth democracy, in cui enunciati verosimili sono fatti valere come veri» (pag. 43).
Dunque il terreno di legittimazione di una pubblica ragione in grado di argomentare il confronto tra concezioni comprensive e laicità dovrebbe trovarsi a metà strada tra capacità di simbolizzazione e osservazione empirica dei dati di fatto sociali, politici e culturali; ciò che rende possibile «nella sfera pubblica politica, una relazione autoriflessivamente illuminata» (pag. 49).
La seconda proposta circa la realizzazione di un diritto internazionale incentrato su una sfera pubblica mondiale non governata da una Repubblica globale (come paventa il realismo politico), si basa sull’esame del recente proposta elaborata dall’High Level Panel su Truth, Challenges and Charge «della cui sostanza si è appropriato Kofi Annan nella sua locuzione sulla riforma dell’ONU del 31 maggio 2005» (nota 30 pag. 280). Il presupposto per l’elaborazione di nuovo diritto dei popoli su base kantiana consiste nel fatto che «il tipo di costruzione liberale che limita il potere statale apre la prospettiva… per una costituzionalizzazione non–statale del diritto internazionale in forma di società mondiale… ma senza un governo mondiale» (pag. 219).
A partire infatti dalle differenze tra Stato e Costituzione, Habermas descrive tre arene pubbliche che operano sul mutamento essenziale del diritto per cui esso, che fino allo scorso XX° secolo era in coda al processo di elaborazione politica, si pone alla testa, con costruzioni giuridiche «introdotte nelle arene sovrastatali… che operano al modo di una “self full filling prophecy”» (pag. 223).
Anticipazione del mutamento delle coscienze e processo di apprendimento dei cittadini sono urgenze che derivano dalla tragicità degli eventi internazionali e dovrebbero consentire l’elaborazione di «un sistema a più livelli… che può rendere possibile una politica interna mondiale finora inesistente, soprattutto nell’ambito globale dell’economia e della tutela dell’ambiente».
Le tre aree con tre diversi attori collettivi sono:
1) l’arena sovranazionale dell’ONU, riformata in modo da unificare le diverse agencies, collegarsi ai parlamenti nazionali e reti di cooperazione dal basso.
2) Regimi regionali (ad esempio l’UE) che abbiano «un mandato negoziale sufficientemente rappresentativo per interi continenti» (pag. 226).
3) Gli Stati, sottoposti a giurisdizione globale, in modo che organizzazioni transnazionali non legittimate democraticamente (WTO, Banca Mondiale, FMI, G8), non portino a compimento «la privatizzazione di quelle funzioni che in passato erano assolte dallo Stato– nazione» (pag. 233).
Lo snodo della proposta è infatti il dissolversi della sovranità dello Stato e la costituzione di una società globale «in grado di influenzare se stessa con gli strumenti politici, [per cui] l’autonomia politica dei cittadini può acquistare un contenuto» (pag .228 ).
Il problema che si pone con la realizzazione di una costellazione post–nazionale di sovranità è la sua legittimazione, cioè la capacità da parte di un’eventuale sistema federale multilivello di fare eseguire le prerogative dei suoi atti. Per ciò «la classica funzione coordinatrice dello Stato… verrebbe trasferita ad un’organizzazione mondiale sopranazionale specializzata nelle funzioni di tutela della pace e di affermazione globale dei diritti umani» (pag. 239).
«D’altra parte il principio di effettività… oggi è in larga misura soppiantato dal principio di legittimità» (pag. 243), per cui ad esempio organizzazioni come Human Right Watch o Amnesty International - ma bisognerebbe aggiungere anche quelle non istituzionali, espressione di movimenti che in questi anni hanno compiuto interdizione pacifica e azione di disobbedienza alla guerra - dovrebbero pesare nella decisione politica. Insieme alla «collaborazione di un Consiglio di Sicurezza riformato con una Corte Penale Internazionale, l’inserimento di un’organizzazione internazionale riformata nella sfera pubblica mondiale… è sufficiente a conferire una bastante legittimazione…» (pag. 244).
Ciò perché «i doveri negativi di una morale legalitaria universalistica… - sono radicati in tutte le culture» (pag. 246), e tale ragione consente inoltre di eludere l’esonero da richieste di legittimazione dei governmental policy networks (attori globali transnazionali) che operano per una deregolamentazione dei mercati.
L’opposizione a essi deve infatti consistere nel fermare la conversione delle «forme politiche di normazione in meccanismi di mercato», altrimenti le successive generazioni, così come le culture non occidentali attraversate dalle multiples modernities si troveranno senza strumenti politici, o con mezzi anacronistici, in grado di contrastare il potere mercantile.
Indice
Introduzione
Pluralismo religioso e solidarietà fra cittadini
Naturalismo e religione
Tolleranza
Note
Fonti
Indice dei nomi
L'autore
Jurgen Habermas, professore emerito di filosofia all’Università J. W. Goethe di Francoforte, è uno dei maggiori filosofi viventi e figura chiave del dibattito internazionale. Tra le sue molte opere si segnalano: Etica del discorso (1985), Teoria dell’agire comunicativo I, II, (1986), Morale, diritto, politica (1992), Teoria della morale (1994), Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia (1996), Il discorso filosofico della modernità (1997), Verità e giustificazione (2001), Il pensiero post-metafisico (2006), L’Occidente diviso (2005).
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