Recensione di Maria Maistrini – 18/5/2008
Filosofia teoretica (ontologia), Ermeneutica, Filosofia analitica
Se incautamente siete fra coloro che fino ad ora si sono sempre vantati con gli amici di quanto siano stati bravi e coraggiosi ad andarsene dall’analista o dal consulente filosofico per farsi mettere a soqquadro la vita, temerariamente affrontando tempeste di antitesi, impeti di pulsioni, terremoti dialettici e super-io indemoniati; provate a leggere questo libro di Luca Morena e a continuare a farvi vanto.
Sì, perché, per giunta a fronte di una spesa enormemente più modesta, spavaldo campione di quelle truppe di nuovi filosofi (gli ontologi, ve li ricordate?) il cui arrivo avevamo preannunciato già da queste stesse colonne un paio di anni fa (http://www.recensionifilosofiche.it/crono/2006-04/ferraris.htm ), Morena vi sfida a ben altra impresa.
Se finora difatti avete resistito all’occhialuto (di solito) professionista che vi annunciava tutto allegro (di solito: chissà poi perché) che la vostra bella famigliola tanto simile a quella del mulino bianco poi alla fine non era, anche se sotto sotto in fondo ve lo aspettavate di somigliare un po’ anche voi a quel brutto ceffo di Edipo (era pure cieco); provate adesso a scardinare con la stessa disinvoltura la ferrea convinzione di avere tre libri e una sveglietta poggiati sul vostro tavolino da notte, quattro oggetti in tutto; eh, già, perché, se non state in campana, in un centinaio di pagine di rara chiarezza speculativa (ferma restando naturalmente la complessità teoretica e storica del problema), il Morena, anche lui col sorriso sulle labbra, simpaticamente vi dimostra che in fondo non potete essere sicuri di averci nemmeno il tavolo, a casa, nella vostra camera da letto.
Ma procediamo con ordine.
Come direbbe Giulio Tremonti, non è necessario metterla giù difficile: alla fine si tratta solo del fatto che al di qua e al di là dell’Oceano (Atlantico, almeno per qualche altro giorno dovrebbe rimanere ovvio) ci si è stufati di un certo modo di fare filosofia, e allora se ne cerca un altro.
In particolare, da una parte l’ermeneutica, dopo l’incontestabile quanto enorme successo di questi ultimi decenni sul Continente, sembra riveli delle falle forse insuperabili; dall’altra altrettanto sembra capitare alla filosofia di tradizione analitica, per utilizzare l’espressione di Diego Marconi (http://filosofia.dipafilo.unimi.it/~chora/versione1_0/testi/dossier2MARCONI.htm).
E senza entrare nei dettagli comunque già per moltissimi versi conosciuti, un’alternativa percorribile può essere e comunque sta di fatto venendo dall’ontologia, nonostante il “disaccordo” per lo più normale – nel senso di fisiologico – che caratterizza al momento la sua storia e i suoi sostenitori.
Anche qui per non complicarsi inutilmente una vita – quella filosofica – già di per sé abbastanza complicata – si può dire in due parole che per ontologia va bene intendere, almeno per il momento, “il ritorno al realismo” (nonostante le difficoltà per contare gli oggetti…) (Ferraris, «Il Sole 24 ore», domenica 27 gennaio 2008), cioè una renaissance della metafisica i cui prodomi si possono ravvisare in un grande teorico della filosofia pratica, Robert Nozick (cfr. Id., 1981), il filosofo harvardiano scomparso nel 2002; a ulteriore conferma, se mai servisse, del fatto che una buona pratica, cioè la filosofia anche intesa come esercizio di riflessione e conseguente lavoro su noi stessi (cfr. Id., 1989) non può che poggiare le sue basi su una più che solida speculazione teoretica.
Ora naturalmente per molti aspetti si tratta di vecchie questioni, alcune anzi vecchissime, tipo perché c’è qualcosa anziché niente, oppure cosa esiste e cosa no, tipo cercare di tagliare con una lama alla fine sempre troppo affilata il confine fra oggettività e soggettività, e cose del genere; il fatto è che questi ontologi non le ritengono decrepite, e per l’ottima ragione che esse questioni non sono mai state risolte definitivamente, ammesso e non concesso che in filosofia siano mai esistite questioni archiviate davvero una volta per tutte, certo; ma qui si vuol significare che anche l’istruttoria a loro carico è stata forse troppo approssimata e sbrigativa, e in alcuni casi, manifestamente ideologica e strumentale.
A questo proposito comunque vale riaggiornarsi, dopo la grande abbuffata ermeneutica, magari leggendosi l’antologia curata da Achille Varzi (Metafisica. Classici contemporanei, Milano, Bompiani, 2007), che illumina su tutta la questione, quasi fin troppo, trattandosi di una roba un po’ imponente, in realtà, cioè di più di cinquecento pagine che spaziano da Ryle a Quine, da Carnap a Sellars a Moore a Putnam, passando per Russell, Popper, Dummett, Davidson, Strawson, e chi più ne ha più ne metta; meno male però che a un certo punto qualcuno in famiglia deve essersi rotto una gamba oppure hanno smarrito il gatto, perché nulla vi si dice di religione e metafisica nel senso per esempio di Christopher Hughes (che tuttavia voi fortunati iscritti a questa lista trovate ancora qui, se vi occorre, http://www.recensionifilosofiche.it/crono/2006-09/hughes.htm), né di metafisica in relazione al tempo, o alla matematica, come specifica lo stesso curatore nell’Introduzione, e questo aiuta a semplificare un minimo la questione.
Già: la questione, appunto, e qui ancora lo stesso Varzi ci viene in aiuto spiegando sempre nel medesimo luogo che forse potrebbe non essere del tutto opportuno parlare adesso – dopo la «svolta linguistica» e dopo quella «cognitiva» - di una vera e propria «svolta metafisica», perché a suo avviso nemmeno gli analitici più polemici (dei quali pure il libro fornisce ampi stralci) avevano davvero rotto con la tradizione metafisica, ma piuttosto con quella parte di essa che ci aveva abituati all’uso di paroloni e fraseggi tanto altisonanti quanto a volte inutili e/o dannosi (uno per tutti, Varzi riporta il famoso “il nulla nulleggia” di heideggeriana memoria), insomma con le distorsioni e le derive, più che con i contenuti e i temi veri e propri.
E, a parti invertite, penserei sia il caso di considerare lecita la stessa insofferenza, da parte degli “ermeneutici”, nei confronti di altrettanto verbalismo figlio di troppa analisi “analitica”: sarà pur vero che è anche giusto chiedersi se si può dire che esiste il gatto, e nell’eventualità anche inferirne se si può dire che esiste il topo o il canarino di cui l’adorato felino mi ha appena omaggiato, e così via; ma dovrà pur venire il momento in cui ci si rassegni a ciò che ci indicano i nostri sensi – cioè che “esiste tutto” (cfr. Varzi e Ferraris, Che cosa c’è e che cos’è. Un dialogo, Lecce, Milella 2003, pp.81-101) - e conseguentemente ci si decida ad elevarsi a un piano appena superiore, chiedendosi quantomeno se è meglio andarsi a comprare un cane, una scimmia o un pesce rosso, ovvero se non sia preferibile considerare l’istinto animale alla stessa stregua del nostro libero arbitrio – e pertanto dispensare il perdono al fedifrago -, e similari.
Insomma l’accusa classica dei continentali ai colleghi anglosassoni di scuola analitica è che si stiano a lambiccare il cervello con questioni della minima o non determinante importanza (beh, perché, nonostante il can can attuale sulla verità, sta ancora male forse dire “di nessuna importanza”).
E come non vedere in questa accusa lo specchio dell’altra, di quella che gli analitici rivolgono ai nostri, cioè di elevarsi talmente tanto col pensiero, che alla fine non si ricordano più nemmeno loro di vivere sulla terra?
Ecco qua allora che, tipicamente, tra i due litiganti dialetticamente sorge il termine medio se non proprio o non ancora dell’ontologia, almeno degli ontologi, questi tizi che, in due parole, vorrebbero provarsi a descrivere la realtà salvando capra e cavoli, cioè mantenendo i piedi per terra (nel “mondo esterno”) e allo stesso tempo continuando a buttare un occhio al cielo (mutatis mutandis, uno straccio di soggettività sopravvive ancora). Per un’analisi circostanziata ci si può senz’altro rifare al recente Convegno internazionale organizzato da Costantino Esposito con le Università di Torino e Bari, presso quest’ultima sede (http://www.uniba.it/ateneo/facoltà/lettere/eventi/Depl_Ontologia.pdf/view), col sostegno della Società Filosofica Italiana, che ha visto ospiti quali Ciliberto, Courtine, Düsing, Ferraris, Freedman, Hinske, Krouglov, Mulligan, Poggi e altri – incentrato sulla storia dell’ontologia, appunto, dalle origini a oggi, con l’obiettivo di tentare di riequilibrare alcuni eccessi derivanti da certe inevitabili conseguenze dell’ermeneutica, tentativo peraltro vivo in seno alla stessa grande filosofia americana già da tempo grazie all’opera e all’apporto critico di John Searle, in Italia proprio in contemporanea al Convegno, a sottolineare la robustezza del nuovo vento riformatore (per informazioni http://www.sdaff.it); mentre io qui, ritornando con una spericolata ellissi al nostro inizio, vorrei limitarmi a concludere specificando in che senso Morena apporta il suo importante e concreto contributo alla cosa.
Da una parte infatti, senza nascondere l’appartenenza di scuola, come dicevo egli ci mette in crisi circa questioni simili alla storia del mio tavolino da notte (il libro si apre anzi, non timidamente, esemplificando con una scenetta accademica molto carina, che descrive due che litigano su quanti oggetti “esistono”, una volta affermato che nel mondo ci sono “x1, x2, e x3”).
Dall’altra, però, se si resiste alla tentazione di chiudere subito esso libro per sospetta “analiticità”, lungo lo snodo di parecchie importanti questioni alla fine di tante provocazioni si arriva davvero a qualcosa relativamente al tipo di disaccordo che contraddistingue le dispute filosofiche in ontologia, e con questo l’opera si ritaglia un suo spazio preciso nel panorama di cui sopra, perché naturalmente per poter spiegare il disaccordo deve disegnare preliminarmente uno stato dell’arte, e così la sua utilità si manifesta essere sia di tipo informativo-descrittivo (su questioni di cui c’è forse poca eco in Italia, perché relative ad autori non ancora tradotti, come Eli Hirsch, e non solo per ragioni di differente sensibilità culturale); sia di tipo speculativo vero e proprio, soprattutto quando egli ci spiega dettagliatamente (era ora) struttura e natura di tale disaccordo, rispettivamente nella prima e nella seconda parte del libro, con uno sforzo concettuale che va oltre la mera elencazione, assumendosi anzi la responsabilità di una vera e propria posizione metodologica e contenutistica – sembrerà banale, ma in tempi in cui tutto sembra essere uguale a tutto, e per intravedere il punto di vista originale dell’autore di un’opera bisogna spesso fornirsi almeno di un microscopio se non di un amico veggente, a me sembra un avvenimento, anzi: una bella differenza.
Non potendo riassumere l’intero, impegnativissimo, libro, dirò in sintesi che la questione è quella, ontologica, posta dallo stesso titolo: c’è qualcos’altro oltre al testo? o le parole si mangiano anche gli oggetti, cioè esistono di per sé, e buonanotte alla nostra sveglia, ai libri e al tavolo?
Come si sa, la domanda è antichissima, datata circa cinquemila anni nella filosofia cinese, dove possiede però pure una salda risposta: non ci sono (esistono) né parole né oggetti, ma solo illusioni mentali, e amen. Mentre in occidente, come si sa anche meglio, prima dell’enorme interesse suscitato dalla questione della scrittura in tempi recenti, abituale era l’interesse dei filosofi sopra le questioni della coscienza, e, con essa, dell’esistenza, fenomenicamente definita o meno, ma sempre eminentemente in rapporto con la soggettività individuale e umana.
Nuova è allora la posizione della questione nei termini appunto degli oggetti materiali, e della loro percezione/percepibilità/esistenza, classicamente più il campo d’interesse della fisica che non della filosofia vera e propria, nel senso che nemmeno nei pensatori più appassionati alla natura si trova il sospetto che siano da indagarsi appunto anche gli oggetti di questa specie, che se ne rimangono dunque là, negletti, fra cielo e terra, a fare da comparse, fino a quando almeno le scoperte della fisica quantistica non rimettono in discussione tutto, con i quanti e compagnia bella, e dal Tao della fisica di Fritjof Capra in poi (1975) il sospetto che la realtà alla fine sia davvero tutta una rode più di una coscienza critica, intanto che comunque non si dà ancora per acclarata la soluzione al problema.
Questo degli oggetti, però, che potrebbe apparire complessivamente forse come un menare il can per l’aia a prima vista anche peggiore dei precedenti, è davvero un invito alla concretezza e al realismo, solo che si ponga la cosa, con un po’ di pazienza, in chiave dialettica, e cioè, riassumendo bestialmente: già dalle sue auliche origini (Plotino e Proclo), la filosofia sospetta eccome che la realtà non sia affatto un’illusione, né inspiegabile né frammentaria, e i più a grandi linee concordano che c’è sì un linguaggio, ma a servizio della descrizione di essa realtà, in tanti modi diversi, ma sempre in forma non autonoma. Grandi drammi per cercare di stabilire se vale accontentarsi di una sostanza anche alla buona, solo umana, o se magari così è poco, se si possa avere di più. Altrimenti, si rischia di perdere di vista la verità, e con lei anche la realtà: ci sono solo interpretazioni, e soprattutto derive delle interpretazioni, e via dicendo.
Morale: pur se anche quelli che oggi scagliano la prima pietra non credo possano del tutto vantarsi di essere o essere stati esenti dalla mera fascinazione ideologica del periodo, ma meritoriamente fanno ammenda; non credo si possa superare davvero il problema se non se ne riconoscano radici più profonde nell’autocoscienza individuale, e precisamente nella tendenza personale (come diceva Fichte, dogmatici o idealisti si nasce) a farsi incastrare dalle illusioni, rispetto all’autobiografia innanzitutto, e poi, per ovvia e quasi automatica trasposizione, nella descrizione di ciò che è.
Tento di spiegarmi meglio. Uno prima dice: nella mia vita esistono gli affetti tal dei tali, i miei amici mi vogliono bene, mia moglie mi adora, e tutto va bene. Poniamo che non sia vero, purtroppo, che egli si sbagli e che perciò questa sia solo una sua interpretazione. Siete convinti che, allo stesso tempo, lo stesso e identico tizio possa poi scrivere un libro in grado di descrivere la realtà, il mondo esterno, proprio così come esiste, così com’è? Io no, e non dico solo nel mero senso empirico, voglio dire anzi che questo logicamente secondo me contraddice il principio di identità, appunto, preso per una volta dal suo lato positivo, cioè non solo per guardare cosa si nega, ma cosa si afferma.
Preme invece capire il discorso di Morena, e cioè: perché dovrebbe essere importante, detto tutto questo, impegnare la ricerca nella questione riguardante la composizione e le condizioni di persistenza degli oggetti materiali? Perché anzi starsi a rompere la testa addirittura con domande come, per restare nell’esempio: di che cosa è fatta la mia sveglietta? sono sicuro che è un individuo? non sarà tutto un unico oggetto, il tavolo-sveglia, o la sveglia-libreria da notte?
Non sarà solo una delle interminabili e pazzesche questioni di questi benedetti americani?
No, perché nonostante il riconoscimento e l’omaggio ai parenti prossimi, Morena rimane con i piedi ben saldi sul Continente, direi anzi che è sistematico (senza offesa) nell’arrivare alle conclusioni, come i progenitori; disinvolto nel contestare il Padre (Carnap, Quine, Putnam), a volte la Madre (Varzi, Ferraris, Marconi – che rimangono nell’ombra, cuore cui appoggiarsi); felice nel moltiplicare i pani e i pesci delle possibili strategie di accordo nell’ambito dei conflitti semantici, al fine di evitare – ecco lo scopo di tale e tanta fatica - la schizofrenia tra le nostre pratiche linguistiche e l’ontologia che sempre noi stessi professiamo.
E così, con un vero e proprio coup de theatre, finiamo a mio avviso per scoprire che psicoanalisi, consulenza, ontologia che dir si voglia, siamo sempre lì. È la nostra identità, a essere in gioco, e il sapere che di essa andiamo costruendo in questo preciso momento storico, e, forse, con la speranza che non ci sia più Oceano che ci divida, dentro o fuori di noi.
Indice
PARTE PRIMA: LA STRUTTURA DEL DISACCORDO IN ONTOLOGIA
Figure dell’interpretazione
Esprimere il disaccordo ontologico
Essere estroverso, essere introverso
PARTE SECONDA: LA NATURA DEL DISACCORDO IN ONTOLOGIA
Nonletteralismo ermeneutico vs Letteralismo ermeneutico
Il disaccordo verbale e il disaccordo contestuale
Considerazioni finali: Disaccordo contestuale o disaccordo genuino?
L'autore
Luca Morena è divenuto Dottore in Filosofia analitica all’Università di Bologna (con Marco Santambrogio e Paolo Leonardi), è stato visiting scholar alla Columbia (New York), supportato da Achille C. Varzi, e ora è membro di Labont, il Laboratorio per l’ontologia teorica e applicata -diretto da Maurizio Ferraris nell’Università di Torino-, a cui si può scrivere per informazioni o eventualmente appuntamenti. Ha pubblicato e curato numerosi articoli e saggi su alcuni topi specifici dell’ontologia e della metafisica, come per esempio Semantica e ontologia, in «Rivista di Estetica» (2/2006), con Giuliano Torrengo, che si possono leggere anche in lingua italiana.
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