[Ed. or.: On the Political, Routledge, London 2005].
Recensione di Antonino Scalone – 02/03/2008
Filosofia politica, teoria della democrazia
L’obiettivo contro il quale Chantal Mouffe sviluppa il suo ragionamento in questo agile volumetto è la convinzione, sempre più diffusa in ambito politologico, che la condizione postmoderna, in virtù della globalizzazione e dell’affermazione a livello mondiale del modello politico liberale, sia caratterizzata dal definitivo superamento dell’orizzonte agonistico del politico. Una simile convinzione è caratterizzata a sua volta dal presupposto che il conflitto sia in sé qualcosa di pericoloso e di moralmente sbagliato. Una teoria democratica all’altezza dei propri compiti e capace di interpretare in modo adeguato la situazione contemporanea, sia a livello globale, sia a livello locale, dovrebbe invece realisticamente riconoscere, a giudizio di Mouffe, «il carattere ambivalente dell’associarsi umano e il fatto che reciprocità e ostilità sono inseparabili» (p. 3). Anziché correr dietro a fumosi progetti di conciliazione universale, i teorici politici di parte democratica dovrebbero «prospettare la creazione di una sfera pubblica di contesa, fortemente «agonistica», nella quale possano confrontarsi differenti progetti politici che aspirano all’egemonia»; la creazione di tale sfera, infatti, è a giudizio dell’autrice la «conditio sine qua non per un effettivo esercizio della democrazia» (p. 4).
Sono così sottoposte a critica innanzi tutto la nozione di “subpolitica” elaborata da Ulrich Beck e quella di “società post-tradizionale” avanzata da Anthony Giddens: ambedue appaiono caratterizzate, a giudizio dell’autrice, dalla convinzione che nel presente, in conseguenza del dissolvimento di identità e appartenenze consolidate, sia possibile intendere la dialettica democratica «come un dialogo tra individui il cui scopo è di creare nuove solidarietà e di estendere le basi di una fiducia attiva» (p. 54). In tale quadro, l’unico nemico che rimane è il “tradizionalista” o “fondamentalista” il quale, ponendosi al di fuori dell’orizzonte dialogico pacificato, si qualifica per ciò stesso come nemico da eliminare.
Riconducibili al medesimo orizzonte e dunque soggette alla medesima critica sono la teoria di Jürgen Habermas e quella di Richard Rorty. Il primo ritiene che sia possibile «fondare la natura sostanzialmente razionale della democrazia liberale e dunque la sua validità universale» (p. 97). In questo modo, ogni opposizione a tale ordine verrà qualificata come irrazionale e dunque come politicamente illegittima e moralmente arretrata. Il secondo, pur partendo da una prospettiva diversa da quella razionalistica di Habermas, ritiene tuttavia di poter realizzare “un consenso universale” intorno ai principi della democrazia liberale, né «mette mai in discussione la superiorità dello stile di vita liberale» (p. 101).
Negando l’originarietà e l’intrascendibilità della sfera politica e pretendendo di ridurre il conflitto a dialogo, tutti questi teorici si precludono però la comprensione di fenomeni rilevanti del panorama contemporaneo, a partire proprio dal fondamentalismo e da altre forme di “appartenenza” politica radicale, quali ad esempio i partiti fortemente nazionalisti o addirittura xenofobi che pure in anni recenti hanno conosciuto un notevole sviluppo nel cuore della stessa Europa democratica.
Altrettanto deficitario sul piano teorico e sul piano pratico appare a Mouffe l’approccio transnazionale e cosmopolitico che pretende di poter superare la conflittualità fra Stati e le violazioni dei diritti umani all’interno di essi attraverso forme di rappresentanza globale – come l’Assemblea parlamentare globale immaginata da Andrew Strauss e Richard Falk - e istituzioni sovranazionali in grado di imporre o di ripristinare anche con la violenza – è il caso delle forze armate internazionali previste da David Held – l’ordine “giusto”.
Infine, viene sottoposta a critica la lettura “imperiale” dell’ordine politico mondiale avanzata da Antonio Negri e Michael Hardt: tale lettura da un lato trascura il ruolo egemonico esercitato a livello mondiale dagli Stati Uniti e dall’altro, affermando il carattere “liscio” dell’impero, privo di un autentico “fuori”, finisce per rivelarsi «come un’ulteriore versione della visione cosmopolitica» (p. 125). La nozione di moltitudine, poi, a giudizio dell’autrice non riesce a nascondere la mancanza di “strategia politica”: in che modo – si chiede Mouffe - questa moltitudine potrà effettivamente costituirsi come soggetto politico rivoluzionario e instaurare quella democrazia assoluta di cui parlano Hardt e Negri?
A sostegno della propria proposta, che potremmo forse definire “neopolitica”, Mouffe si vale della riflessione di Carl Schmitt. Egli sembra in grado di offrirle infatti quella concezione realistica del politico – inteso come contrapposizione esistenziale fra amico e nemico – capace di battere in breccia ogni illusione cosmopolitica e ogni pericolosa commistione – inevitabilmente connessa al cosmopolitismo - fra politica e morale.
Ci si può però chiedere fino a che punto le posizioni schmittiane possano costituire un effettivo sostegno alla concezione politica dell’autrice. È ben vero che il giurista tedesco propone la categoria amico/nemico come criterio di misurazione del politico, ma al tempo stesso combatte risolutamente l’esistenza di contrapposizioni di questo tipo all’interno delle unità politiche date, vale a dire degli Stati sovrani. A suo avviso, uno Stato incapace di detenere per sé il monopolio della decisione su chi sia amico e chi nemico è uno Stato in via di dissoluzione, come ad esempio la Repubblica di Weimar, e sull’orlo della guerra civile. Per questo motivo egli pone con forza in molti suoi scritti la necessità, vitale soprattutto per le democrazie, di eliminare il nemico politico interno. Si legge ad esempio ne La condizione storico-spirituale dell’odierno parlamentarismo: «Proprio della democrazia è, dunque, innanzitutto l’omogeneità e secondariamente – all’occorrenza – l’eliminazione o l’annientamento dell’eterogeneo» (C. Schmitt, La condizione storico-spirituale dell’odierno parlamentarismo [19262], trad. it. Torino, Giappichelli 2004, p. 11). E poco più avanti: «La forza politica di una democrazia si mostra nel fatto che essa sa eliminare o tenere lontano ciò che, in quanto estraneo e disuguale, minaccia l’omogeneità» (ivi, p. 12). Più affine alla prospettiva di Mouffe sembrerebbe essere invece il pensiero di Kelsen: questi infatti, rifiutando ogni concezione sostanzialistica di popolo e criticando radicalmente le nozioni di rappresentanza, interesse generale e bene comune, scorge il motore autentico della politica proprio nel conflitto che, all’interno di ogni unità politica, si produce fra forze politiche organizzate di differente orientamento ideale e materiale.
Una seconda osservazione critica che può essere rivolta a Mouffe riguarda il fatto che il modello multipolare da lei proposto per intendere la realtà politica internazionale è ancora – come mostrano gli esempi avanzati: i processi egemonici innescati da Brasile e Argentina nell’America latina, o il ruolo crescente di superpotenza rivestito dalla Cina – di tipo statualistico e statualistica è la logica che regola i loro rapporti. Ora, senza voler sottovalutare il ruolo che gli Stati nazionali svolgono e prevedibilmente continueranno a svolgere sulla scena politica internazionale, non si può non osservare come un simile approccio trascuri in misura eccessiva il ruolo delle istituzioni inter- e sovranazionali.
Infine, occorre notare che anche all’interno dello schema di ragionamento proposto da Mouffe vale il principio di esclusione che pure viene rimproverato ad altri: anche a suo avviso alcune posizioni (quelle di chi, nel linguaggio di Mouffe, da “agonista“ si fa “antagonista”) devono necessariamente essere considerate come non-politiche e pertanto vanno escluse dal gioco politico in senso proprio: «Una società democratica – scrive significativamente – non può trattare coloro che mettono in questione le sue istituzioni di base come avversari legittimi»(p. 139). In questo modo, però, non solo si lascia aperto il problema di determinare l’istanza (sovrapolitica?) eventualmente chiamata a decidere sulla legittimità/politicità dei vari attori, ma, soprattutto, si introduce un elemento qualitativo del tutto estraneo all’approccio schmittiano. Per il giurista di Plettenberg, infatti, come si legge ne Il concetto di politico, «ogni contrasto religioso, morale, economico, etnico o di altro tipo si trasforma in un contrasto politico, se è abbastanza forte da raggruppare effettivamente gli uomini in amici e nemici» (C. Schmitt., Il concetto di politico [19323], trad. it. in Id., Le categorie del politico, Bologna, Il Mulino 1972, p. 120; il corsivo è nostro).
Indice
Introduzione
La politica e il politico
Oltre il modello della lotta tra avversari?
Le sfide attuali alla visione postpolitica
Quale ordine mondiale: cosmopolitico o multipolare?
Conclusione
Note
Indice dei nomi
L'autrice
Chantal Mouffe insegna teoria politica presso il Centre of the Study of Democracy dell’Università di Westminster. Ha studiato nelle Università di Lovanio, Parigi e Essex. Ha insegnato in numerose università europee, statunitensi e dell’America Latina. Ha ricoperto incarichi di ricerca a Harvard, Cornell, all’Università della California e al Centre Nationale de la Recherche Scientifique di Parigi. Dal 1989 al 1995 è stata Directrice de Programme al College International de Philosophie di Parigi. Fra i suoi lavori: The Return of the Political (1993) e The Democratic Paradox (2000).
Link
University of Westminster - pagina web dell’autrice
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