Recensione di Francesco Verde - 07/01/2008
Storia della filosofia (antica), Filosofia teoretica
Il volume di Salvatore Scribano si compone di quattro meditazioni su quattro dialoghi di Platone considerati “teoretici” dall’autore: il Teeteto, il Sofista, il Politico e il Parmenide. Le prime due meditazioni che si occupano del Teeteto e del Sofista sono più ampie e cospicue.
La prima meditazione è dedicata al Teeteto, un dialogo di centrale importanza nella filosofia di Platone che influenzerà tutte le filosofie di età ellenistica anche dal punto di vista terminologico, in cui il filosofo riflette dialetticamente sull’equazione proposta dall’interlocutore Teeteto: sensazione = conoscenza. L’intero dialogo tenta di ridurre il valore dell’equazione attribuendo alla aisthesis – identificata a partire da 152c con la phantasia – uno statuto assai lontano dall’identificarsi con la salda episteme. Scribano riflette sulle molteplici questioni proposte dal dialogo sottolineando come, ben prima di Kant, Platone abbia compreso che la vera conoscenza non possa esaustivamente esaurirsi nella mera sensazione. Quale misura o metron, si chiede Scribano, potrebbe offrire l’aisthesis (intesa come mutazione somatica) in tutta la sua cangiante e, si potrebbe aggiungere, costante mutevolezza? Le cose, in effetti, esistono perché sono pensate, in quanto solo nel pensiero esse sono; per questo motivo la sensazione ha un raggio di ampiezza senz’altro inferiore al possesso sicuro dell’episteme. Lo statuto della mente, secondo Scribano, è dunque particolarissimo: essa attinge la ousia della cosa pensando un pensiero, pensando in qualche modo se stessa, è pensiero di pensiero (p. 60) laddove il carattere a-prioristico della conoscenza è più che il logos il dia-logos, è il logos sempre in contatto – dia – con un “donde” cui attinge. Secondo l’autore, quindi, Platone riconosce un unico a-priori, il pensiero stesso che si attua come co-scienza incontrando le cose del mondo (p. 62). La ousia, pertanto, è tale solo se esiste una mente che la pensa; eppure l’oggetto del suo pensiero non può che essere se stessa se si ammette che la ousia è sempre pensata e affermata come idea (p. 79). La conoscenza appartiene, quindi, solo agli animali dotati di logos in grado di cogliere la ousia su cui può senz’altro declinarsi attuando il syn/ana-logizein. Come spiegare, allora, la possibilità dell’errore? Ben prima del Descartes della quarta delle Meditationes che si rifugia nella distinzione prima agostiniana poi scolastica malum privationis/malum negationis, Platone si pone la questione. Colui che pensa è in grado di produrre una falsa opinione in quanto, secondo Scribano, l’“è” attribuito nel pensare alla cosa pensata non corrisponde all’“è” della cosa pensata (p. 87); l’errore quindi si ingenera proprio perché la struttura del pensiero rimane nonostante tutto l’oggettiva coincidenza di due oggetti, il ti e l’eteron ti. L’atto di conoscenza rimane dunque fondamentalmente sintetico (synlogismos) e per questo perennemente dischiuso alla possibilità dell’errore; si tratta di un atto che come tale riconosce (affermandolo) to on non potendo far altro che riconoscerlo: nel medesimo atto di pensiero non è possibile il contemporaneo riconoscimento di to on come me on, tuttavia la possibilità del falso continua ad annidarsi perentoriamente nella sintesi che fonda essenzialmente la conoscenza. L’errore, sottolinea Scribano, è il fallimento dell’accordo fra il semeion e l’aisthesis di un ti (p. 97), fra il significato e la sensazione che assume un valore significativo solo nel semeion inciso, per usare la metafora platonica, nel kerinon ekmageion (191c), nella tavoletta cerata intesa, fuor di metafora, come luogo atto alla distinzione fra oggetto e senso. Il vero e il falso si caratterizzano, in ultima analisi, come appartenenti alla sfera del logos (così come lo sarà per Epicuro, probabile conoscitore del Teeteto platonico) in cui la verbalizzazione del logos pone accanto all’oggetto (reale o ideale che sia) qualcosa d’altro. Per Scribano, tuttavia, resta ben fermo che per Platone l’evento dell’atto di pensiero come visione dell’eidos rimanga costitutivamente inscindibile dall’avvento dell’essere delle cose legato per essenza alla loro pensabilità.
La seconda meditazione ha per oggetto il Sofista, ancora un dialogo centrale all’interno della produzione platonica; Scribano si sofferma a ragione sulla parte centrale del dialogo in cui Platone per confutare la “verità” del sofista dotato delle (quasi) invincibili “armi” fornite da Parmenide dovrà necessariamente attuare il celebre “parricidio”. La domanda del dialogo è, forse, la domanda della filosofia, la questione dell’essere; secondo l’esegesi di Scribano il pensiero dell’essere non può che ospitare in se stesso il suo contrario ma in due significati ben distinti. Da un lato, il pensiero dell’essere è quello del non essere o, come preferibilmente afferma Scribano, dell’essere meonico; il to einai è l’“è” di to on ma è l’einai a fornire l’essere al to on e questo accade solo quando l’einai trascende, celandosi e facendo da limite, to on. Dall’altro il pensiero dell’essere ospita il suo contrario considerando to me on come diversamente altro (eteron) da to on, il “suo” molteplice, i ta onta (p. 151). Dopo l’analisi delle riflessioni che Platone dedica agli “amici delle forme”, Scribano fa oggetto della sua meditazione i megista gene, i generi sommi, in particolare il genos dell’eteron. Il parricidio del venerando Parmenide (e con lui la confutazione del sofista) avviene rifiutando l’onni-potenza/presenza dell’identità; il principio di identità – pur rimanendo tale – lascia il posto alla contraddizione ma non ad una contraddizione intesa (quasi pre-hegelianamente) come negazione perentoria o come contraddizione solo formale: l’eteron di Platone non nega to on così come non lo contraddice ma solo lo con-dice (p. 172). La diversa alterità individuata da Platone non si colloca nella contraddizione totale ma dischiude la koinonia dell’essere (che Scribano non si limita a definire Gloria – p. 183); dicendo to on si dice pure to me on: l’alterità dell’eteron non si identifica con il principio di contraddizione ma con il principio di non contraddizione. Platone riconosce accanto all’identico – che ci tiene a non negare – il diverso: per riprendere il Teeteto, il pensiero per consolidarsi come tale esige la presenza di una eterotes che solo nella koinonia con l’identità non si riduce a mera e sterile contraddizione.
La terza breve meditazione ha come oggetto il Politico; Scribano si sofferma sulla metodologia dialettica platonica, sul diakrinein kata genos. La diairesis, la progressiva suddivisione di quei “concetti” che risulteranno caratterizzanti dell’uomo regale, inizia sempre da qualcosa che somigli all’oggetto ricercato: Scribano sottolinea che, di conseguenza, il processo conoscitivo sull’essenza di qualcosa può avere inizio solo se si pone necessariamente un’altra cosa: la molteplicità è sempre precedente l’essenza. Grazie al processo diairetico si giunge ad affermare come la ousia dell’uomo regale non è l’esercizio del potere ma egli è tale paradigmaticamente solo se in possesso di una techne e dunque l’episteme ad essa corrispondente.
L’ultima meditazione concerne uno dei dialoghi più articolarti e complessi dell’intera produzione filosofica di Platone, il Parmenide. L’oggetto dell’intero dialogo che porta il nome della “vittima” del Sofista, si incentra sull’ardua questione della definizione dell’uno rispetto ai molti. A ragione Scribano mette in luce come uno dei problemi centrali della filosofia di Platone consista nella comprensione del rapporto fra unità e molteplicità: la molteplicità può essere considerata una sorta di account costante che alimenta de iure la speculazione platonica sia come antagonista dell’unità sia come (benvoluta) alterità. Le cose esistono in virtù della loro methexis con l’eidos; la vera realtà ontologica di ciò che è può essere riscontrata solo al livello eidetico; lo on della cosa deriva da un livello di realtà sempre precedente e già stato: l’è della cosa deriva dallo stato che rappresenta la ragione – a detta di Scribano, per nulla esaustiva (p. 266) – del suo essere, il suo pensiero.
Tra le quattro meditazioni senza dubbio le prime due si distinguono per una più lucida profondità teoretica; un punto che, ad avviso di chi scrive, andrebbe maggiormente enfatizzato nella seconda meditazione dedicata al Sofista è il seguente. Senz’altro l’eteron rappresenta un megiston genos dell’essere così come è pensato da Platone; a ragione Scribano sottolinea come con l’essere si con-dice il diverso ma forse in questo punto va usata maggiore cautela. Non bisogna credere, infatti, che l’eteron del Sofista sia una declinazione interna dell’essere; l’eteron rimane pur sempre un megiston genos dell’essere. Se l’alterità di cui tratta il Sofista venisse compresa come intrinseca declinazione dell’essere, Platone avrebbe anticipato il pollachos legetai di Aristotele (ma già l’accento che Scribano pone sull’atto di conoscenza come pensiero di pensiero anticipa – almeno terminologicamente – il discorso aristotelico). Aristotele ha sostenuto che l’essere si dice in molti modi; il pollachos è ben comprensibile alla luce delle categorie. Aristotele affermando la multivocità dell’essere non fa altro che declinarlo intrinsecamente, per questo non necessita di alcun parricidio. L’avversione aristotelica per Parmenide e l’eleatismo più che a livello “ontologico” si dibatte sul campo fisico; i primi libri della Fisica, infatti, tentano di confutare tramite l’osservazione e la ragione fisica la nozione eleatica di physis priva di kinesis. Da questo punto di vista Aristotele accusa in un certo qual modo Platone di rimanere, nonostante l’efferato parricidio, eleatico e figlio legittimo di padre Parmenide; secondo Aristotele, Platone non è riuscito a concepire un essere variegato e declinato al suo interno ma è dovuto ricorrere all’eteron che in quanto “diverso” rimane pur sempre esterno all’essere. È vero che l’essere di Platone, in quanto koinonia di gene, si dice in più modi (come moto, quiete, identico, diverso) ma tali modi rimangono ad un livello di esteriore univocità che non è in grado di declinare l’essere dall’interno.
Nel complesso il volume di Scribano – nonostante la fastidiosa presenza di un quantitativo notevole di refusi – è un’opera importante che si distingue per professionalità, competenza argomentativa e capacità teoretica. Il fatto che il volume si presenti in un linguaggio complesso e articolato e i continui e necessari riferimenti in lingua greca presuppongono un lettore dotato di una buona conoscenza della filosofia e dei dialoghi in questione di Platone (oltre che del greco antico). Si tratta, ovviamente, di meditazioni, pertanto un lettore che intenda conoscere per la prima volta questi dialoghi non dovrebbe di certo avvicinarsi a questo volume: l’approccio dell’autore non è né didattico né storiografico ma genuinamente teoretico.
A Scribano va il merito di aver riportato al centro della grande editoria la filosofia di Platone meditando su alcuni dialoghi decisivi per il pensiero occidentale che a distanza di oltre due millenni, nonostante l’affastellarsi di continue esegesi, non smettono di essere oblativi di riflessione. D’altronde se la filosofia di Platone è il logos del mythos, parabola dell’ineffabile (p. 148), Scribano ha certamente contribuito a dare voce a ciò che non si può dire.
Indice
Prefazione
Come chi ha il mal di mare
La cosa e la sua ombra
Il tempo della vita umana
La parabola dell’esistente
L'autore
Salvatore Scribano (Ragusa 1948) ha conseguito la laurea in Fisica presso l’Università di Catania e la licenza in Teologia Dogmatica presso la Pontificia Università Gregoriana. Ordinato sacerdote nel 1981, ha esercitato il suo ministero presso il Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani nel settore del dialogo con le chiese ortodosse slave, e dal 1992, rientrato in diocesi, a Catania.
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