lunedì 28 aprile 2008

Saffioti, Francesca, Geofilosofia del mare. Tra oceano e mediterraneo.

Reggio Emilia, Diabasis, 2007, pp. 250, € 17,00, ISBN 9788881034833.

Recensione di Laura Menatti - 28/04/2008

Geofilosofia

La geofilosofia, come pensiero della Terra, interroga il senso del nostro abitare. Questione filosofica rivolta a problematiche epocali e destinali, solleva interrogativi a cui l’individuo contemporaneo e il filosofo non possono sottrarsi.A questo compito non si esime il saggio di Francesca Saffioti Geofilosofia del mare, esauriente analisi geosimbolica, filosofica e storica dell’elemento mare.
Il nucleo teorico del testo si svolge entro il binomio mare/oceano. Mare come portato articolatorio e differenziale, limite entro cui si staglia il pensiero e la costituzione dell’individuo, Oceano, dall’altra, come infinitezza e prodromo della globalizzazione contemporanea.
Nel dettaglio il testo è organizzato in undici densi capitoli. Densi per lo spessore dell’interrogare, per la ricchezza bibliografica, per gli invii alla riflessione che dimostrano una partecipazione al pensare geofilosofico e ad importanti tematiche quali la concettualizzazione dell’alterità, della differenza, dello spazio globale. Punti nodali di un pensare la Terra in chiave altra, non realisticamente riduttiva o ancor più scientista.
Il percorso dell’autrice (quasi come un Weg heideggeriano, de-tour, che presenta, ritorna, decostruisce e riflette) inizia con gli aspetti geosimbolici a partire dall’Antichità:i greci concepiscono il mare come infinito negativo. Il loro Oceano dà origine (come in molti altri miti cosmogonici) alla Terra e la circoscrive. Il mare è, invece, articolazione, diversità, vita, ciò che produce differenza qualitativa. L’Oceano moderno è, invece, quello che, secondo una filosofia degli elementi, ravvisabile nella trattazione di Carl Schmitt, non ha tratti qualitativi, ma solo uniformità quantitativa. Su questo Oceano gli europei costruiscono il loro anelito alla conquista, e riducono la terra a globo, sfera navigabile, ulteriormente distinta in meridiani e paralleli, disegno commerciale e scientifico per i propri interessi. Il mare diventa, con l’Oceano moderno, spazio di conquista, dimora a-topica della soggettività ipertrofica che tutto abbraccia con la potenza del pensiero e della rappresentazione.
L’apertura degli Oceani, che inizia con la modernità, significa una diversa modalità del viaggiare (“dal viaggio dell’antichità legato a un centro e ad una de-limitazione, attraverso confini che definiscono luoghi”, p. 27) e una diversa modalità dell’abitare. Stravolgimento della relazione al luogo, fondazione di una nuova ontologia: la dimensione oceanica spalanca le porte all’anima faustiana dell’Occidente. “I caratteri dell’anima faustiana, propri della modernità, sono infatti precisamente quelli di una navigazione oceanica: il desiderio di libertà, il corrispettivo sentimento dell’infinità, il pathos della distanza, la condizione di solitudine” (p. 27).
Lo spazio che si annuncia è quello dell’ou-topia (isola progettata dalla ragione moderna, p. 33) e la dis-topia della modernità. L’autrice riprende in questo la distinzione geofilosofica tra spazio e luogo: il primo è portato geometrico di infinità e quantità, rappresentazione tutta soggettiva con la presunzione normativa; il secondo è relazione qualitativa, culturale e storica, sedimentazione simbolica e geosimbolica di una relazione di senso tra luogo e individuo.
L’epoca moderna articola un’essenziale distanza tra il mare e l’oceano e tra il mare e la terra. Questo binomio, che investe l’essere nel senso di un cambiamento radicale di un’epoca, è analizzato nei due capitoli che seguono il percorso delineato da Carl Schmitt: La scelta del mare tra geopolitica e geofilosofia e L’impero acquatico.
È in queste pagine che l'autrice sviluppa tematiche schmittiane di fondamentale importanza per l'analisi della contemporaneità: sostanziale la decisione dell'individuo moderno (e nello specifico dell'Impero inglese) per l'elemento Oceano. Tale decisione implica una radicale rivoluzione dell'ontologia e un allontanamento dall'elemento fondativo terraneo e locale.Essa si realizza nell'affermazione del movimento destinale della tecnica moderna, che autori come Heidegger e Jünger hanno preconizzato e analizzato nel '900.
Il passaggio dal mare all'oceano faustiano implica unepocale cambiamento nella concettualizzazione dello spazio, dell'individuo, della guerra e della relazione al luogo. Il legame con l'Oceano procede per un graduale dis-tacco dalla terra, ridotta a sfera, in cui le ontologie locali sono punti su un reticolo spaziale, prive di quel “senso del luogo “ che si instaura nella relazione storica, geo-simbolica e memoriale. Tale e-radicamento delle peculiarità e delle differenze dei luoghi sulla Terra si esplica e trova ilsuo massimo compimento nichilistico nell'odierna globalizzazione.
Il mondo, con il pensiero moderno, subisce una radicale trasformazione. Questo sottolinea la Saffioti sulle orme del pensiero heideggeriano. La Terra è ridotta a immagine e solo in un mondo reso omogeneo dalla superficie del mare è possibile l'esperimento e lo sfruttamento della natura ad opera dell'uomo occidentale. “Lo spazio si trasforma da ciò che definisce l'esserci dell'uomo – la finitezza – a ciò che, invece, è oggetto di un'attività umana infinita” (p. 42). Oceano è simbolo del modus operandi dell'individuo moderno: la sperimentazionee il dominio su di una Terra considerata come eternamente disponibile e sfruttabile. L'Io moderno, come si sottolinea nel capitolo quinto, Ulisse tra i due mari, è caratterizzato dalla presunzione del dominio: riuscire a manipolare l'ente che gli si pone dinanzi (p. 112).
Lo sguardo dell'autrice si rivolge infine al pensiero meridiano: rispetto alla forza sradicante dell'Oceano si propone un pensiero articolatorio e attento alle differenze peculiare di chi abita le sponde del Mediterraneo e instaura con esse un legame identitario elettivo.
Attraverso autori quali Nietzsche, Heidegger, Camus, Derrida il modello mediterraneo del pensiero valorizza il finito nell’altro (p. 130), la relazione con la diversità e l’alterità si esplica in un con-venireche, nella distanza, ne rispetta l’assolutezza.
Il paesaggio mediterraneo è un arcipelago (per usare un’espressione di Massimo Cacciari) di isole, mai distinte e separate, ma relate nella consapevolezza della loro differenza. Nell’arcipelago l’insularitàautosufficiente, corpo unico e totalizzante, passa ad essere luogo di reciprocità asimmetrica, molteplicità e scarto. Il mare non evita quindi la mediazione e la relazione, come opera invece l’Oceano, ed è cultura delle differenze e delle specificità del paesaggio. Il Mediterraneo diviene nella riflessione della Saffioti luogo dell’essere plurale: “Il percorso che la via meridiana indica è appunto doppio: esso vorrebbe raccogliere insieme i due momenti dell’andata e del ritorno, del dentro e del fuori, del legame e della reciproca esteriorità, del dialogo e della divisione, della difesa delle differenze all’interno di un topos/logos di matrice geofilosofica che sappia abitare nella distanza e nella misura fra terra e mare” (p. 137).
Il Sud del pensiero meridiano diviene, di contro alla tabula rasa della globalizzazione, luogo emergente della cura delle differenze e delle singolarità, apertura ove si può dare l’ospitalità a un’alterità sempre a-venire e costruire un nuovo modello di democrazia e di comunità.

Indice

Aspetti geo-simbolici 
L’apertura degli oceani 
La scelta del mare tra geopolitica e geofilosofia 
L’impero acquatico 
Ulisse fra i due mari 
Sul confine meridiano 
Rivoltarsi/Rivolgersi verso Sud 
L’Europa rapita 
La misura dell’Arcipelago. Asimmetria e connessione 
Il proprio e l’estraneo 
Democrazia meridiana 
Bibliografia


L'autrice

Francesca Saffioti (Reggio Calabria, 1978) è dottore di ricerca in Metodologie della filosofia e collabora con la cattedra di filosofia teoretica della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Messina. Ha pubblicato Isole mediterranee: spaziosi accoglienza – spazio di esclusione, «Mesogea», 2, 2005 e Decostruire il terrore. L’evento senza sovranità, «B@belonline/print. Rivista di filosofia», 2, 2006.

Corriero, Emilio Carlo, Nietzsche oltre l’abisso. Declinazioni italiane della “morte di Dio”.

Torino, Marco Valerio, 2007, € 16,00, ISBN 9788875470777.

Recensione di Gualtiero Tacchini – 28/04/2008

Storia della filosofia (contemporanea)

L’opera è divisa in due parti profondamente collegate (con evidenti riprese) dal tema fondamentale, il contributo dato dalla filosofia italiana a un’interpretazione ontologica di Nietzsche che, con la ‘morte di Dio’, ci conduce oltre ogni fondamento metafisico assoluto, a un abisso ove emerge la libertà originaria e assoluta che non conosce necessità.
Come si legge nelle Questioni generali, “con la ‘morte di Dio’ l’uomo ha perso il suo valore, si è fatto tensione in equilibrio sopra un abisso; ha ritrovato la precarietà da cui Dio lo preservava con la sua menzogna” (p. 21) e “con la ‘morte di Dio’ muore la concezione progressiva del tempo; poiché su di essa si è resa possibile ogni forma di separazione: ‘mondo vero’ e ‘mondo apparente’; ‘passato’, ‘presente’e ‘futuro’; ‘mondo’ e ‘uomo’; ‘corpo’ e ‘anima’. Segnando il discrimine temporale tutto appare scisso e soggetto a forze superiori. La dottrina dell’eterno ritorno completa il movimento iniziato con la ‘morte di Dio’, in quanto restituisce la pienezza della vera Eternità e consente la libertà di creare” (p. 29).
Dopo le Questioni generali è ricostruito l’ambiente storico-culturale in cui la filosofia ha rivisitato Nietzsche e i forti debiti da essa contratti con la cultura europea degli anni ’30. Infatti, presupposti necessari della nuova lettura del filosofo tedesco sono il superamento e la negazione delle letture politiche, non solo quelle, più note e stigmatizzate, in chiave filo-nazista, ma anche quelle di segno opposto, che hanno un rappresentante emblematico in Lukacs che, nella Distruzione della ragione, riduce l’irrazionalismo nietzschiano a espressione dell’incapacità di impossessarsi della realtà da parte di una classe sociale, la borghesia, che ha esaurito la sua funzione storica.
Il merito della nuova interpretazione va attribuito soprattutto a Löwith, Jaspers, Bataille e Heidegger. Il primo sostiene che la ‘morte di Dio’ è un tentativo di ‘ri-fidanzamento’ dell’uomo con il mondo ed è profondamente legata al nichilismo, in quanto con essa “l’uomo si trova nelle spire del nichilismo, e, grazie alla fede nella dottrina dell’eterno ritorno’ acquista la ‘nuova forza di gravità’“ (p. 33). Jaspers vede nell’annuncio della ‘morte di Dio’ “la richiesta univoca di un nuovo Dio, a metà strada tra l’empietà e la fede nella rivelazione cristiana”. (p. 35) Per Bataille, “che Dio sia morto vuole innanzitutto dire che all’uomo viene revocata ogni promessa di risarcimento” (p. 37) e “la volontà, emancipata da qualsiasi attesa (economica) di un premio per la propria autolimitazione, si affranca da ogni principio utilitario” (p. 37). Heidegger fa di Nietzsche l’ultimo metafisico: “Il problema di Nietzsche è infatti lo stesso problema della metafisica, il problema dell’essere” (p. 38). Questo soprattutto nell’ultima opera progettata dove “la volontà di potenza risolve tutto l’essere in volere, cioè lo riporta al nulla” (p. 38). La ‘morte di Dio’ rappresenta il compimento del nichilismo, che è l’ultima parola della metafisica della presenza che identifica l’essere con un ente. Secondo Heidegger, anche la dottrina dell’eterno ritorno va ricondotta alla volontà di potenza.
Momento importante dello studio di Nietzsche in Italia è l’opera critico-filologica di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, che nel 1958 intrapresero la riorganizzazione dei testi nietzscheani (soprattutto La volontà di potenza) e la loro traduzione. I due studiosi non si limitarono al lavoro filologico, ma diedero contributi monografici all’interpretazione. Colli sostiene che “la ‘morte di Dio’ segna la rottura di un ‘sostegno’ metafisico che assicurava l’individualità, obnubilando l’immediatezza” (p. 75). L’unico Grund possibile è il rapporto con l’immediato, l’abisso dell’estasi. Montinari collega l’opera del filosofo tedesco alla sua biografia in quanto per lui scrivere significava vivere e il suo impulso filosofico deve essere cercato nella sua volontà di dire sì alla vita, comunque e in ogni circostanza. Per questo Montinari concorda con Löwith nel ritenere che “l’idea dell’eterno ritorno sia l’evento culminante della vita di Nietzsche” (p. 79). Parte integrante della sua filosofia è il naufragio: “Se si intende l’approdo come la scoperta di un Grund inconfutabile” (p. 84).
Nel frattempo nascono i primi studi italiani, tra i quali Corriero cita come “pioniere” Luigi Pareyson, in quanto “il suo approdo ermeneutico sembra innestarsi a pieno titolo nell’abissalità prodotta dalla ‘morte di Dio’“ (p. 198).
Il legame tra la ‘morte di Dio’ e l’eterno ritorno, che è uno degli aspetti caratteristici della riflessione italiana, giunge alla sua espressione più chiara in Masini. Per lui l’eterno ritorno è il completamento della ‘morte di Dio’ e in quanto tale nega “la differenza che la metafisica istituisce tra l’essere del ‘mondo vero’ e il divenire del mondo dell’uomo” (p. 86). Per De Feo, nel filosofo tedesco “si agita una dialettica del finito volta alla negazione di quei Valori che poggiano sulla ‘nientità’ del ‘mondo vero’ (p. 85). Nella sua ottica, la trasvalutazione dei Valori si ridurrebbe all’analisi critica dei Valori della metafisica.
Vattimo in un primo tempo vede come una delle conseguenze dell’eterno ritorno un radicale mutamento della visione del tempo, da catena irreversibile di attimi ordinati in serie a cerchio in cui si instaura un rapporto di reciproca influenza tra il passato e il futuro. L’uomo liberato dal passato immutabile può aprire la sua esistenza alla vita e ogni sua decisione non è più in rapporto con un determinato momento della catena, ma con la totalità del divenire e dell’essere, non più contrapposti come verità vs apparenza. L’uomo nuovo è in grado di assumere le proprie responsabilità nella coscienza che non esiste il mondo in sé ma esistono i mondi come pensieri in perenne movimento. Ci si deve accostare alla verità mantenendo un rapporto con l’origine, la quale genera mondi come (o in quanto) genera le prospettive entro cui essi si rivelano. L’agire dell’artista diventa il modello per il pensiero filosofico autentico. Poi, ne Il soggetto e la maschera (1974), Vattimo afferma che “ordinando il mondo secondo la propria volontà, l’uomo si impadronisce della cose secondo la visione della volontà di potenza come arte” (p. 107) e proprio questa volontà di potenza come arte “può decostruire il soggetto, ultimo baluardo a difesa della metafisica, e così aprire a quella liberazione che Nietzsche sembra annunciare” (p. 130). Infine sostiene che il filosofo tedesco avrebbe identificato la volontà di potenza con l’azione interpretante e scorge l’abbozzo di un’ontologia ermeneutica che è “una teoria dell’essere che ha tra i suoi principi l’attribuire al divenire il carattere dell’essere” (p. 138).
Cacciari non accetta la lettura esistenzialista di Nietzsche che, secondo il suo parere, coglie in anticipo la crisi del rapporto tradizionale tra soggetto e oggetto e indica un convenzionalismo radicale come ineludibile sbocco di tale crisi. Per il filosofo tedesco, dietro il mondo fenomenico non c’è nulla: “Con la ‘morte di Dio’ crolla la concezione della costituzione assoluta delle cose, così come crolla il Soggetto che le considera” (p. 111). La verità diventa “un attivo determinare, non un prendere coscienza di qualcosa che sia fisso” (p. 111). Essa non è che un organizzatore del materiale sensibile in funzione del nostro bisogno: “La logica non scopre la logicità del mondo, ma definisce i modi del nostro impossessarcene “ (p. 112). La filosofia del Grund è solo il risultato del nostro bisogno metafisico di stabilità e “la ‘morte di Dio’ squarcia il fondo metafisico dell’Ab-Grund” (p. 207).
Lettura ontologica è anche quella di Severino. Per lui Nietzsche ha il merito di aver smascherato l’ethos nichilistico dell’Occidente. La filosofia ha sempre pensato l’essere come direzione, cioè come passaggio dall’essere e viceversa e di conseguenza l’ente in quanto tale è considerato un niente, e “se gli enti per essere hanno necessità di un fondamento, Dio diviene l’espressione più radicale del nichilismo: in quanto è pensato come il fondamento supremo della nioentità dell’ente” (pp. 248-249). Più oltre, “l’annuncio di Nietzsche che Dio è morto significa che il mondo si è accorto non solo di non aver bisogno di un ente immutabile trascendente, ma che tale ente renderebbe impossibile la creatività dell’uomo” (p. 249).
Quindi Nietzsche ha smascherato il nichilismo dell’Occidente ma “la ‘morte di Dio’ si può dire compiuta solo se si afferma la potenza della volontà sul passato e dunque solo se si afferma l’eterno ritorno” (p. 258). È proprio questo eterno ritorno dell’eguale che supera il nichilismo in quanto, affermando la necessità, oltrepassa il divenire.

Indice

Introduzione 
PRIMA PARTE - La morte di Dio e la Nietzsche-Renassaince italiana 
Capitolo I 
Questioni generali 
Le interpretazioni tedesche e francesi 
Nietzsche e “les terribles semplificateurs” 
Nietzsche e la cultura marxista 
Capitolo II 
L’edizione Colli-Montinari 
Capitolo III 
Gli anni ’60: tra neo-razionalismo ed esistenzialismo 
Capitolo IV 
La volontà di potenza 
Capitolo V 
La ‘morte dello Stato’ 
SECONDA PARTE - La ‘morte di Dio’ e la filosofia italiana 
Capitolo I 
Nietzsche e la filosofia italiana 
Capitolo II 
Massimo Cacciari 
Capitolo III 
Gianni Vattimo 
Capitolo IV 
Emanuele Severino
Conclusioni - Abisso e libertà


L'autore

Emilio Carlo Corriero è nato a Torino nel 1978. ha conseguito la laurea in filosofia e il dottorato in Filosofia ed ermeneutica filosofica tra Torino e Berlino. Allievo di Ravera, Vattimo e Cacciari, è socio dell’Associazione italiana di Filosofia della Religione e collabora con la cattedra di Filosofia della Religione del prof. Ravera, per la quale ha tenuto tra il 2005 e il 2006 le conferenze: Il Dioniso di Nietzsche; Dioniso tra Schelling e Nietzsche; Il dono di Zarathustra.

domenica 27 aprile 2008

Esposito, Roberto, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale.

Torino, Einaudi, 2007, pp. 184, € 17,00, ISBN 9788806187811.

Recensione di Gianmaria Merenda – 27/04/2008

Filosofia politica

L’autore, nell’introduzione al proprio lavoro concernente la categoria di persona, mette in chiaro un fatto indiscutibile, apparentemente incontestabile, sicuramente paradossale: “Se c’è un postulato indiscusso nel dibattito contemporaneo, esso riguarda il valore universalmente conferito alla categoria di persona” (p. 3). Iniziare un lavoro esplicitando che l’argomento di cui si vuole discutere è quasi off-limits non è male. Suona un po’ retorico, ma con il dipanarsi dell’opera viene in luce l’obiettivo di Esposito: sondare il campo, forse gettare l’esca, tanto per vedere che effetto può sortire in ambito accademico-filosofico. Difatti il testo sembra improntato sul versante ricognitivo più che su quello definitivo, ovvero per la definizione di una teoria risolutiva al problema. Questo però non toglie che si tratti di un’ottima base di partenza per ulteriori e successive ricerche, quasi doverose visto il “la” di Esposito. La particolare caratteristica si comprende anche dal fatto che non esiste una bibliografia finale, così come manca del tutto un indice dei nomi, utili strumenti per comprendere l’impianto di un’opera. Non crediamo che si sia trattato di una certa pigrizia compositiva ma che, anzi, sia l’indizio di un lavoro di ricerca ancora tutto in itinere e per questo non concluso con poderosi, ma spesso annichilenti, apparati paratestuali. Ne deriva un correre di qua e di la tra le pagine per cercare il nome citato, il testo e l’autore che si desidera trovare in ogni saggio, fosse solo per capire in una rapida lettura se il testo può essere compreso in un determinato filone di ricerca.

Un primissimo inquadramento del concetto di persona si ha a pagina sette: “Quella di persona appare l’unica categoria capace di unificare uomo e cittadino, anima e corpo, diritto e vita”. Constatazione repentina per essere messa in introduzione. Infatti poco sotto l’autore si chiede se in qualche modo possa bastare ciò per giustificare il massacro continuo, lo stillicidio silenzioso, che, nonostante la dichiarazione dei diritti dell’uomo, la persona per eccellenza, quotidianamente si attua nel mondo e nella storia ai danni dell’uomo stesso. “Se con questo termine si voleva alludere all’ingresso dell’intera vita umana nel cerchio protettivo del diritto, si è costretti ad ammettere che oggi nessun diritto è meno garantito di quello della vita” (p.7). Perentorio e lapidario. Esposito da queste parole raggelanti per la loro inerte verità inizia una breve storia delle motivazioni che hanno portato alla disfatta del diritto sul fronte della difesa della vita umana. Qui si presenta la tesi che caparbiamente si porterà avanti per l’intero sviluppo del testo, ovvero che proprio il concetto di persona ha introdotto una frattura insanabile tra diritto e vita. Proprio nel momento in cui i popoli del mondo hanno cercato di interrompere gli spargimenti di sangue stabilendo con la dichiarazione dei diritti dell’uomo un invalicabile limite, questa dichiarazione divenne la base edificante dei successivi massacri. Causa di tutto ciò pare essere l’introduzione di paradigmi biologici all’interno del lessico di filosofia e politica. Dal XIX secolo in poi le nozioni della “teoria organicistica del linguaggio” di Schleicher, gli sviluppi della fisiologia apportati dal fisiologo Bichat, tesi poi approfondite e tradotte in filosofia da Schopenhauer, e da Comte in ambito sociologico, porteranno alla moderna branca della filosofia politica che prende il nome di “biopolitica” (p. 9). Questo il cancro che una volta incistato nelle altre scienze si svilupperà fino alla fioritura della morte in serie della macchina di sterminio totalitaria. “Ciò è l’esito di uno spostamento paradigmatico che va anche al di là della semplice contaminazione lessicale tra discipline differenti. Quello che in esso si registra è una sorta di effetto retroattivo, o di rimbalzo prospettico, in base al quale l’influsso della biologia sulla politica viene caricato di significato politico aggressivo ed escludente” (p. 10). Il concetto di persona è dunque associato all’uomo in quanto essere animale con delle peculiari caratteristiche che lo distinguono dagli altri animali. Un quid in più che solo l’essere umano possiede rispetto agli altri animali: la capacità di astrazione. Il problema nasce però da quel resto di animalità che insiste in ogni essere umano. Su quel resto andranno ad infrangersi i sogni di giustizia di ogni diritto positivo. Le sfumature infinite che si possono dare all’ineludibile caratteristica dell’uomo, saranno di fatto la continua apertura del diritto verso una tanatologia incurante del diritto stesso, un’antroposociologia virata verso una zoologia comparata, per utilizzare le parole di Esposito. Il “dispositivo” persona opera una spaccatura nell’ambito del riconoscimento dell’esser umano: da una parte una categoria astratta di persona, gestibile in vari modi, verrebbe da dire spinoziani, dall’altra parte “un uomo come essere naturale cui può convenire o meno uno statuto personale” (p. 13). Da qui tutto il delirio razzista ed eugenetico.

A questo punto dell’introduzione Esposito mette in gioco un concetto pesante nel tentativo di svincolarsi dal pericoloso postulato di persona che ha appena illustrato: l’impersonale. La terza persona come unica via d’uscita alla dicotomia uomo/persona. “L’impersonale – si potrebbe dire – è quel confine mobile, quel margine critico, che separa la semantica della persona dal suo naturale effetto di separazione. Che blocca il suo esito reificante. Non è la sua negazione frontale […] ma la sua alterazione, o estroflessione, in un’esteriorità che ne revoca in causa e rovescia il significato prevalente” (p. 19).

Il lavoro di Esposito, in un certo senso, potrebbe considerarsi concluso in questa introduzione, per i motivi, di ricognizione, che si elencavano poco sopra. Invece con Deleuze e Kojève, con i loro apparati di differenziazione, dell’evento e del divenire animale, Esposito rilancia la definitiva sfida teoretica, foriera, c’è da sperarlo, di ulteriori sviluppi: “La figura estrema, quasi postuma, del ‘divenire animale’ – che sembra anticipare nel presente l’immagine preumana, o postumana, proiettata da Kojève alla fine della storia – apre il pensiero dell’impersonale a una prospettiva ancora ignota nel suo significato d’insieme. Ciò che in essa si profila, ormai fuori dalla sagoma fatale della persona, e dunque anche dalla cosa, non è solo la liberazione dell’interdetto fondamentale del nostro tempo. È anche il rimando a quella riunificazione tra forma e forza, modo e sostanza, bíos e zoé, sempre promessa, ma mai davvero sperimentata” (p. 24).

Il primo capitolo intitolato “La doppia vita (la macchina delle scienze umane)” è un largo scorcio della pesante eredità che le così dette scienze umane si portano appresso dopo aver incamerato al loro interno i paradigmi della fisiologia. Il pesante fardello che ha generato in successione le teorie razziste, le persecuzioni e l’eliminazione di una parte del genere umano, sta nel aver diviso e valorizzato la vita umana in due grandi contenitori pronti per essere sfruttati dalle grandi ideologie del XX secolo: l’uomo e la persona. L’essere umano come oggetto che sorregge la persona umana, ammette la possibilità tassonomica di dividere il genere umano in differenti categorie animali, non umane, e per questo non in grado di assicurarsi una personalità definita e difendibile.

Il secondo capitolo, “Persona, uomo, cosa”, è la disamina dell’applicazione in ambito politico delle categorie razziali esposte nel primo capitolo. Particolare rilevanza è data alla differenza della dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789 e quella del 1948. “Il lemma concettuale volto a riempire la frattura aperta, fin dalla Dichiarazione del 1789, tra le due polarità dell’uomo e del cittadino è quello di ‘persona’. Se si confronta a quel testo la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 la differenza salta all’occhio: il nuovo epicentro semantico, rispetto all’enfasi rivoluzionaria sulla cittadinanza, è costituito dalla rivendicazione incondizionata della dignità e del valore della persona umana” (p. 87). Qui il termine persona è da riferirsi, come efficacemente indicato dall’autore, alla possibile e ambivalente lettura nel senso laico e illuminista, da una parte, e teologico dall’altra. La fortuna del termine, se si può parlare di fortuna, sta tutta nella plurisecolare erranza che va dai testi sacri fino all’alveo della politica secolarizzata di Hobbes.

Il terzo capitolo, “Terza persona”, è quello più organizzato dal punto di vista compositivo. Sono sette i paragrafi che lo compongono. Sette passi che come in un cammino mistico ci portano in un intenso crescendo dalla Non-persona di Benveniste all’Evento deleuziano, per poi tacere su ciò di cui non si può ancora parlare. Quindi uno studio che dal pronome “io” ci porta verso l’indeterminato “egli”, passando da Kafka, per l’“indeterminato” di Blanchot, verso un fuori della persona che annuncia le teorie di Foucault sugli enunciati, (espressa ne L’archeologia del sapere , Milano, 1980), dove l’enunciato, il si dice, è una pura molteplicità, per approdare all’Evento di Deleuze. “Se la filosofia contemporanea si è mai esposta alla potenza dell’impersonale, questo incontro è certamente avvenuto nell’opera di Gilles Deleuze. […] Alla sua base non vi è, come negli autori precedenti, semplicemente la sostituzione di una persona all’altra, o anche una triangolazione che apra il dialogo a due alla presenza diagonale di un terzo, ma una rotazione dell’intero orizzonte filosofico in direzione di una teoria dell’evento preindividuale e impersonale” (p. 173). E ancora: “Ciò non vuol dire, per Deleuze, che il soggetto scompaia del tutto – che divenga un contenitore inerte o uno spettatore passivo dell’evento che si scarica su di lui. Al contrario, la formula più volte ripetuta, che invita ciascuno ad essere degno di ciò che gli accade, rimanda a una concezione più complessa, secondo la quale l’individuo da un lato si identifica con l’evento impersonale, ma dall’altro è in grado di tenergli testa arrivando a rivolgerlo contro se stsso – o, come Deleuze si esprime, a ‘controeffettuarlo’” (p. 174).

Esposito sembra tentare una fuga veloce dal quel fatale termine che è “persona”: “La persona vivente – non separata dalla, o impiantata nella, vita, ma coincidente con essa come sinolo inscindibile di forma e di forza, di esterno e d’interno, di bíos e zoé. A questo unicum, a questo essere singolare e plurale, rimanda la figura, ancora insondata, della terza persona – alla non-persona inscritta nella persona, alla persona aperta a ciò che non è mai ancora stata” (p. 184).

Indice

Introduzione

La doppia vita (la macchina delle scienze umane)
Persona, uomo, cosa
Terza persona


L'autore

Roberto Esposito insegna filosofia teoretica presso l’Istituto Italiano di Scienze Umane di Napoli. Tra i suoi libri si segnalano: Communitas. Origine e destino della comunità (Einaudi, Torino, 2006); Immunitas. Protezione e negazione della vita (Einaudi, Torino, 2002); Bíos. Biopolitica e filosofia (Einaudi, Torino, 2004).

domenica 20 aprile 2008

Formigari, Lia, Introduzione alla filosofia delle lingue.

Roma-Bari, Laterza, 2007, pp. 132, € 16,00, ISBN 9788842082149.

Recensione di Claudio Faschilli – 20/04/2008

Filosofia del linguaggio

Il titolo scelto da Lia Formigari per questo suo ultimo libro non è un titolo ingenuo. Non è ingenua la decisione di evitare l’ormai classica denominazione “filosofia del linguaggio”, per sostituirla invece con la più inusuale “filosofia delle lingue”. Così facendo, infatti, l’Autrice caratterizza da subito il percorso che svilupperà all’interno del testo, rendendo ben chiara la sua intenzione di concentrarsi non tanto sulla presentazione di sistemi formali, o di questioni ontologiche inerenti alla sfera del linguaggio umano, quanto invece sui «dispositivi che si realizzano in quelle formazioni storico-empiriche che sono le lingue naturali.»

La sua idea quindi è quella di indagare non gli elementi astratti che riguardano il “linguaggio” (inteso come facoltà umana assunta indipendentemente dal suo portatore), bensì tutti gli aspetti concreti, che contribuiscono alla nascita, allo sviluppo e all’impiego delle “lingue” (concetto, questo, che vuole invece sottolineare la centralità del carattere storico ed empirico che lo contraddistingue).

Una tale attenzione al livello della concretezza – in opposizione al sempre più frequente bisogno di astrazione – diventa perciò la “cartina di tornasole” alla quale l’Autrice si rifà costantemente nel corso del testo, allo scopo di vagliare la validità o meno delle numerose teorie sul linguaggio, che vengono presentate e poste a confronto. Il principale pregio di questo libro è, infatti, quello di riuscire a far convivere, in un unico luogo, temi complessi e opposti gli uni agli altri, senza però mai rinunciare ad uno sguardo comprensivo, in grado di fornire una prospettiva ricca ed ampia sull’attuale panorama di ricerca della filosofia delle lingue.

Detto ciò, cerchiamo di fornire una sommaria presentazione degli argomenti trattati nel libro.

Il primo capitolo è dedicato alla delineazione dei confini del lavoro, in quanto propone alcune precisazioni e definizioni basilari, utili per la comprensione di quanto seguirà. Definizione centrale è, ad esempio, quella del concetto di “parola” – oggetto della ricerca sul linguaggio – che viene presentato come strumento d’interazione tra gli esseri umani, sviluppatosi nel corso della filogenesi, ossia come «insieme di procedure e strategie con le quali il soggetto impara a interagire col mondo e con gli altri soggetti nel mondo» (p. 4). In questo senso, la parola – e, per esteso, la lingua – è un dispositivo utile a vari scopi: dal “semplice” favorire i processi di conoscenza e memorizzazione, al più complesso compito di risolvere problemi, o di pianificare le nostre azioni, fino anche alla possibilità di fare nostri i pensieri altrui e di “distribuire” spazialmente il pensiero, servendoci dei sempre più cangianti metodi di riproduzione e fissazione dei testi scritti.

Una nozione del linguaggio, questa, essenzialmente strumentale, che però non disconosce l’idea prettamente contemporanea di un condizionamento biologico per tale facoltà – ossia, l’idea che vi sia una componente del linguaggio biologicamente determinata, comune a noi tutti, in quanto specifica della natura umana – senza che questo, tuttavia, ci conduca all’estremo opposto di un razionalismo puro. Come, infatti, abbiamo già avuto modo di notare, l’Autrice propende per una visione non astratta del linguaggio umano, bensì per una “più situata”, ossia inserita nel contesto concreto dei comportamenti non verbali, all’interno del quale la lingua effettivamente prende corpo: «Le lingue sono artefatti storici, e come tali sono determinate certo dal modo in cui è fatto il cervello umano, ma anche dalle condizioni empiriche della loro formazione, e dalla varietà delle tecniche materiali cui si ricorre per realizzare al meglio quelle condizioni» (p. 19).

Il secondo capitolo invece sposta l’attenzione su un interessante ed ancora attuale dibattito, relativo all’origine del linguaggio umano. Il capitolo si divide in due sottoargomenti principali: nella prima parte si discute della genesi del linguaggio, assunta da un punto di vista filogenetico – ossia considerandola all’interno dello sviluppo della specie umana – mentre nella seconda parte ci si occupa del punto di vista ontogenetico – quello concernente lo sviluppo del singolo individuo. Per quanto riguarda il primo ambito, l’Autrice presenta e sviluppa le idee di due modelli alternativi di spiegazione: da un lato, il modello della continuità – secondo il quale il linguaggio umano si sarebbe sviluppato gradualmente, a partire da semplici suoni, emessi dai nostri primitivi avi per indicare oggetti, o per segnalare pericoli, passando poi ad una ritualizzazione di questi suoni, che li avrebbe emancipati a strumenti sociali, sino a giungere infine a vere e proprie voci articolate, dotate di significati condivisi dall’intera comunità – dall’altro lato invece il modello della cesura – che nega una tale continuità e afferma invece che la facoltà del linguaggio è un sistema computazionale innato, non descrivibile come un aggregato di parti sviluppatesi durante l’evoluzione, ma emerso tutto d’un pezzo, a causa di una certa mutazione nell’organizzazione cerebrale della specie.

A questo dibattito, l’Autrice aggiunge, come detto, anche quello sull’ontogenesi del linguaggio, opponendo anche in questo caso la visione innatista, chomskyana, a quella più comprensiva, neo-costruttivista, che cerca invece di tenere conto delle numerose influenze dei sistemi cognitivi non linguistici, nel processo di formazione della lingua nell’individuo.

Al terzo capitolo invece è riservato il compito di affrontare l’aspetto semantico della lingua. In questo capitolo si toccano temi molto ampi e complessi, cercando sempre però di seguire il filo che li tiene connessi l’uno all’altro. Innanzitutto l’Autrice scarta l’ipotesi che la lingua possa essere considerata una semplice forma di nomenclatura e passa piuttosto ad esporre la tesi secondo cui all’uso delle parole sarebbero connessi dei processi di categorizzazione, ossia di «identificazione e reidentificazione di oggetti ed eventi in classi consapute dai parlanti d’una stessa lingua.» (p. 68) Come poi effettivamente il nostro sistema cognitivo crei queste classi concettuali di oggetti è materia di discussione. Due sembrano essere le risposte possibili – anche se una conciliazione tra entrambe pare essere la soluzione migliore –: da un lato la teoria classica, secondo la quale una classe di oggetti è costituita per astrazione ed è definita in base a proprietà comuni agli oggetti della classe; dall’altro lato invece si ha la teoria dei prototipi, che nega l’esistenza di classi concettuali dai confini ben definiti e propende per categorie sfumate, costruite per somiglianza, attorno ad un oggetto che funge da prototipo.

Altro tema trattato in questo capitolo, dopo la tesi dei processi di categorizzazione come fondamento della semantica delle lingue naturali, è quello della schematizzazione – concetto inteso nel senso kantiano del termine – ossia del livello intermedio che dovrebbe sussistere fra il momento della percezione e quello della concettualizzazione. Infine, l’Autrice passa a considerare il legame possibile tra categorie del pensiero e categorie grammaticali, discutendo la possibilità di ricavarne delle funzioni linguistiche universali.

Nel quarto capitolo, infine, il linguaggio viene affrontato dal punto di vista della pragmatica, ossia della sua funzione comunicativa, portando a compimento l’intenzione iniziale di considerare gli aspetti più concreti del funzionamento delle lingue. L’Autrice mostra quindi come la lingua possa assumere un valore performativo, o come si possa trasformare in atto di comunicazione tra parlanti e come, a questo processo, non contribuiscano soltanto le parole nella loro funzione semantica, ma anche gli aspetti contestuali e le intenzioni di chi parla.

Questa è la dimensione nella quale le varie teorie – sintattiche, semantiche, etc. – sul linguaggio possono trovare il definitivo campo sul quale scontrarsi e determinare la propria validità.

Per concludere possiamo dire che, nonostante la contenuta mole, questo libro riesce ad offrire una panoramica delle varie teorie sulle lingue naturali molto ricca e di facile comprensione, assumendo il duplice valore sia d’introduzione per l’inesperto di filosofia del linguaggio, sia di presentazione di numerosi spunti di riflessione per chi già padroneggia la disciplina.

Indice

Avvertenza 
I. L’intelligenza linguistica del mondo 
II. L’origine della parola 
III. Modelli di categorizzazione 
IV. Comunicare e comprendere 
V. A mo’ di conclusione 
Per saperne di più 
Riferimenti bibliografici 
Indice dei nomi 
Indice degli argomenti


L'autrice

Lia Formigari ha insegnato Filosofia del linguaggio all’Università di Roma La Sapienza. È autrice di numerose opere, tradotte anche all’estero, tra cui L’esperienza e il segno (Roma, 1990) e Il linguaggio. Storia delle teorie (Roma-Bari, 2005).

giovedì 17 aprile 2008

Bresciani Califano, Mimma (a cura di), Paradossi e disarmonie nelle scienze e nelle arti.

Firenze, Leo S. Olschki, 2008, pp. 203, € 22,00, ISBN 9788822257505.

Recensione di Maurizio Der Suchende – 17/04/2008

Estetica, Filosofia della scienza, Logica

La pervicace e sclerotizzante tendenza a mantenere in compartimenti stagni i percorsi di sviluppo e le conoscenze acquisite nelle varie discipline scientifiche e artistiche è altrettanto caparbiamente contrastata da un sempre più folto gruppo di ricercatori e artisti, italiani e non. Negli ultimi vent’anni, anche in Italia finalmente, ci sono luoghi e pratiche di rigoroso e coinvolgente incontro fra saperi - certamente diversi per alcuni aspetti salienti ma ricchi di elementi e contenuti comuni, se non altro perché gli oggetti di conoscenza e di espressione sono identici (noi stessi, il mondo antropico e naturale in cui siamo immersi). Uno di questi luoghi è il “Centro Fiorentino di Storia e Filosofia della Scienza” (diretto da Alessandro Pagnini, che coordina un Comitato organizzatore che annovera fra i suoi componenti Paolo Rossi e Maria Luisa Dalla Chiara), il quale organizza a cadenza quasi sempre annuale un ciclo di conferenze su “Sapere & Narrare”: ciò che ci accingiamo ad esporre è una breve introduzione agli Atti del settimo ciclo di conferenze, ciclo dal titolo Paradossi e disarmonie nelle scienze e nelle arti. Come nel caso degli Atti dei precedenti cicli, anche questi sono stati curati con eleganza e rigore da Mimma Bresciani Califano per i tipi della Olschki editore (tranne per il primo ciclo, i cui Atti sono stati pubblicati dalla Casa editrice Le Lettere, Firenze).
Gli scienziati e gli artisti sono di continuo chiamati a riformulazioni di saperi e pratiche ben salde e condivise dalla comunità a cui appartengono, ma anche a intraprendere nuovi percorsi di ricerca (anche nel senso di intersezioni con questioni pratiche ed interdisciplinari), in quanto sollecitati sia dai problemi e dai quesiti rimasti ancora insoluti, sia dalle aporie e dai paradossi presenti nella loro disciplina di riferimento. Difatti, una delle chiavi di volta che sollecitano l’artista e lo scienziato a concepire pratiche e ipotesi di lavoro in parte o del tutto innovative è proprio la sconcertante presenza di paradossi laddove non ci saremmo mai aspettati che si sarebbero manifestati. Prendiamo la logica per esempio: chi conosce - anche solo per grandi linee - lo sviluppo (storico e concettuale) plurisecolare di questa disciplina, sa che buona parte dei risultati ottenuti è emersa proprio nel costante tentativo di risolvere un ormai ben noto paradosso, quello del mentitore. Accanto a questo, Sergio Bernini pone un altro paradosso logico: il paradosso di Russell. La trattazione introduttiva di questi due paradossi logici è svolta in modo chiaro e rigoroso, per cui la lettura risulta agevole anche per i profani di logica.
Ma i paradossi non sono solo logici: pare che ci siano anche paradossi reali. Ormai, il detentore di una media cultura scientifica dovrebbe sapere che un’altra disciplina scientifica ha inaugurato nell’ultimo secolo appena trascorso la ricerca di tutto un mondo paradossale: la fisica (in particolare, quella delle nanoparticelle). Ed appunto Maria Luisa Dalla Chiara, Roberto Giuntini e Giuliano Toraldo di Francia, si incaricano di accompagnarci nella descrizione dell’intrigante paradosso EPR (così chiamato per evocare i tre fisici che lo presentarono nel lontano 1935 sulla Physical Review: Einstein, Podolsky e Rosen), il quale fornisce succulenti motivi di indagine non solo ai fisici, ma anche ai filosofi, agli psicologi e ai neuroscienziati. Ma non c’è solo questo: troviamo anche una riformulazione dell’esperimento delle due fenditure (tratta da un libro di Gilmore, Alice nel paese dei quanti) e riferimenti alla computazione quantistica, all’entanglement e alla semantica olistica. È una lettura un po’ più impegnativa, non per una presunta insufficienza da parte dei redattori, ma per l’effettiva condizione controintuitiva (rispetto al senso comune, ma anche rispetto alla fisica classica) cui ci conduce la fisica quantistica.
Una relazione molto estesa è svolta da Salvatore Califano su Simmetrie e asimmetrie nel mondo fisico. È uno dei capitoli più affascinanti del testo, perché l’autore dilata il suo sguardo dall’architettura alla geometria, dalla filosofia alla matematica, dalla chimica e biologia alla fisica delle nanoparticelle. Insomma, è un diletto di (a)simmetrie nei punti più disparati del mondo fisico (compresi noi stessi).
Altro ambito scientifico in cui troviamo paradossi pervicaci e spiazzanti è quello della scienza dell’economia. Nello scritto di Piero Tani sono presentati il paradosso (o dilemma) dei prigionieri, sia nella sua presentazione originaria, sia nella sua formulazione generale; il paradosso di Olson (che dovrebbe una volte e per tutte persuaderci della fallacia dei ragionamenti tesi a sostenere l’inutilità sia del recarsi a votare che del pagare le tasse); il paradosso di San Pietroburgo, il paradosso di Allais, il paradosso di Ellsberg, tutti concernenti la teoria delle scelte in condizioni di incertezza e tutti altrettanto dirimenti circa l’(in?)opportunità di continuare a insegnare la teoria dell’utilità attesa e, più in generale, l’analisi neoclassica nei dipartimenti di economia. Inoltre, sono trattati il famoso paradosso di Condorcet e il teorema di impossibilità di Arrow.
La curatrice degli Atti, Mimma Bresciani, da parte sua ci invita a tener ben presente la ricerca artistica e, più in generale, sapienziale di Raymond Queneau, il quale - più che dal successo di una tesi sostenuta - era attratto dalla possibilità di rinvenire una logica e una coerenza nella costruzione artistica e/o filosofica più paradossale. Vi è poi un saggio che avanza una tesi poco conosciuta sia fra i critici letterari sia fra i filosofi: Carlo Emilio Gadda avrebbe redatto nel lontano 1928 uno scritto di indiscusso valore teoretico, la Meditazione Milanese. È, a sua volta, paradossale il misconoscimento, oppure la formulazione di tale tesi? A noi non tocca entrare nel merito, ma lo scritto di Manlio Iofrida è sicuramente degno di una lettura attenta e appassionata.
Altrettanto appassionante potrebbe rivelarsi la panoramica che Roberto Casati fa delle teorie dell’arte, dopo aver disegnato lo spazio logico di esse. Sappiamo che i rischi maggiori che una qualsivoglia teoria dell’arte corre sono da un lato l’irrilevanza (l’eccessiva generalità rende evanescente il contenuto specifico dell’arte), dall’altro la non generalizzabilità (l’eccessiva specificità restringe il campo di applicabilità rispetto ad un universo artistico ben più poliedrico e cangiante). Casati non si esime dal formulare una propria proposta “corposa” circa la natura dei fenomeni e degli artefatti artistici: la teoria metacognitiva dello spunto per la conversazione (= conversazionale).
Alessandro Pagnini esplora i percorsi della filosofia occidentale rispetto al comico. Dalla tradizione platonico-aristotelica, passando per un riferimento al rapporto tra la Chiesa (patristica e scolastica) e il comico, fino a Hobbes (teorie della “superiorità”), Kant, Schopenhauer, Kierkegaard (teorie basate sulla “incongruenza”), Spencer, Nietzsche, Freud, Bergson (teorie “funzionalistiche”), Pagnini suggerisce una stretta correlazione fra il ridere umoristico e aspetti salienti della natura umana.
Gli Atti si chiudono con una relazione di Arnaldo Ballerini su I paradossi della identità personale e con una breve disamina di Elena Esposito su I paradossi della moda. La prima ribadisce la messa a fuoco delle problematiche più complesse e contraddittorie riguardanti l’identità personale, con un più attento sguardo alla paranoia, alla schizofrenia e all’identità delirante, paragonate agli esempi paradossali noti in uno specifico indirizzo filosofico (e letteratura fantascientifica) come puzzling cases. La seconda ci accompagna in un territorio già (forse) di per sé paradossale, la moda, ma che proprio per questo potrebbe rivelarsi un’utile palestra di esercitazioni speculative paradossali.
Il volume potrebbe rivelarsi un utile introduzione per chi voglia intraprendere (oppure, sia appena agli inizi di) un (paradossale?) percorso di ricerca interdisciplinare concernente i paradossi e le disarmonie. La lettura di questi Atti potrebbe rendere qualcuno finalmente consapevole della preziosa funzione delle disarmonie, delle voci fuori dal coro, rispetto alla incessante e appassionante ricerca del vero e del bello.
A noi, lascia ancor più salda la convinzione che, per chi è colmo della curiosità fanciullesca di peregrinare fra i sentieri della scoperta e dell’invenzione, basta un niente per alimentare tale curiosità: figuriamoci poi quando questa è stuzzicata da pervasivi e spiazzanti paradossi logici, reali o immaginari che siano.

Indice

Mimma Bresciani Califano, Introduzione 
Sergio Bernini, Paradossi logici 
M. L. Dalla Chiara - R. Giuntini - G. Toraldo di Francia, Paradossi e enigmi nel mondo dei quanti 
Salvatore Califano, Simmetrie e asimmetrie nel mondo fisico 
Piero Tani, Alcuni paradossi nella teoria delle decisioni 
Mimma Bresciani, Raymond Queneau e il gusto del paradosso 
Manlio Iofrida, Le disarmonie di Gadda: una lettura della Meditazione Milanese 
Roberto Casati. Che cosa spiega una teoria dell’arte? 
Alessandro Pagnini, Il filosofo e il comico 
Arnaldo Ballerini, I paradossi della identità personale 
Elena Esposito, I paradossi della moda


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Centro Fiorentino di Storia e Filosofia della Scienza” - 

Il più antico programma di sistema dell’idealismo tedesco, a cura di Leonardo Amoroso.

Pisa, Ets, 2007, pp. 65, € 10,00, ISBN 9788846718860.

Recensione di Micaela Latini – 17/04/2008

Estetica, Etica

Se in ambito germanico su Il più antico programma di sistema dell’idealismo tedesco sono stati versati fiumi d’inchiostro, all’interno della comunità scientifica italiana - ad eccezione di alcuni notevoli interventi inseriti in monografie di più ampio respiro - il testo non aveva finora ricevuto la considerazione che gli spetta. A Leonardo Amoroso va il merito di aver tradotto, introdotto e curato con il rigore filologico e con l’acume teoretico che caratterizza i suoi studi l’importante e controverso Feuilleton. Al fine di contestualizzare il foglio che ha fatto epoca, è necessario ripercorrerne il problematico e affascinante iter gestazionale. La ricostruzione delle vicende del frammento scandisce le pagine della “Introduzione” di Amoroso relative al testo della Frühromantik. Il manoscritto, assegnato dalla quasi unanimità degli studiosi al 1796, venne acquistato all’asta dalla Biblioteca di Berlino, per poi essere ritrovato e pubblicato da Franz Rosenzweig nel 1917, a causa della guerra con un ritardo di tre anni rispetto alle iniziali previsioni di uscita. Come è noto, la storia del frammento, battezzato da Rosenzweig con il titolo Il più antico programma di sistema dell’idealismo tedesco, costituisce un vero e proprio “giallo” filosofico, e questo già a partire dalla natura del testo, del quale non si conosce il Wozu? Le opinioni sono diverse: potrebbe trattarsi di un progetto di ricerca, o anche di un’introduzione, ma la proposta più fondata è che sia una lettera circolare o un abbozzo per una relazione da leggere in un circolo di intellettuali. Anche sull’inquadramento disciplinare del testo ci si è a lungo interrogati. Se in prima battuta, e sulla scorta delle parole dell’incipit (eine Ethik), il frammento è stato catalogato troppo frettolosamente come trattato di etica, si è poi affermata la tesi di Manfred Frank, che ha riconosciuto in queste righe l’atto di nascita dell’idealismo tedesco nella sua versione estetico-romantica.

Il vero mistero riguarda la paternità del testo. Il corrispettivo dell’esame del DNA dovrebbe corrispondere in questo caso alla perizia calligrafica. E tale analisi non lascia dubbi circa la mano che ha redatto il programma; il testo esce dalla penna di Hegel. Ma quest’innegabile certezza non ha messo a tacere la querelle circa l’autenticità del vero autore. E infatti, nonostante i tratti hegeliani sbiaditi (come ebbe a dire lo stesso Rosenzweig), questo “foglio ingiallito” rivela a uno sguardo attento anche tracce evidenti del pensiero di Schelling. È sulla base di questa convinzione che Rosenzweig definisce il frammento lo schellingianum, riconoscendo a Hegel la mera trascrizione. Di tutt’altra opinione è Böhm, che, facendo leva sullo stile poetico del frammento, saluta in Hölderlin il vero autore de Il più antico programma di sistema. Ancora tra le file dei sostenitori di Hegel, spicca il nome di Pöggeler, che, al fine di conciliare la presupposta e per lui innegabile origine hegeliana con l’evidente tonalità hölderliniana, sposta la datazione dell’opera all’anno 1797. In risposta alle sue argomentazioni, Tilliette rivendica la paternità di Schelling, documentando l’assonanza del testo con le altre opere che ne portano la firma.

In questo ginepraio di interpretazioni, si apre un’altra via: l’ipotesi più conciliatrice, che considera il testo come un’opera scritta a più mani, dai tre giovani filosofi colleghi allo Stift di Tübingen, o secondo una ulteriore variante, dai tre amici uniti in collaborazione con un “quarto uomo”.

Il “giallo” de Il più antico programma di sistema s’infittisce ulteriormente nel corso degli anni Settanta, quando il manoscritto, in seguito agli eventi drammatici che hanno segnato il Novecento, sparisce dalla circolazione; ne resta una fotografia di proprietà di Martin Buber. Solo alla fine degli anni Settanta l’enigmatico frammento, che seguendo varie vicissitudini era finito in mano alle autorità della Polonia comunista, torna al vaglio degli studiosi. Da allora ad oggi ben poca luce è stata fatta sulla sua provenienza. E a tutt’oggi il mistero è ancora fitto, come testimoniano i punti interrogativi collocati al seguito di nomi dei presunti autori, nell’edizione ETS curata da Amoroso: “Hegel (?); Hölderlin (?), Schelling (?)”. Chiunque sia il padre di questo importantissimo e densissimo programma, le riflessioni ivi contenute presuppongono e testimoniano – come Leonardo Amoroso giustamente rileva nell’importante commento che segue al e il testo - l’intenso colloquio tra i tre giovani filosofi. Oltre a ricostruire i termini del dialogo dei tempi di Tubinga, lo studio analitico di Amoroso ripercorre passo dopo passo e da diverse angolazioni prospettiche i punti nevralgici del frammento, evidenziandone i fili sotterranei che lo collegano alle fonti taciute. Il testo viene così analizzato in tutta la sua portata teoretica, e considerato come strumento di accesso alla estetica e alla filosofia tedesca di fine Settecento. Il fulcro teoretico del Feuilleton è – come noto – il legame tra etica-estetica e religione, ma non mancano riferimenti polemici alla fisica di Newton, così come, sul versante politico, alla dimensione statuale. Sulla scia di Schiller, anche l’autore/gli autori del Più antico programma proclamano la necessaria estinzione dello Stato, in quanto elemento estrinseco ed ostile all’ideale di uomo libero: “Assoluta libertà di tutti gli spiriti che portano in sé il mondo intellettuale e non devono cercare né Dio né l’immortalità fuori di sé” (p. 23). Che poi l’estetica sia al centro di questo manifesto, lo testimoniano i passi successivi, volti a elevare la bellezza a idea unificatrice di tutte le altre. In questa cornice estetologica si colloca il motivo della “mitologia della ragione”, che muove in direzione della fantasia dell’uomo e che fornisce mette in connessione individuo e comunità. Come noto, il tema della mitologia della ragione è l’ordine del giorno nei dibattiti filosofici e poetici di fine settecento, inizio ottocento, ed è frequentato da autori molto vicini a Hegel-Hölderlin-Schelling, come ad esempio Herder, Schlegel. Indubbia è la loro presenza in questo studio.

Le diverse voci che circolano all’interno di questo scritto sono così intrecciate, da risultare difficilmente distinguibili l’una dall’altra. E tuttavia, tra gli spettri che si aggirano all’interno del sistema, si riconosce spiccatamente la sagoma di Kant, e soprattutto del Kant dei postulati pratici presenti sia nella Critica della ragion pura, sia nella Critica della ragion pratica. Ancora sollecitazioni kantiane, questa volta mutuate dalla terza Critica, emergono dal riferimento al possibile fine ultimo della teleologia della natura. Seguendo il percorso estetologico, s’incontra la filosofia di Platone, mentre le istanze più schellingiane del frammento – quali ad esempio l’idea della natura come polarità di opposti - chiamano in causa il pensiero di Spinoza e di Goethe.

Un altro importante percorso da evidenziare nel programma è quello politico, un sentiero che incrocia la via dell’estetico. Il manoscritto deve essere interpretato come Feuilleton di un’utopia anarchica, come istanza di una comunità ideale che comprenda tutti gli uomini. Per la connessione tra estetico e politico, l’indirizzo filosofico più prossimo alle coordinate offerte dal frammento, è quello di Schiller. Come sottolinea Amoroso, le riflessioni contenute nel frammento sono infatti debitrici non alle teorie kantiane, ma anche alle tesi filogreche contenute nelle Lettere estetiche sulla educazione della umanità. Probabilmente è stato Hölderlin a veicolare il pensiero estetologico schilleriano all’interno del programma sistematico. Su questo stesso versante estetico-politico il percorso seguito dal frammento incontra tanto il cammino di Friedrich Schlegel, quanto quello di Herder. Alla loro attenzione nei confronti della mitologia rimanda infatti uno dei fulcri del frammento: l’idea di una Neue Mythologie, ovvero l’idea di quella “mitologia della ragione” che ha segnato un’epoca fondamentale della cultura tedesca. Uno dei capisaldi della novecentesca Mythos-Debatte trae ispirazione proprio da un passo significativo del frammento: “Monoteismo della ragione e del cuore, politeismo dell’immaginazione e dell’arte: ecco ciò di cui abbiamo bisogno” (p. 25).

Che Der älteste Systemprogramm abbia aperto scenari teoretici nuovi e interessanti, lo dimostra poi la riflessione portata avanti in ambito tedesco da alcuni tra i più importanti pensatori e germanisti del Novecento: da T. W. Adorno ed Ernst Bloch, fino a Hans Blumenberg, Odo Marquard, Manfred Frank, Hans Freier, Reinhart Koselleck, Jürgen Habermas. Questi, ed altri, hanno ereditato la lezione “hegeliana (?)-schellingiana (‘)-hölderliniana(?)”, da un lato rivelando la ricchezza e la cogente attualità della riflessione protoromantica sul mito, dall’altro aprendola a ulteriori e fecondi sviluppi.

Indice

Introduzione
Il più antico programma di sistema dell’idealismo tedesco,
Commento


L'autore

Leonardo Amoroso, nato a Livorno nel 1952, si è formato all'Università di Pisa e alla Scuola Normale Superiore, dove è poi stato ricercatore. Nel 1995 ha vinto un concorso di professore ordinario di Estetica ed è stato chiamato all'Università di Padova. Nel 2001 si è trasferito all'Università di Pisa. Tra le sue opere, ricordiamo: Senso e consenso. Uno studio kantiano, 1984; Traduzione e curatela di I. Kant, Logica, 1984; L'estetica come problema, 1988; Traduzione e curatela di M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, 1988; Maschere kierkegaardiane (ed.), 1990; Lichtung. Leggere Heidegger, 1993; Traduzione e curatela di I. Kant, Critica della capacità di giudizio, 1996 (II ed.: 1998); Nastri vichiani, 1997; Lettura della “Scienza nuova” di Vico, 1998; Ratio & aesthetica. La nascita dell'estetica e la filosofia moderna, 2000; Traduzione e curatela di E. Benamozegh, Israele e Umanità / Il mio Credo, 2002; Scintille ebraiche. Spinoza, Vico e Benamozegh, 2004; Erläuternde Einführung in Vicos “Neue Wissenschaft”, 2006; Curatela di A. Russi, Estetica della memoria, 2007.

martedì 15 aprile 2008

Garofalo, Antonella, Immagini del silenzio. Sguardi su santità e follia, presentazione di Remo Bodei,

Pisa, Edizioni ETS,  2008, pp. 117, euro 30,00, ISBN 978-884671782-5.

Recensione di Francesca Rigotti,  15-04-2008

silenzio, follia, fenomenologia, arte, psicoterapia

Silenzio e follia sono cugini. Nonostante occupino ambiti diversi, essi sono vicini nella capacità di indicare che qualcosa si è perso. Se il cuore dell'incontro filosofico, da Socrate e Platone, è il dialogo, il silenzio può esserne alterazione e minaccia. Anche la follia è una minaccia, pur se di tipo diverso, al discorso, giacché essa può fare ogni sorta di rumore, stare in silenzio nonché esprimere osservazioni stupefacenti che in ultima analisi non hanno senso: come «il più silenzioso degli uomini» dello Zarathustra di Nietzsche. Follia e silenzio sono cugini perché funzionano come una lacuna nello sforzo umano di stabilire comprensione reciproca e razionale. Tuttavia non ogni silenzio è una minaccia al discorso e al dialogo o è segno di disordine mentale, né ogni forma di pazzia è un pericolo per la socievolezza umana. Da momenti di silenzio può infatti nascere la verità come pure possono nascere casi di comunicazione intensa e esistenziale, allorché l'assenza, scrive Attilio Bertolucci, è «più intensa presenza».

Il libro di Antonella Garofalo ha origine, come scrive la stessa autrice, «dalle riflessioni che stimola il silenzio nella costruzione della relazione terapeutica». Antonella Garofalo è infatti psichiatra e psicoterapeuta oltre che ricercatrice in campo fenomenologico. Il lavoro che essa produce aprendo la psicoanalisi a prospettive e risvolti iconologici e filosofici è sicuramente suggestivo benché impregnato di un succo di ispirazione fideistica cristiano cattolica che viene versato a iosa sul lettore senza particolare attenzione o delicatezza, come una verità ovvia, come dato di fatto scontato e evidente, da ognuno riconoscibile, condivisibile, condiviso. Certo, alcune delle immagini artistiche proposte non possono non coinvolgere, anzi travolgere, chi le osserva, credenti o non credenti, come la straordinaria Annunciazione di Recanati di Lorenzo Lotto, col rosso dell'abito di Maria e della tunica di Dio Padre.
Gli occhi turbati dell'angelo, quelli umili e increduli della fanciulla con le manine aperte, tra il meravigliato e l'orante, all'annuncio della prossima maternità, non possono non toccare chiunque: ma da lì ad affermare che la fanciulla è la madre di Dio, è la nostra madre, che conosce tutti i nostri bisogni e vi provvede, attenta a ogni nostra necessità, ecc. ecc. il passo è lungo. E che Giovanni Paolo II sia il padre di tutti, il pastore di tutti, meriterebbe qualche specificazione (tutti coloro che riconoscono di essere cristiani cattolici credenti).

Cercando di astrarre dalla pregiudiziale ideologica, i pregi di questa riflessione sul silenzio sono comunque tanti ed evidenti. Non si dimentichi che il silenzio è divenuto una condizione rara e preziosa della nostra epoca fracassona, dalla quale Arpocrate, il puer mitologico che tiene l'indice davanti alle labbra invitando a tacere, è stato bruscamente estromesso. Tanto prezioso è il silenzio, soprattutto il silenzio positivo nella forma di entità e presenza, che gli è stato perfino dedicato un festival che ha già avuto due edizioni, nel 2005 e nel 2007. Lo studio di Antonella Garofalo, carico delle medesime intenzioni del festival, intende il silenzio come preludio: al suono, alla parola, al rumore, che anch'essi non esisterebbero se il silenzio non fosse. Senza il silenzio non potremmo ascoltare né i suoni né la parola né la musica, e nemmeno potremmo indicare la disposizione all'ascolto propria della relazione terapeutica. Il suono del silenzio infine, ci dice l'autrice, è diverso nel caso del silenzio della morte, del pudore e della vergogna, della sofferenza e della solitudine, o del silenzio della follia, esaminato, sul finire del libro, in alcune immagini artistiche (Il matto di Picasso, La pazza di Giacomo Balla).
 In queste figure la dimensione orizzontale propria della capacità relazionale è sacrificata a favore della verticalità di forme sottili e allungate dove relazione e comunicazione sembrano impossibili, e dove soltanto è presente il silenzio della distanza e della follia.

Indice

Presentazione di Remo Bodei 
Note al testo 
Introduzione 
Riflessioni etimologiche 
Silenzi biblici 
Silenzi d'Autore 
Silenzio è...Ascolto 
Il silenzio musicale 
Il silenzio nella relazione terapeutica 
SGUARDI A MARGINE DI ICONOGRAFICI SILENZI 

IL SILENZIO DI MARIA 
Le sette frasi di Maria 
Il silenzio di Giuseppe, imprescindibile Padre affidatario 

SILENZI CINEMATOGRAFICI 
La Passione di Cristo di Mel Gibson 

SGUARDI SU SANTITÀ E FOLLIA 

IL SILENZIO DELL'ABBANDONO E DELL'ABBANDONARSI 
La Madonna in trono col Bambino di Giovanni Bellini 
e la Pietà di Michelangelo 
La Deposizione di Caravaggio 

IL SILENZIO DELLA MORTE E DEL MORIRE 
Il Compianto su Cristo morto di Andrea Mantegna 
Il Cristo velato di Sanmartino 

IL SILENZIO DEL PUDORE E DELLA VERGOGNA 
La pudicizia di Antonio Corradini 
Il disinganno di Francesco Queirolo 

IL SILENZIO COMUNICATIVO DELLO SGUARDO 
TRA NEGAZIONE, PREMONIZIONE ED INCREDULITA' 
La Negazione di Pietro di Caravaggio 
La Vocazione di San Matteo di Caravaggio 
L'Incredulità di San Tommaso di Caravaggio 

IL SILENZIO DELLA SOFFERENZA 
Il silenzio sofferto di Giovanni Paolo II 
Il Nudo dolente di Amedeo Modigliani 
Il San Francesco in estasi di Francesco Cairo 
Il silenzio tragico di Erna di Karl Hubbuch 

IL SILENZIO DELLA SOLITUDINE 
Pubertà di Edvard Münch 
Solitudine di Mario Sironi 
Narciso di Caravaggio 

IL SILENZIO DELLA PROSSIMITÀ 
Psiche e Amore stanti di Antonio Canova 
Il bacio di Francesco Hayez
IL SILENZIO DELLE ETÀ DELLA VITA
Giovinezza e vecchiaia. Allegoria della vanità di Angelo Caroselli
Ritratto di Eleonora Albani Tomasi di Simone Cantarini
Vecchia orante di Giuseppe Nogari
Ritratto di vecchia con rosario di Gaetano Gandolfi
Ritratto di Barbara Dürer di Albrecht Dürer
Ritratto di Auguste Forel di Oskar Kokoschka
Tra il letto e l'orologio di Edvard Münch
IL SILENZIO DELLA FOLLIA
Il matto di Pablo Picasso
La pazza di Giacomo Balla
IL SILENZIO DELLO SGUARDO RETROSPETTIVO
Chiamata dei Santi Pietro e Andrea di Caravaggio
Note a margine di Angela Ales Bello e di Bruno Callieri
Elenco delle immagini
Bibliografia


L'autrice

Antonella Garofalo, medico psichiatra e psicoterapeuta, esercita la professione nei servizi pubblici. Da anni è impegnata in una lettura interdisciplinare delle problematiche psichiatriche con uno sguardo particolare all'antropofenomenologia che tratta facendo riferimento all'arte. Collabora con il Centro Italiano di Ricerche Fenomenologiche di Roma, affiliato al The World Phenomenology Institute, e con studiosi di diversa estrazione culturale. Autrice di diversi contributi e saggi, per l'ETS ha pubblicato il saggio Tempi e spazi della cura. Riflessioni di uno psichiatra sui Servizi di salute mentale (2008). Cura per ETS la collana di Psicopatologia e fenomenologia Incontri ed è direttore del Centro Studi di Psicopatologia, Fenomenologia, Psicoterapie Edith Stein.

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Sito dell’Associazione Edith Stein - Onlus

martedì 8 aprile 2008

Calcaterra, Rosa M. (a cura di), Pragmatismo e filosofia analitica.

Macerata, Quodlibet, 2007, pp. 256, € 20,00, ISBN 9788874621521.

Recensione di Ivo Silvestro - 8/04/2008

Pragmatismo, Filosofia analitica, Epistemologia

A cento anni dalla pubblicazione di Pragmatism di William James, opera che ha dato popolarità e diffusione a questa importante corrente di pensiero nata nei primi anni 70 dell’Ottocento a Harvard, che cosa resta del pragmatismo? Riprendere, oggi, le idee sviluppate da Chauncey Wright, Charles Sanders Peirce, William James e John Dewey è soltanto una operazione storica oppure questi pensatori hanno ancora qualcosa di attuale da dirci?
Il volume curato da Rosa Calcaterra risponde, indirettamente, a questa domanda, riflettendo sugli attuali rapporti tra pragmatismo e filosofia analitica, mostrando le importanti tracce del pragmatismo nel pensiero contemporaneo e i debiti di autori come Quine, Rorty e Putnam verso questa corrente di pensiero.
L’introduzione della curatrice segnala i diversi nodi teoretici che essa ha cercato di affrontare con modalità innovative e che tuttora, come dimostrano i saggi qui raccolti, continuano ad alimentare il dibattito filosofico.
Il pragmatismo è dunque vivo ma, di preciso, cosa è il pragmatismo? Come hanno notato diversi autori, vi è un certo abuso del termine, al quale si aggiungono le inevitabili divergenze interne, come la contrapposizione tra un pragmatismo oggettivo o di destra, rappresentato da Peirce. C. I. Lewis e Rescher, e un pragmatismo soggettivo o di sinistra, rappresentato da James, Dewey e Rorty (Michele Marsonet, pp. 44 e ss.).
Due caratteristiche sulle quali molti degli autori dei saggi qui raccolti hanno insistito sono l’antidogmatismo e il presentarsi come filosofia scientifica, sperimentale e fallibilista, ma questo certo non basta a definire una corrente filosofica, né può aiutare a tracciare un confronto con la filosofia analitica. Secondo Nathan Houser ciò che caratterizza il pragmatismo è la trasformazione delle preoccupazioni epistemologiche «trasferendo la base o la garanzia della giustificazione dai fondamenti razionali alle conseguenze concepite come empiriche» (p. 19). Un altro aspetto molto importante, chiaramente legato ai primi due, è la naturalizzazione (darwiniana) della mente umana. Secondo Rorty, invece, ciò che caratterizza tutte le forme di pragmatismo è l'anti-rappresentazionalismo e il rifiuto della concezione della verità come corrispondenza (Eva Picardi, p. 139).
Definire cosa sia la filosofia analitica non è più facile: anche qui vi è un certo abuso linguistico e certamente non mancano neppure le contrapposizioni interne. Tra le caratteristiche comuni vi è, oltre ovviamente all’impiego dell’analisi come metodo principale di indagine filosofica, l’accettazione della svolta linguistica e l’utilizzo della logica simbolica (Nathan Houser, p. 21).
Date queste caratteristiche, per quanto parziali, la distanza filosofica tra pragmatismo e filosofia analitica non può certo essere incolmabile: si tratta indubbiamente di due tradizioni o scuole filosofiche con numerosi punti di contatto, i quali tuttavia non necessariamente garantiscono una comunione di idee: spesso più che le credenze contano le idiosincrasie di famiglia e i diversi stili filosofici, e Houser tratteggia bene il quadro parlando, con una certa ironia, di Chiesa della Filosofia Analitica e di Chiesa del Pragmatismo (p. 21-22).
Il rapporto tra la filosofia e la società è uno degli aspetti nei quali più si avverte la distanza tra le due chiese: mentre i pragmatisti non esitano a impegnarsi in questioni sociali e politiche (si pensi a John Dewey e al suo appoggio al New Deal di F. D. Roosevelt), i filosofi analitici tendono piuttosto a isolarsi dagli altri settori della cultura. Il ricupero del pragmatismo diventa così una sorta di antidoto «alle ristrettezze concettuali della tradizione analitica» (Michele Marsonet, p. 31).
Questa visione del pragmatismo come cura degli eccessi o delle mancanze della filosofia analitica è una sorta di leitmotiv che attraversa, con sfumature diverse, molti dei saggi raccolti.
Damiano Canale e Giovanni Tuzet, ad esempio, applicano l'approccio pragmatista alle teorie dell'impegno assertivo: che tipo di impegno ci assumiamo quando affermiamo qualcosa? Secondo Frege l'impegno è verso la verità di quanto affermato, ma questa prospettiva è troppo ristretta. L'asserzione non è una semplice proposizione, ma è un atto pubblico e comporta quindi una serie di responsabilità che riguardano la credenza manifestata più la sua verità.
Nathan Houser vede nel pragmatismo di Peirce una possibile soluzione (o almeno un suggerimento per una possibile soluzione) al problema dell'empirismo: come può l'esperienza fare da tribunale al pensiero? Per alcuni filosofi analitici l'unica soluzione è abbandonare l'empirismo, ma questo non è necessario se si accoglie una concezione pragmatista dell'esperienza, che va oltre le impressioni sensibili e comprende conseguenze immaginate e previsioni su esperienze a venire (pp. 28-29).
È questo uno degli aspetti più importanti del pragmatismo: le azioni non nascono da un pensiero separato e distinto, ma sono esse stesse permeate dal pensiero. Secondo John McDowell si tratta tuttavia di una «lezione [che] non è stata propriamente imparata» (p. 66), almeno non da Wilfrid Sellars e Robert Brandom, dei quali McDowell analizza la filosofia dell'azione.
Sul tema della prassi sono molte le consonanze tra l'ultimo Wittgenstein e i pragmatisti classici, Peirce in particolare; consonanze ben analizzate da Vincent Colapietro. Sia Peirce che Wittgenstein, nell'analizzare le pratiche, partono dal quotidiano, abbandonando il trascendentalismo ed evitando il ricorso a giustificazioni teoretiche (p. 80). Colapietro è attento a non commettere il classico errore di questi confronti: appiattire un autore sull'altro, sottovalutando le importanti differenze.
Anche per Mario de Caro il pragmatismo ha, per così dire, una funzione farmaceutica, permettendo di superare lo scientismo, molto diffuso negli ambienti analitici, senza per questo ricadere nell’anti-naturalismo o nello spiritualismo. La tesi forte dello scientismo è che «soltanto la scienza naturale è in grado di fornire una spiegazione vera della realtà» (p. 175). Ciò comporta una cesura insuperabile tra fatti e valori e il conseguente abbandono delle scienze normative e della filosofia, il cui ruolo fondativo viene affidato alla scienza (p. 180). Il pragmatismo, come già detto, si presenta come filosofia scientifica e sperimentale, senza però interpretare quest’ultimo termine nel senso ristretto degli scientisti: per i pragmatisti è possibile un giudizio concettuale correggibile (p. 177). Con il pragmatismo è possibile accogliere il naturalismo nella sua forma liberale, senza imbrigliarsi negli stretti limiti dello scientismo e senza negare che l’importanza dei valori.
E proprio sui valori e sulla loro correlazione con i fatti è incentrato il saggio di Rossella Fabbrichesi. Il pragmatismo di Peirce, a differenza di quello di James e di Dewey, è soprattutto una teoria del significato pensato non nei termini di un verifica attuale, bensì di una verifica virtuale, declinata al futuro, prevedendo il «darsi di una totalità illimitata» (p. 95). Questo comporta una forte correlazione tra logica ed etica, tra fatti e valori, dal momento che nel significato è incluso un riferimento ideale all’illimitata comunità degli interpreti: «credere nell'universalità della logica è un impegno etico» (p. 99).
Maurizio Ferraris parte da una impostazione completamente diversa: nelle pagine del suo saggio il pragmatismo, più che una cura, è una malattia, per quanto meno grave dell’ermeneutica e del postmodernismo. Partendo da James e Russell, Ferraris identifica due diverse concezioni della verità: la prima, che definisce atlantica, è propria del pragmatismo e stabilisce essere vere le idee corroboranti; la seconda, che chiama pacifica, è sostenuta, tra gli altri, da Russell e si basa sulla corrispondenza tra idee e realtà. In realtà unicamente la verità pacifica, che poi è la classica concezione della verità come adaequatio rei et intellectus, è una teoria della verità, in quanto la teoria della verità dei pragmatisti è in realtà una teoria epistemologica, non ontologica. L'accusa di Ferraris è appunto questa: «pragmatisti, ermeneutici, postmoderni, sono privi di una teoria dell’oggetto» (pp. 197-198). Senza di essa si rischia la confusione tra ontologia e gnoseologia, come già Brentano fece notare a James nel 1905, durante il Convegno internazionale di Psicologia.
È possibile rintracciare tre risposte alle critiche di Ferraris: una, diretta, di Giovanni Maddalena e due, indirette, di Eva Picardi e di Rosa Calcaterra.
Giovanni Maddalena, che nel finale del suo saggio, dedicato all’etica in Wittgenstein, Dewey e Peirce, si sofferma proprio sul rischio di un collasso tra ontologia e epistemologia. Secondo Maddalena, il pragmatismo di Peirce, indubbiamente più sofisticato di quello di James, non corre il rischio di confondere verità e felicità (p. 123).
Eva Picardi analizza, attraverso le opere di Rorty, Davidson e Brandom, il rapporto tra pragmatismo e teorie rappresentazionaliste della verità, tratteggiando un quadro ben più articolato del semplice schema presentato da Ferraris.
Rosa Calcaterra, invece, si sofferma sulla figura di James, «il filosofo pragmatista forse più frainteso o comunque accantonato» (p. 207). Si ha così modo di scoprire un pensatore meno ingenuo di quel che ci si aspetterebbe dopo la lettura di alcuni dei saggi precedenti.
Per tornare alla domanda iniziale sul senso di un ricupero delle tematiche pragmatiste, non si trova, tra le pagine di questo volume, una risposta univoca. Secondo alcuni autori è necessario studiare e valorizzare maggiormente il pragmatismo nel suo impianto generale, altri autori tendono invece a soffermarsi su aspetti particolari di alcuni filosofi pragmatisti, mentre altri autori ancora mettono in evidenza le difficoltà e i problemi irrisolti del pragmatismo.
Questa eterogeneità, lungi da essere un difetto del volume, ne costituisce anzi il maggior pregio: fornire un quadro, se non completo sicuramente vasto, della riflessione filosofica del e sul pragmatismo nel contesto della riflessione filosofica contemporanea.

Indice

Introduzione di Rosa M. Calcaterra
Azione e rappresentazione nel pragmatismo di Peirce di Nathan Houser
I diversi approcci del pragmatismo alla filosofia analitica di Michele Marsonet
Il pragmatismo e l’intenzione in azione di John McDowell
Permettere alle nostre pratiche di parlare per sé stesse: Wittgenstein, Peirce e le loro linee di intersezione di Vincent Colapietro
L’entanglement tra etica e logica nel pragmatismo di Peirce di Rossella Fabbrichesi
Wittgenstein, Dewey e Peirce sull’etica di Giovanni Maddalena
Semiotica ed epistemologia: le basi pragmatiche della comunicazione di Ivo Assad Ibri
L’impegno assertivo. La teoria dell’asserzione in Peirce e Brandom di Damiano Canale e Giovanni Tuzet
Oltre lo scientismo di Mario De Caro
Indiana James. I Papi sono infallibili? di Maurizio Ferraris
Il James di Putnam di Rosa M. Calcaterra
Bibliografia
Indice dei nomi


La curatrice

Rosa M. Calcaterra insegna Filosofia della conoscenza all'Università Roma Tre. I suoi studi riguardano il pragmatismo classico e contemporaneo, la filosofia della psicologia e della mente, le teorie della normatività epistemica ed etica il rapporto tra individualità, il rapporto tra individualità e socialità, i problemi della didattica della filosofia. È coordinatrice del progetto di ricerca italo-spagnolo sulla ricezione del pragmatismo nella cultura europea ed è attualmente presidente del Centro Studi Pragma e della Società Filosofica Romana. Ha curato volumi di studi internazionali (Semiotica e fenomenologia del Sé, Torino 2004; Le ragione del conoscere e dell'agire, Roma 2006; Pragmatism and Analytic Philosophy; Amsterdam-New York in corso di stampa). Tra le sue pubblicazioni: Ideologia e razionaità. Saggio su Jürgen Habermas (Roma 1984); Interpretare l'esperienza. Scienza etica e metafisica nel pensiero di Ch. S. Peirce (Roma 1989); Introduzione al pragmatismo americano (Roma-Bari 1997); Pragmatismo: i valori dell'esperienza. Letture di Peirce, James e Mead (Roma 2003).

venerdì 4 aprile 2008

Buttitta, Ignazio, Verità e menzogna dei simboli,

Roma, Meltemi editore, 2008, ISBN 9788883536496

Recensione di Rosanna Oliveri 04/04/2008

Il saggio Verità e menzogna dei simboli ci permette di esplorare da vicino il mondo del simbolismo e di riflettere sul significato che questo assume per noi. Sì, perché i simboli assumono per tutti noi un significato e hanno una capacità di rimandarci ad altri concetti da cui non possiamo prescindere e tantomeno sottrarci.

Da una prima analisi si può concludere che la sfera simbolica riconduce alla dimensione sacrale così come poteva essere presente in epoca primitiva e ciò è dovuto al fatto che l’uomo fin dalle sue origini, ha avuto coscienza che la sua vita era legata a moltissimi fattori che non potevano essere posti sotto il suo controllo. Ci si trovava in un mondo il cui meccanismo non si riusciva a comprendere e pertanto non si aveva modo di controllare. La conseguenza di ciò era il tentativo di decifrarlo attraverso un codice di simboli materiali. Dalle ricerche antropologiche condotte e delle tracce archeologiche rinvenute si può affermare con tranquillità che l’uomo primitivo era sicuramente già convinto che esistesse un legame tra la vita a la morte, ovvero che la morte potesse essere una prosecuzione della vita e un periodo in cui si preparava una nuova vita. Esisteva la convinzione di una ciclicità tra la vita a la morte e in questo senso erano due facce della stessa medaglia. Il fuoco veniva usato in modo rituale per cerimonie che riguardavano proprio queste credenze. È probabile quindi che la maggior parte dei significati simbolici siano nati proprio in epoca preistorica, in particolare durante il Neolitico.

Buttitta analizza la sfera dei simboli percorrendo vari aspetti del fenomeno. Si passa dal significato di veicolo per l’assoluto a quello più contestualizzato di alcuni elementi ricorrenti, come in particolare gli alberi, l’acqua o il vento che sono quasi delle costanti nei riti simbolici che hanno attraversato i secoli fino ai giorni nostri.

Riguardo agli alberi si può dire che il bosco fin dall’antichità, era considerato il luogo prediletto dove abitavano le divinità. In tutta l’area celtica si sono rinvenute prove di culti dedicati ad alberi o a divinità degli alberi. Buttitta, a questo riguardo, riporta il celebre altare, la cui provenienza è sconosciuta, in cui sulla parte anteriore è raffigurato un dio con la barba e il capo scoperto, in piedi con vicino un cinghiale. Questo dio ha in una mano un serpente e nell’altra un oggetto che potrebbe essere una pigna. Dietro di lui si vede un pino a cui sta sospeso un bastone. Su un lato dell’altare si vede un altro pino e una capra, mentre sul lato opposto è solo un albero di alloro a occupare la scena. Sul retro, invece, si vedono due colonnette i cui capitelli sono costituiti da pigne.

Questo è solo un esempio tra le numerose rappresentazioni che dimostrano l’esistenza di divinità legate al mondo vegetale. Altri ritrovamenti che testimoniano una sacralità legata al mondo della natura vegetale sono dovuti agli scavi condotti presso l’oppidum di Manching in Baviera.

Anche l’albero della quercia veniva ricondotto al dio del fulmine, chiamato Donar o Thunar, e veniva adorato dalle popolazioni germaniche dell’antichità.

È sbagliato pensare però che il mito e l’adorazione degli alberi e dei boschi sia da associare esclusivamente al mondo antico; le cronache medievali, infatti, riportano numerose testimonianze di riti legati a queste credenze. Carlo Magno ebbe esperienza diretta di ciò quando nel 772, durante la guerra contro i Sassoni ordinò di distruggere gli alberi che venivano riconosciuti come divinità da queste popolazioni. In quell’occasione furono abbattuti numerosissimi alberi. Anche la Chanson de Roland presenta molte scene in cui gli alberi e il bosco in cui si svolgono le azioni assumono un valore maggiore di quello di un semplice sfondo, al contrario prendono parte in modo attivo trasmettendo i loro influssi sui protagonisti. Le leggende medievali sono, inoltre, spesso ambientate in boschi incantati, con piante, fiori o alberi dai poteri magici.

In ultima analisi ricordiamo che anche la religione cristiana non si sottrae al simbolismo legato al legno, che riconosciamo nell’elemento simbolico principale della cristianità: la croce.

È molto probabile che l’uso del simbolismo legato agli alberi, al bosco e al legno non sia affatto inconsapevole. Fin dall’antichità, infatti, gli uomini primitivi potevano osservare che il tronco era la parte della pianta che rimaneva intatta durante il periodo invernale, quando al contrario tutto il resto della pianta seccava. In seguito, passato l’inverno, era proprio dal tronco che rinascevano le foglie e i frutti. Da questa osservazione si dedusse che il legno, nella fattispecie il tronco dell’albero, aveva la capacità di riportare la vita e gli alberi dovevano avere la capacità di rinascere, cosa che si poteva attribuire a una divinità. Inoltre la possibilità di creare il fuoco dal legno doveva far apparire il legno e gli alberi elementi ancora più divini e magici.

Un altro elemento simbolico ricorrente in tutte le culture è sicuramente l’acqua. Tra le testimonianze di un uso magico dell’acqua si possono riconoscere virtù curative, che vanno dalla terapia di varie malattie anche gravi all’antidoto contro il malocchio, ovvero contro lo sguardo crudele e deleterio delle streghe. L’acqua è l’unica costante nella preparazione delle pozioni contro i malefici delle streghe e, allo stesso tempo, è spesso presente nei riti di queste stesse, per esempio legati alla capacità di provocare alluvioni o grandine. Un altro esempio di uso magico-terapeutico dell’acqua è la pratica dell’immersione purificatrice nei fiumi e nelle fonti che rimane presente in molte religioni e ricompare anche nel cristianesimo con il rito del battesimo.

Il culto dell’acqua si ritrova variamente articolato in diverse culture dell’area euromediterranea fin dal Neolitico. Ai culti delle sorgenti e dei corsi d’acqua devono essere connessi quelli delle caverne profonde intese come passaggio verso le viscere della terra, sede di divinità ctonie legate alla fecondità.

Per tutto il Medioevo, le cronache riportano esempi di condanna dei culti delle acque. Già Sant’Agostino osservava l’abitudine di offrire oggetti alle acque dei pozzi e delle fonti templari. Ma se da una parte la Chiesa condannò i riti precristiani legati alla mitologica dell’acqua, dall’altra ne cercò l’assimilazione. Sono moltissime infatti le fonti e le sorgenti riconosciute magiche in epoca precristiana attribuite poi a Madonne e Sante cristiane.

Una costante del culto e del simbolismo legato all’acqua è il suo legame con l’elemento femminile. L’acqua, infatti, fu sempre riconosciuta come elemento capace di creare la vita, proprio come la donna. Anche se sembra banale ricondurre questa capacità alla nostra assoluta necessità di avere l’acqua per sopravvivere, è molto probabile che la ragione per cui è stato attribuito un valore sacro a questo elemento sia proprio questa.

Nel saggio vengono affrontati anche altri aspetti del simbolismo, analizzando credenze e riti popolari legati alle tradizioni locali regionali italiane, come balli e feste sarde, oppure come la panificazione in Sicilia dove è frequente la forma a “esse” che richiama la spirale, simbolo di vita eterna.

Indice

Premessa p. 7
Il potere delle cose ovvero l’uomo, il sacro, i simboli p. 11
“Desuz un pin…”. La lunga strada dell’albero p. 29
Divinare il vento. Emissioni vulcaniche nelle isole Eolie p. 61
Tophet o dell’ambiguo statuto mondano degli infanti p. 83
Acque di vita, acque di morte. Il simbolismo magico- religioso dell’acqua p.99
La spirale nella panificazione cerimoniale p.119
“Veicoli dell’assoluto” nella tradizione induista p. 169
Verità e menzogna dei simboli. Società e festa a San Marco d’Alunzio p. 231

Bibliografia p.287


L'autore

Ignazio E. Buttitta insegna Etnostoria presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Sassari e Etnoantropologia presso la Facoltà di Economia dell’Università “Kore” di Enna. Tra le sue pubblicazioni: Feste dell’alloro in Sicilia (1992); Le fiamme dei santi. Usi rituali del fuoco in Sicilia (1999). Per Meltemi ha scritto il saggio I corpi dei santi. Breve discorso intorno alle immagini della santità pubblicato ne Il corpo e la festa (1999) e i libri Le fiamme dei santi (1999), La memoria lunga (2002), I morti e il grano (2006) e Verità e menzogna dei simboli (2008).