domenica 4 novembre 2007

Tincani, Persio, Ovunque in catene.

Milano, M&B Publishing, 2006, pp. 135, € 15,00, ISBN 9788874510705.

Recensione di Gennaro De Falco - 04/11/2007

Filosofia politica, Storia moderna e contemporanea

Diviso in quattro capitoli, tutti di uguale intensità, il saggio di Persio Tincani, il cui titolo “Ovunque in catene” riprende una celebre frase di J. J. Rousseau, è un interessante stimolo, forte e talvolta aspro, per capire l’origine ed il perché del potere. Il lettore sarà chiamato a rispondere a domande che mai si è posto e che confermano la complessità del tema trattato.
Nel primo capitolo l’autore mette in dubbio la celebre frase di Rousseau già citata: a differenza di quest’ultimo, secondo il quale l’uomo nasce libero ma è condizionato dalle strutture di dominio che lo circondano, Tincani sostiene che la libertà è una situazione da costruire e non una condizione originaria alla quale si può essere restituiti.
Lo stesso nucleo familiare, che apparentemente si sottrae al rapporto di forza, non ne è esente visto che “il rapporto di soggezione parentale non ha nulla di diverso dalle altre relazioni di dominio della vita quotidiana” (p. 21).
Per rendere più chiaro al lettore lo sviluppo della sua analisi, l’autore individua tre possibili relazioni di dominio: a) la potenza intesa come manifestazione elementare del dominio di cui un tipico caso può essere rappresentato dal bandito che minaccia i passanti con la proverbiale frase “o la borsa o la vita”; b) il potere che “diversamente dalla potenza, che si manifesta in relazioni occasionali, si sviluppa invece in relazioni stabili (p. 25), la cui caratteristica più importante risiede appunto nel persistere anche se non viene emesso alcun comando; infine c) l’autorità considerata una forma autonoma di dominio, che riprende alcune caratteristiche sia del potere che della potenza e che, nel suo concetto moderno, viene sempre conferita da un soggetto ad un altro soggetto che è ritenuto migliore in determinati campi e per questo degno di stima.
Proseguendo nella sua analisi, l’autore reputa il potere come unica forma di dominio che si fonda sulla legittimità, quest’ultima sostanziandosi nella convinzione che “obbedire a un certo dominante sia giusto, in quanto è giusta la struttura di dominio alla quale il dominante stesso appartiene” (p. 36).
La legittimità presuppone indispensabilmente l’istituzionalizzazione dei contesti di dominio che, altrimenti, non riuscirebbero ad esercitare il potere sull’individuo la cui grande omissione – elemento fondamentale messo in giusto rilievo – consiste nel non porsi alcuna domanda sull’origine e sulle caratteristiche delle strutture di dominio.
Nel secondo capitolo sono affrontate alcune peculiari caratteristiche del dominio, qualunque forma esso rivesta: tipica manifestazione del dominio è il comando che, generalmente, è accompagnato dalla previsione di una conseguenza per il dominato, piacevole o spiacevole.
Il comando, pertanto, risulta essere costituito da due elementi, uno prescrittivo e l’altro sanzionatorio, quest’ultimo apparendo necessario per la sopravvivenza della struttura di potere la cui sola legittimità non sarebbe sufficiente in quanto “la razionalità umana è strutturata in modo da assegnare un’importanza più elevata alle proprie soddisfazioni immediate rispetto a quelle remote (p. 47). L’individuo è spinto, dunque, ad obbedire al comando per timore di subire una conseguenza negativa o per la prospettiva di ottenere una ricompensa che, peraltro, appare ristretta a casi eccezionali, poiché è economicamente svantaggiosa soprattutto nei contesti di obbedienza diffusa.
Minacciare una sanzione non è sufficiente al dominante che deve agire in modo tale che essa venga anche applicata: tale evenienza è fondamentale perché, come osserva Tincani, “ciò che conta […] è che sussista la credenza che la struttura di dominio sia in grado di punire (e punisce, nei fatti) i reali responsabili di ogni violazione” (p. 51).
Laddove esiste tale credenza, il soggetto sarà portato ad obbedire; laddove essa è assente – e di casi simili ve ne è un chiaro esempio anche in certe zone d’Italia – il soggetto conterà sulla sua impunità, nonostante abbia disobbedito al comando del dominante.
Il terzo capitolo prende in esame l’obbedienza che, in virtù del fatto che l’uomo nasce in strutture di dominio, è questione di abitudine che non ammette e non pretende domande tant’è che “quando l’obbedienza diventa abitudine, il sindacato sulle ragioni del dominio scompare” (p. 63).
Se diventa uno stato di normalità l’obbedienza dei dominati senza che questi ultimi facciano alcuna domanda ai dominanti, risulta comprensibile perché Re Artù perda le staffe quando, riprendendo la scena di un film dal titolo Monty Python and the Holy Grail (p. 15 e sgg.), egli non sa cosa rispondere ai due contadini che gli chiedono l’origine del suo potere, non ritenendo sufficiente la storia della signora del Lago che ha consegnato ad Artù la spada Excalibur.
La legittimazione basata sulla narrazione della signora del Lago è un esempio di come, in epoca medioevale, la storia pubblica insistette sull’origine divina del potere e sulle capacità taumaturgiche del re.
La storia pubblica, in ogni epoca, ha costruito situazioni e storie in grado di legittimare il potere dei dominanti. In epoca moderna e contemporanea il lavoro e la scuola sono stati i due strumenti principali per il mantenimento delle relazioni di potere: attraverso di essi infatti “le persone entrano a far parte di un funzionante sistema di dominio e, per così dire, ne fanno esperienza dall’interno” (p. 72).
Non a caso, con la rivoluzione industriale e con la macabra costruzione delle fabbriche la cui sola parola è sinonimo di alienazione, l’individuo viene irreggimentato in una logica dove obbedire all’ordine del superiore gerarchico è una situazione di fatto che non consente dubbi o tentennamenti.
La storia pubblica però, come avverte Tincani, non può fare a meno della collaborazione attiva dei dominati: se in questi non vi fosse la predisposizione a credere e se ogni fatto fosse accettato solo dopo un vaglio critico, per quanto ben congegnata ed architettata, non vi sarebbe storia pubblica in grado di attecchire pienamente sugli individui.
Le ultime pagine del terzo capitolo (pp. 82-93) sono dedicate all’esperimento condotto tra il 1960 ed il 1963 dal sociologo Stanley Milgram. La percezione che i partecipanti ebbero della legittimità dell’esperimento fece si che la maggior parte degli stessi, per quanto sostanzialmente non obbligata, obbedisse alle indicazioni degli scienziati, anche se tali indicazioni consistettero nel somministrare delle forti scariche elettriche ad altre persone (le scariche però erano finte come finte erano le grida di dolore delle persone).
All’esperimento di Milgram si fa riferimento in Enron: the smartest guys in the room, interessante film documentario sul fallimento dell’omonima azienda americana: infatti gli operatori di questa società, pur sapendo di commettere azioni in grado di ledere altre persone, agivano ugualmente perché votate unicamente all’obbedienza nei confronti degli amministratori della società, il cui unico obiettivo era quello di mascherare gli ammanchi finanziari.
Ampliando ancora di più l’analisi sull’origine del potere, nel quarto capitolo l’autore dimostra come le istituzioni continuino ad essere in vita perché fondano il loro dominio su risposte precodificate (p. 103). Ritornando al già citato film, Re Artù si trova in difficoltà perché il contadino gli pone una domanda che non ha una risposta precodificata, ciò significa, fondamentalmente, che “fornire risposte precodificate è possibile soltanto se, prima di tutto, sono precodificate le domande” (p. 104).
Ma come è possibile che pure le domande siano tutte precodificate? Usando le parole di Stanley Cohen, Tincani giunge ad una conclusione, ovverosia che “siamo tutti degli avari cognitivi che cercano di risparmiare energia raccogliendo solo gli stimoli che ci servono” (p. 106).
L’uomo, dunque, non ha alcun interesse ad analizzare sino in fondo ogni aspetto della vita che lo circonda e le origini del potere, senz’altro, rientrano in questa avarizia cognitiva; fortunatamente non è così per quei movimenti rivoluzionari – l’esperienza cubana, insieme ai movimenti politici sud americani, ne sono un coraggioso esempio – che hanno messo in dubbio il potere dalle radici: infatti “solo la genuina azione rivoluzionaria è quella che non ammette la convenzione e pretende di verificarne il contenuto” (p. 109).
Le verità preconfezionate – il dovere da parte degli Stati Uniti di esportare la democrazia ovunque nel mondo è una delle più infami e vergognose – trovano coriacea resistenza solo in chi è in grado di trasgredire perché “la trasgressione è una pretesa di verità. O meglio ogni pretesa di verità che viene presentata al dominante è un atto trasgressivo” (p. 113).
Nelle ultime pagine l’autore avverte circa le enormi difficoltà di mettere in pratica questi atti trasgressivi: obbedire, e quindi essere dominato, viene percepito come una ragione esimente universale che permette di sfuggire alle imputazioni delle proprie azioni, tali episodi essendosi verificati costantemente nel tempo, dal processo di Norimberga sino al G8 di Genova.
Rifacendosi a questi episodi, viene posto un interrogativo inquietante sulla natura umana basato sul presupposto che la possibilità di nuocere ad un altro o maltrattarlo significa essere superiore: fare del male, e dunque mostrare potere, è una costante che si ripete, la cui intensità cambia in base al contesto (p. 116 e sgg.).
Resta però forte la convinzione dell’autore che il dominio sia una delle possibili forme di organizzazione e non quella ontologicamente necessaria. Ed ancora, che gli individui, con il loro atteggiamento quotidiano e con il loro desiderio di conoscenza, possano creare organizzazioni diverse dove l’uomo non sia più soggetto a prevaricazioni e dove la verità non sia appannaggio di pochi eletti. Una rivoluzione di questo tipo, innanzitutto culturale, è sempre possibile.

Indice

Qualche domanda sul potere
Introduzione
Le forme elementari del dominio: potere, potenza, autorità
Controllo e sorveglianza
Legittimità, storia pubblica, propaganda
Dire la verità
Bibliografia


L'autore

Persio Tincani (La Spezia, 1968) insegna Filosofia del diritto presso il Dipartimento di scienze giuridiche dell’Università degli studi di Bergamo e collabora con il Dipartimento di studi sociali e politici dell’Università statale di Milano. Ha pubblicato saggi e interventi su Il Politico, Sociologia del diritto, A- rivista e altri periodici. È traduttore di numerosi saggi scientifici apparsi su pubblicazioni e monografie ed è autore della monografia Argomenti di giustizia distributiva (2004). È redattore della rivista Libertaria.

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