Recensione di Antonio Allegra – 31/01/2008
Filosofia analitica, Filosofia teoretica (gnoseologia)
Il libro di Diego Marconi mostra efficacemente l’esigenza diffusa di una netta affermazione realista e antirelativista, espressa recentemente anche, ad esempio, dal volume di Paul Boghossian, Paura di conoscere (Roma 2006), con cui presenta qualche affinità. Pur senza facili ottimismi di tipo razionalista, Marconi mostra le criticità del modello genericamente relativista diffuso, a vari livelli, da alcune raffinate elaborazioni teoriche fino al senso comune e cerca di indicare in che modo ed entro quali limiti sia possibile affermare uno spazio di discorso che non rinunci all’idea di verità (si tratta, come dovrebbe essere ovvio, di un passo cruciale ai fini della possibilità stessa del lavoro filosofico).
Il testo è chiaro e presenta una fitta, ma scorrevole, serie di argomentazioni; cerco in quanto segue di individuarne le principali. È anzitutto opportuno distinguere tra verità e giustificazione: “Una proposizione può essere vera anche se non ne abbiamo e non ne avremo mai una giustificazione. ‘Giustificato’ e ‘vero’ non sono sinonimi; anzi, una ragione per cui possediamo il concetto di verità è precisamente perché ci serve a distinguere tra il modo in cui le cose stanno e il modo in cui pensiamo che stiano” (p. 151). In questo modo diventa possibile comprendere che la relatività e la contestualità (indubbie) della giustificazione non implicano in alcun senso la relatività della verità: in realtà, quando osserviamo che una proposizione anche solidamente giustificata potrebbe venire confutata, quello che intendiamo è precisamente che essa potrebbe non essere vera. La confusione tra verità e giustificazione produce i suoi danni in varie forme: determina la sovrapposizione tra conoscenza e certezza, e dunque ha come conseguenza la “drammatizzazione della verità”, ovvero la caratteristica enfatizzazione di alcuni ovvi ed ineliminabili limiti epistemici. Marconi tiene piuttosto a ribadire che, pur se possiamo senza dubbio essere in errore, ciò non indica che di fatto si sia in errore. Per lo più, nelle nostre modeste valutazioni quotidiane non siamo affatto in errore: in generale ci sono molte ottime ragioni per ritenere, fino a prova contraria, che le nostre credenze siano vere.
Davidson ha sostenuto notoriamente che la nozione stessa di schema concettuale, intesa in maniera radicale, va abbandonata; ma in realtà, anche mantenendo tale nozione è possibile mostrare i limiti del relativismo. Pur se la domanda, ad esempio, sul rapporto tra sale e cloruro di sodio è effettivamente possibile solo nel nostro schema concettuale, ciò è ben lungi dall’indicare che la risposta a tale domanda, una volta che essa è formulata, possa dipendere, in qualche modo, dallo schema concettuale in questione. Il richiamo alla transconcettualità è uno degli strumenti cruciali adoperati da Marconi: “Il sale non era cloruro di sodio prima della creazione della chimica? E allora che cos’era […] qual era la composizione delle sue molecole? O non era composto da molecole?” (p. 64). Occorre, in altre parole, distinguere tra condizioni di verità di una proposizione e accessibilità di tali condizioni di verità. Tale accessibilità in effetti è in generale limitata: la formula frequente per cui qualcosa è vero per x ma non per y va compresa nel senso che y non possiede le risorse concettuali per accedere alla verità dell’asserto in questione. Dunque, sembra di capire che ancora una volta lo spazio della verità non coincida con quello della giustificazione, proprio nel senso che ciò che è vero può non essere accessibile alle nostre risorse epistemiche.
Sovrapporre verità e giustificazione implica non solo di contrarre pericolosamente lo spazio del vero; ne deriva anche la tendenza a identificare la verità come ciò che una batteria anche divergente di “giustificazioni”, di vario genere e natura e qualità, può produrre (diventa opportuno, in questo contesto, virgolettare le “giustificazioni”, per i motivi che sono stati espressi paradigmaticamente da McDowell). Marconi nota la fragilità di una “scelta che non è considerata l’esito di un processo deliberativo più o meno razionale” (p. 101). Un’opaca batteria di “circostanze oggettive” determinerebbe, al di là di qualunque rapporto con la verità, le scelte minime così come quelle cruciali dell’individuo: dalle tendenze calcistiche alle credenze epistemiche fondamentali. Come anche altri hanno osservato, in questo caso si “giunge a riconoscere e rispettare i valori altrui solo al prezzo di distruggere la loro natura di valori, e insieme, anche la natura di valori dei propri valori” (p. 117). Problemi simili si verificano, come è noto, anche e soprattutto in relazione a giudizi su questioni squisitamente etiche (cfr. ad es. p. 130). Come osserva giustamente Marconi, assunta rigorosamente tale posizione non è possibile determinare un nucleo di valori fondamentali irrinunciabili, e una “nuvola” di comportamenti forse riprovevoli ma sui quali la discussione potrebbe, per vari motivi, essere ammissibile: in realtà, dal punto di vista della motivazione totalmente “interna” (come cause, e non giustificazioni né tanto meno ragioni) diviene impossibile operare tale distinzione.
Al contrario, riuscire a riconoscere alcuni valori è possibile nella misura in cui sono integrati “in una discussione in cui quei valori vengono messi a confronto con altri”. L’astensionismo relativista è intimamente perdente perché i valori “esigono di essere messi a confronto” (p. 137), in una maniera in cui è del tutto normale che si possano riconoscere le ragioni che sottostanno tanto ai valori propri che altrui.
In realtà, la diffidenza nei confronti della pretesa di verità è anche più radicale. Ci viene detto che “dobbiamo diffidare comunque di quelle che si presentano come affermazioni vere, perché in realtà sono sempre costruzioni interpretative che hanno lo scopo di manipolarci” (p. 139). Ora, prendere davvero sul serio la pratica della diffidenza è complicato e quasi sicuramente contraddittorio: “La nostra vita quotidiana dipende da una miriade di informazioni che ci vengono fornite da altri. Familiari, colleghi di lavoro, passanti, e inoltre libri, giornali e siti Internet ci comunicano ogni giorno informazioni dalla cui attendibilità dipende l’efficacia delle nostre azioni, e, in alcuni casi, la nostra stessa sopravvivenza” (ivi). Opportunamente qui Marconi ricorda le note tesi di Paul Grice, che osservò il ricco tessuto della fiducia reciproca che segna, e rende possibile, i nostri scambi conversazionali (si badi: non è solo che noi pensiamo che i nostri interlocutori siano sinceri, ma anche che siano veridici). Egualmente utile avrebbe potuto essere, ad esempio, un riferimento alle tesi epistemologiche di Michael Polanyi, che hanno insuperabilmente mostrato la natura fiduciaria dello stesso lavoro della scienza: esso è un’impresa post-critica, dice Polanyi, ove la pretesa di tipo kantiano di una criticità totale deve essere radicalmente ridimensionata. Nella stessa direzione vanno, infine, le rinomate osservazioni di Donald Davidson sul principio di carità. Se è vero che questi meccanismi epistemici scattano anzitutto nelle nostre pratiche comunicative quotidiane e forse meno nei tentativi teorici “alti”, non è chiaro perché le banali oggettività comunicate nelle nostre quotidiane conversazioni (“il caffé l’ho pagato 90 centesimi” oppure “ho fame”) debbano contare meno, ai fini di un’analisi dell’essenza della verità, delle tesi della metafisica.
Mi pare che Marconi, en passant, tocchi un nervo scoperto dell’atteggiamento che cerca di mettere in discussione, quanto nota in esso una paradossale dimensione “infantile”. Sembra infatti che il relativismo si nutra anche di una scelta volontaristica affine a quella del bambino che afferma con forza il proprio punto di vista rivendicando di prescindere dal principio di realtà. In Nietzsche questo snodo psicologico è pressoché dichiarato: Dio è morto anzi viene ucciso, anzitutto perché noi si sia di conseguenza più liberi. Se la verità è oggetto di convenzione, essa non ci impegna – non molto, almeno. Il visibilio della liberazione del soggetto dalla pesantezza della verità è uno dei principali motivi psicologici (e propagandistici) di Nietzsche.
Condivisibile, infine, la proposta di una sorta di “ragionevole attenzione” argomentativa: “Si tratterà di vedere caso per caso, come sempre, se le giustificazioni proposte sono accettabili […] non ci sono bacchette magiche che esonerino dalla fatica dell’argomentazione: non ne è esonerato chi mette avanti una presunta verità etica, e non ne è esonerato nemmeno chi nega che sia tale. Nel dibattito pubblico non si accredita una tesi presentandola come oggetto di fede, né la si scredita in nome della laicità” (p. 146). Da un punto di vista metodologico, ne segue che ogni argomentazione va presa al proprio valore facciale, con totale indifferenza alle (eventuali) motivazioni più o meno nascoste o derivazioni fideistiche che abbiano indotto a metterla in campo: “Se uno sostiene che le norme sui cani dovrebbero essere più restrittive citando statistiche sulle persone aggredite dai cani e sugli incidenti causati dai cani, il fatto che lui personalmente abbia terrore dei cani è irrilevante” (p. 147).
Come già osservato, il pregio maggiore del libro è la sua chiarezza e perspicuità. Marconi non perde mai di vista il punto argomentativo e la tesi complessiva, secondo un’eccellente abitudine analitica non sempre frequente nella produzione filosofica italiana. Per quanto il testo non sia uno studio tecnico sul tema in oggetto (quali sono diffusi precisamente nella letteratura analitica cui si è fatto appena cenno), rappresenta tuttavia un’ottima introduzione ad esso.
Indice
Introduzione
I. Verità
II. Relativismi
III. La paura della verità
Appendice. Due ragioni per distinguere “vero” e “giustificato”
Bibliografia
L'autore
Diego Marconi insegna Filosofia del Linguaggio e Filosofia della Scienza all’Università di Torino. I suoi libri più recenti si occupano di linguaggio, mente e cognizione (La competenza lessicale, Laterza 1999; Filosofia e scienza cognitiva, Laterza 2001).
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