domenica 18 novembre 2007

Sgalambro, Manlio, La conoscenza del peggio.

Milano, Adelphi, 2007, pp. 171, € 10,00, ISBN 9788845921483.

Recensione di Giuseppe Pulina - 18/11/2007

Filsosofia teoretica (ontologia)

Il mondo è un assioma, una di quelle verità che non è necessario portare a conseguenze dimostrative in grado di confermarla ulteriormente. E non solo perché il mondo è qui davanti a noi, tangibile e pensabile come il fenomeno kantiano. Ciò che comunemente si chiama mondo, e, volendo, anche realtà, potrebbe coincidere con la nozione di “pessimum”, al cui esame Manlio Sgalambro ha dedicato alcuni dei suoi ultimi saggi. Con un tono vivace e caustico (elementi che si combinano felicemente nello stile del filosofo siciliano), Sgalambro fa presente sin dalla prima pagina di La conoscenza del peggio la scomoda e imbarazzante verità sulla quale per secoli si arrabatta l’indagine filosofica: “Che non ci sia niente di peggiore del mondo, non si deve dimostrare” (p. 11). Qual è allora lo scopo del saggio? Quale mai potrà essere l’utilità pratica della conoscenza del peggio, del pessimo ridotto a oggetto di scienza, se il mondo, così definito, esclude qualsiasi possibilità di cambiamento? Ci troviamo di fronte all’ennesima riformulazione dell’assunto di base delle filosofie pessimistiche, per le quali il mondo sarebbe l’epifenomeno di ciò che un teologo potrebbe chiamare il male; ma il male, preciserebbe Sgalambro, non è esattamente il pessimum. Se volessimo rivoltare i termini e provare a mutare prospettiva, si potrebbe dire che “il meglio non è altro che la realtà così com’è. Questo – precisa però Sgalambro – fu il pessimismo di Hegel” (p. 20).

Nella conoscenza del peggio, la morte avrà ovviamente un rilievo speciale. Questo viene sottolineato nella Prefazione: “Anzitutto bisogna pervenire a questa convinzione: che non si può usare la parola ‘viventi’ come termine tecnico di una filosofia che si assuma le sue responsabilità (dobbiamo convenire che una filosofia che non ha raggiunto per lo meno questo non s’è mai mossa dal suo punto di partenza), anzi va detto che quella che siamo soliti chiamare ‘filosofia pessimistica’ è la filosofia dei paranekrómenoi, la filosofia dei morenti. Sennonché non ci sono altri viventi che i morenti” (p. 13). I mille modi in cui può ingegnarsi l’uomo di fronte alla morte sono materia nota ai lettori di Pascal, ma c’è anche uno stile che appartiene più propriamente al filosofo pessimista e che tende a esaltarne la teatralità: “Il discorso pessimistico appartiene al genere oratorio, e questo perché presuppone un uditorio che può gridare e agitarsi” (p. 22). C’è pure un certo gusto per la finzione, perché “l’arte del filosofare viene alla luce anche grazie al comportamento mimetico di chi la esercita” (p. 24). Una simulazione d’intenti che potrebbe aver trovato un insospettabile campione in Platone: “Nel Fedone Platone induce a pensare che il meglio e il peggio in qualche modo si appartengano. Come se avesse voluto dire che il meglio che può toccare al mondo è il peggio per cui esso è. O più sommessamente: il pessimismo è la ‘migliore’ filosofia per coloro che abitano il ‘peggiore’ dei mondi” (p. 29).

Altra nozione che contribuisce a determinare il corredo di concetti e teorie che costituiscono il campo d’azione del filosofo pessimista è il dolore. Sgalambro ne definisce diversi tipi, e tra questi il tardo dolore e il dolore astratto. Entrambi hanno a che fare con la sensazione della fine, quella che il “piccolo Morrison”, rocker che Sgalambro ama citare, cantò in una delle più belle canzoni dei Doors: “Il tardo dolore è quello che subentra quando tutto è finito o sta per finire. Esso si annida anzitutto nel pensiero che tiene i fili del rammemorare: mai più si penserà senza mestizia. Il tardo dolore è il dolore di pensare. Il dolore è entrato nel pensiero e mai più se ne andrà?” (p. 33); “Il dolore astratto è quello che resta allorquando l’altro dolore scompare dalla scena ridiventando privato. Questo tipo di dolore, anzi l’unico tipo di dolore che possiamo chiamare tale, è un quid che aleggia sul ‘mondo’ o una specie di viscida nube sparsa su tutto senza che sia in nessun luogo. Non si vede né si tocca, solo lo spirito acustico può udirlo” (p. 54).

La musica, allora. Sgalambro riprende tesi già note e formulate in altri suoi saggi e trova alla musica una collocazione e una dignità che la imparentano strettamente con il mondo: “Le discoteche sono piccoli nirvana dove il solenne fragore del rock fa assaporare il piccolo nulla al figlio di Siddharta. Non essere per un poco è tutto quello che si chiede. Piccoli ‘niente’ di cui la vita dell’individuo odierno ha bisogno per rinascere e vivere un’altra settimana” (p. 44). All’erosività del reale si può resistere, se così si può dire, solo attraverso un’opera di controerosione: “Nella musica ‘industriale’ è immanente l’irreversibilità del tempo. Essa è musica entropica, musica che si distrugge da sé. La musica leggera è la fattispecie dell’autodissolvimento della musica. E tuttavia è l’unica forma di musica che ha senso per tutti. Sul ciglio dell’abisso, Mahler compone Il canto della terra ma canticchia una canzone napoletana” (p. 48).

Se Sgalambro fosse stato un teologo, avrebbe potuto attribuire alla musica un potere salvifico. Per farlo, avrebbe però dovuto riconoscere in pieno il valore dell’intenzionalità che regola i rapporti interpersonali. Si sarebbe dovuta assumere la nozione di “altro” come principio regolatore di qualsiasi dinamica dell’interazionalità. Ma questo non farebbe il gioco del bravo pessimista e poco gioverebbe alla sua conoscenza del peggio: “Io non mi regolo, dice il pessimista, secondo la scienza degli obblighi, e considero la nozione di ‘altro’ una mucillagine inconcludente fatta di ritagli di esseri umani e di rimedi offerti dalle morali correnti e da un ‘sociale’ di bassa lega, una specie di colla con cui legare il pasticcio alla meno peggio. Nessuno di quelli a cui mi sono legato volta per volta è stato per me ‘essere umano’. Bensì esseri che non definirei ‘uomo’ o ‘donna’ ma, ripeto, che mi sembrano meglio definiti dal loro nome e da una specie di alone che fa di ciascuno quel che è” (p. 127).

Se il mondo è quel che è, il pensiero che lo riflette potrebbe avere le sue responsabilità. Sgalambro parla allora di un pensiero intransigente che nel suo continuo esercizio “rivela la sua orrenda natura. Come atto divora continuamente i suoi contenuti. Siamo costretti a pensare, sbalzati continuamente da un pensiero a un altro, in un perpetuo affanno. E sentiamo con pena l’impossibilità di fermarlo, quasi di porvi sosta. Anzi la sosta diventa ancora pensiero, ancora il sentire dentro di sé questo rovello che non si acquieta e la pena che ci infligge e il desiderio finalmente di pace e la segreta aspirazione a non pensare” (p. 171). Ecco che allora non pensare il mondo sarebbe l’atto della vera rinuncia, il vero antidoto contro il pessimum che vi si annida dentro. Ma senza ciò che comunemente chiamiamo mondo, che ne sarebbe della filosofia?

Indice

Prefazione. Ai sumparanekrómenoi
I. Del filosofo pessimista
II. Il metodo pessimistico
III. Discorso pessimistico e discorso adulatorio
IV. Il dolore occidentale
V. …nur einstweilen ein Trost
VI. Dimensione sonora e dolore astratto
VII. Lebensbejahung
VIII. Pessimismo di Husserl
IX. Il custode della specie
X. Carattere filosofico e carattere pessimista
XI. L’onore della filosofia
XII. Disordine e dolore di un mondo perduto
XIII. Quis contra nos? (Del pessimismo teologico)
XIV. Meccanicismo e pessimismo
XV. Bitterlich
XVI. Rinunzia?
XVII. Del nirvana occidentale
XVIII. Homo comicus
XIX. Ubbidienza trascendentale
XX. Il furore di governarci
XXI. L’idea del pessimum
XXII. L’educazione al pessimismo
XXIII. Sospensione metodologica della vita e vita etico-estetica
XXIV. L’Umstürzler
XXV. Dopo la pratica
XXVI. Il chimerismo
XXVII. La conoscenza del peggio
XXVIII. Nota


L'autore

Manlio Sgalambro (Lentini, 1924) è uno dei più letti e prolifici autori di filosofia del panorama editoriale nazionale. Conosciuto anche per le sue collaborazioni con il musicista Franco Battiato, ha scritto numerose opere, tra le quali ricordiamo La morte del sole (1982), Trattato dell’empietà (1987), Anatol (1990), Del pensare breve (1991), Trattato dell’età (1999) e De mundo pessimo (2004), tutte pubblicate per la casa editrice Adelphi.

3 commenti:

MAURO PASTORE ha detto...

Nel senso cui tenta di introdurre il recensore non si trova il significato dato per ovvio da recensore stesso, che qualcosa anzi alcunché significa ma insensatamente e non altro. Mi spiego con diretta semplicità:

non il mondo epifenomeno del male però il male epifenomeno del mondo —

Questa l'affermazione, fuor di espressione sofista (foss'anche di autore) assegnabile al pessimismo filosofico contro il quale son naufragate tante ambizioni e tante filosofie opportunamente finite ... Hegel stesso ne aveva dovuta abbandonare una sua... Non val la pena di confondere schopenhaueriani echi a vantaggio di hegeliani, non è hegeliana neppure sintesi vonhartmanniana che descrive essenza del mondo ed eventualità negative... Ad ogni modo, Hegel mostra che il male è occasionato dalla uguaglianza ricorrente del mondo con se stesso; Schopenhauer dimostra che il male dipende dal non riconoscer limitatezza del mondo stesso; e questa concordanza non esisteva quando i due eran colleghi perché allora si era in Germania in alternativa necessaria tra il creare un mondo teutonico uguale a precedente avito o simile soltanto a questo; a prevalere fu idea in divenire ed anche nella costruzione di stabilità linguistica filosofica tedesca; e la estetica detta hegeliana conosciuta oggi non ha per autore Hegel ma intera restante intellettualità dei suoi tempi e luoghi che volle definire altramente e dando ai contrari obbligo di esimersi dal coinvolgere destino comune ai tedeschi oramai altro. Non c'è dubbio che molti ancora riesumano il passato perduto di Hegel direttore di provvisori peraltro a volte utili filosofemi generali, ma nel destino contemporaneo non ne è possibile formulazione, di cui fantasma in impossibile ibrido italico ancora appare in anacronistico intransigente inconcludente giudizio contro la modernità, inflitto da guida clericale cattolica sin dalla vigilia del Secolo Ventesimo e purtroppo non ancor privo di adesioni in Ventunesimo che in verità sono sconfitte per se stesse, non da intellettuali opposizioni...

A determinare corredi filosofici pessimisti è la necessità — data dai tempi e luoghi determinati ove utile pensare al peggio — di capire il dolore per non soccombere a quanto da esso avvisato o protestato.


MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

(...)
Certo che le canzoni napoletane ai tempi dell'Impero Asburgico e dell'asburgico Mahler eran ivi cantabili solo con levità e M. Sgalambro non ne intuiva diversità e classicità quasi impossibilmente insieme eppure insieme. Da qui sorsero per lui disavventure e sventure estetiche puntuali ed inaspettate sia alle prese con l'antipodo del classicismo ovvero "genere Rock" sia col suo contenitore o non contenitore "Pop". Tanti intellettualismi parventi ma imbestialenti in musica di J. Morrison, tante bestialità intellettuali apparentemente civili negli scherzi di F. Battiato; eppure Sgalambro cercava un realismo in stessa improbabile verbosità: per esempio nel descrivere tormentosi falsi aiuti infermieristici e pròtesi fatalmente mortuarie e non donazioni ma invadenze a danno anche dei corpi restati sessualmente poco o non assai determinati...
Masse di delusi sedicenti altruisti ignorano troppo e troppe cose perché preferiscono il morire un poco e prima anziché cercar altro non occulto destino; tanto che sempre più obliano quasi odiano reale durata della vita in non cronologiche omologazioni di cronologie, cioè affannandosi con le accelerazioni solari e degli orologi gravitazionalmente regolati sul sole ma questi coincidenze non durate segnando — Io aggiungo per necessità:

forma di consumismo suicida-omicida, perché nostalgico ed intruso, di chi si pone al peggio con paura impròvvida.

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

Filosofia serve in conoscenza del peggio per sopravvivere al conoscerne ed utilizzarne il conosciuto soltanto: e davvero non è obiezione universalmente valida notare che sapienza giusta ed arte del rifiuto evitano necessità e travaglio di tal conoscenza; allora polemiche son possibili ma non sono vere quelle che accusano esigenze non universali.
Dunque si tratta di capire di tali esigenze esito e bisogno filosofici: non per motteggiar de La Filosofia nè quale Ancella Di Teologia, ma per avvertirne destino di sopravvivenza unico quando l'intelletto ha da notare le più gravi evenienze senza restar prigioniero del già saputo ma non bastante.
Quindi non bisogna imitar polemiche costruttive o annichilenti con rifiuti distruttivi od annientanti e si deve intender di pessimismo radicale motivazioni determinate e ragioni particolari; questo non altro è ciò che può consentire critiche integrali ed alternative ovvero ottimiste; altrimenti c'è integralismo fanatico ovvero... peggio che oscurantismo.

MAURO PASTORE