Recensione di Alfonso Ottobre - 10/06/2008
Estetica
Spesso si dice che i libri importanti siano quelli che vanno a colmare degli ipotetici “vuoti”, quasi che il panorama culturale fosse un territorio prestabilito da coprire metro dopo metro. Eppure con questa formula trita si cerca solitamente di evidenziare un fatto reale, ossia l’impressione di trovarsi di fronte a qualcosa di sorprendentemente “utile”. In realtà il valore aggiunto di certi libri, ciò che li fa apparire al tempo stesso nuovi e necessari, è la genuinità degli interessi che li hanno generati, il fatto cioè che essi rappresentino il risultato di un’attività di studio e di ricerca e non il frutto di una decisione basata soltanto sull’opportunità editoriale.
Questo volume curato da Giuseppe Di Giacomo e Claudio Zambianchi risponde perfettamente a tale descrizione. I due curatori, studioso di estetica il primo, storico dell’arte il secondo, sono infatti da anni impegnati insieme in progetti di ricerca che hanno la loro cifra distintiva proprio nell’impegno interdisciplinare e nella volontà di lasciar interagire competenze diverse ma affini che storicamente costituiscono il profilo teorico dell’estetica, della critica e della filosofia dell’arte. Alle origini dell’opera d’arte contemporanea porta semplicemente i segni di tale lavoro e della passione che lo ha sinora animato.
La struttura del volume, nonché la scelta dei saggi, è un’altra diretta testimonianza di quanto detto sinora. Il libro si apre con una introduzione di Claudio Zambianchi che pare semplicemente voler presentare i saggi che seguono e si chiude con una postfazione di Giuseppe Di Giacomo che, altrettanto modestamente, sembra voler soltanto riassumere le varie questioni sollevate dai saggi con un accento più marcatamente teoretico, soprattutto sulla scorta delle “conclusioni” affidate nel libro ad alcune pagine tratte dalla Teoria estetica di Adorno. Ma le cose non stanno così: l’introduzione di Zambianchi non si limita a presentare i saggi ma li compone in una visione d’insieme, lasciando intravedere un percorso ben delineato, sebbene non acriticamente chiuso, che parte dal formalismo della prima metà del Novecento e approda alla crisi, sviluppatasi nella seconda metà del secolo, di alcune nozioni centrali della tradizione modernista, quali appunto l’autosufficienza della forma, l’autonomia e l’originalità dell’opera d’arte, fornendo quindi una chiave di lettura di molti fenomeni artistici contemporanei. Similmente la postfazione di Di Giacomo è ben lungi dall’essere una mera ricapitolazione “filosofica” delle questioni storico-artistiche sollevate dai saggi: facendo leva sulla lezione adorniana, nonché su alcune intuizioni di Benjamin, Di Giacomo evidenzia invece tutte le intime contraddizioni di un arte che nel momento in cui definisce se stessa in contrapposizione con la sua stessa tradizione scopre di non poter sopravvivere in quanto arte. Una sorta di situazione paradossale nella quale, come scrive lo stesso Di Giacomo, “l’arte, per continuare a essere tale, deve disdire quanto non può non dire per poterlo appunto disdire” (p. 222). Così la ricchezza della proposta complessiva del volume è assicurata da un lato dalla ricostruzione storica della critica più attenta e consapevole, e dall’altro dalla messa in questione di alcuni presupposti spesso dati per scontati, come accade nella migliore tradizione filosofica.
I saggi presentati in questo libro, è quasi inutile dirlo, sono tutti in grado di suscitare l’interesse del lettore. Dal primo, Un saggio di estetica di Roger Fry, datato 1909, che pone immediatamente sul campo gli elementi della visione formalista dell’arte, dominante per lungo tempo nella critica d’arte americana, fino all’ultimo (che precede soltanto le “conclusioni” adorniane) di Rosalind Krauss, L’originalità dell’avanguardia, datato 1981, dove invece anche il più radicato dei concetti legati alla creazione artistica modernista, l’originalità appunto, viene messo in discussione. In mezzo, a illuminare un cammino accidentato, troviamo i contributi di Meyer Shapiro, La natura dell’arte astratta (1937), e di Walter Benjamin, qui rappresentato da alcuni estratti dal suo ormai classico L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936), che riportano le questioni dell’arte in un più ampio contesto sociale, politico e storico; scopriamo, aiutati dalla presenza di due saggi distinti e abbastanza lontani nel tempo, Avanguardia e Kitsch (1939) e Pittura modernista (1961, tradotto per l’occasione), l’evoluzione della critica formalista in uno dei più importanti e influenti critici d’arte della metà del secolo scorso, Clement Greenberg; e siamo infine guidati nei meandri della riflessione post-modernista dai saggi di Leo Steinberg, Altri Criteri (1972), Arthur Danto, Arte e significato (2000), entrambi in prima traduzione italiana, e della Krauss, di cui si è già detto. Insomma, non è difficile intravedere, anche da questi pochi cenni, l’organicità del progetto e pregustare la possibilità di compiere un viaggio ricco di significati nel mondo della riflessione novecentesca sull’arte in poco più di duecento pagine.
Offerta una visione panoramica del lavoro, vorrei ora soffermarmi brevemente su due saggi del volume, quelli cioè che a mio giudizio sono in grado di fornire al lettore indicazioni preziose per percorrere sentieri meno battuti: il saggio di Steinberg e quello di Rosalind Krauss . Il motivo della mia scelta è dato dall’impressione che questi due saggi abbiano in comune il fatto di mettere veramente in discussione quello che definirei uno dei dogmi del pensiero modernista, vale a dire la convinzione da parte degli artisti dell’avanguardia, e dei loro critici, di aver rivoluzionato i parametri teorici e esecutivi della tradizione artistica, presentando all’attenzione del pubblico degli elementi di assoluta originalità. Steinberg, ad esempio, nel suo Altri criteri, mostra in maniera molto intelligente quanto sia sbagliata l’idea greenberghiana di definire l’arte modernista come un’arte che, contrariamente a quella del passato, finalmente raggiunge l’autoconsapevolezza formale, prendendo semplicemente se stessa e i propri media come oggetto di ricerca e contenuto (il tutto in una prospettiva teleologica). Scrive Steinberg, dopo aver portato tutta una serie di esempi tratti dalla pittura non modernista, “quale che sia ogni suo altro contenuto, tutta l’arte ha per oggetto se stessa. Tutta l’arte originale va alla ricerca dei propri limiti e la differenza tra arte del passato e arte modernista non ha a che fare con la presenza o meno dell’autodefinizione, ma con la direzione che questa autodefinizione prende” (p. 121). Quindi, se proprio vogliamo stabilire delle differenze, varrà la pena concentrarsi su tali possibili diverse direzioni, utilizzando magari “altri criteri” suggeriti da approcci diversi all’oggetto artistico, approcci meno tecnici, per esempio, e più legati agli interessi umani. È seguendo questo filo logico che Steinberg estrae dal suo cilindro quella che, per usare le parole di Zambianchi, è “una delle invenzioni del saggio più gravide di conseguenze sui modi d’interpretazione dell’arte negli anni a venire” (p. XXI); mettendo in discussione un concetto-feticcio della critica modernista, quello della “planarità” (che in modo più tradizionale di quanto generalmente si riconosca mantiene comunque in primo piano l’idea del quadro come spazio verticale da osservare), Steinberg propone di sostituirlo con un “altro” paradigma che ci invita a considerare il piano pittorico come un “pianale” (flatbed). Non più quindi il quadro come “rappresentazione di un mondo [...] leggibile sul piano del quadro in rapporto alla stazione eretta dell’uomo” (p. 130), vigente fino all’espressionismo astratto (incluso), bensì un piano pittorico che richiama alla mente superfici rigide come i tavoli, i pavimenti, “ogni superficie destinata ad accogliere delle cose su cui siano sparsi degli oggetti, su cui siano registrati dei dati”; elementi che richiamano quindi un nuovo orientamento “orizzontale” “in cui “la superificie dipinta non è più l’analogo di un’esperienza visiva della natura, ma di processi operativi” (p. 131). Il messaggio di Steinberg è quindi chiaro: non solo con questi “altri criteri” possiamo accostarci alle opere di artisti come Rauschemberg e Dubuffet e capirne la reale portata; ma soprattutto è portandoli alla luce che compiamo l’azione più importante, quella di sottolineare che non è attraverso criteri analitici immutabili e precostituiti che possiamo sperare di tenere il passo con un’arte che cambia continuamente pelle.
Se Steinberg nel suo saggio attacca un concetto forte dell’arte visiva, nel suo L’originalità dell’avanguardia, Rosalind Krauss mette nel mirino un vero e proprio “mito” modernista, quello dell’originalità, uno dei pochi dogmi che sembrano aver tenuto in tutte le varie declinazioni del pensiero avanguardista. Un’originalità, spiega la Krauss, che è qualcosa di più del semplice rifiuto del passato: “L’originalità avanguardista è concepita come un’origine in senso proprio, un inizio a partire da niente, una nascita” (p. 157). Sebbene però tale nozione abbia reso quasi inestricabili le relazioni tra avanguardia e originalità, la “pratica effettiva” dell’avanguardia rivela, ad un’analisi più attenta, che questa originalità tanto enfatizzata può essere tutt’al più considerata “un’ipotesi di lavoro che emerge su un fondo di ripetizione e di ricorrenza” (p. 158). La figura scelta dalla Krauss per fornire un esempio di questa (apparente?) contraddizione è quella della “griglia”, intesa come modalità di suddivisione della superficie pittorica. Perché proprio la griglia? Perché essa rappresenta perfettamente le pretese del pensiero avanguardista ed è al tempo stesso la nemesi del mito dell’originalità: essa è stata paradossalmente “scoperta” più volte dall’avanguardia; la sua adozione ha condotto molti artisti verso una poetica della ripetitività (Mondrian, Albers, Reinhardt, Agnes Martin); e infine, venendo meno ad una sorta di promessa modernista, ha finito con il nascondere, più che con il rivelare, la superficie pittorica, sovrapponendosi ad essa. Prendere coscienza di tutto ciò significa dare una salutare spallata a un ingombrante mito avanguardista e rimettere al centro dell’attenzione la parte rimossa di una coppia di concetti correlati e interdipendenti - originalità e ripetizione - che in fondo dipendono “da una medesima economia estetica” (p. 159). Interrogare la nozione di originalità seguendo questa intuizione sembra essere del resto uno dei compiti che si è data una parte dell’arte a noi contemporanea; la Krauss cita il lavoro di Sherrie Levine ma, senza nemmeno voler prendere in considerazione alcuni “padri” dell’appropriazionismo come Duchamp o Warhol, si potrebbero fare i nomi di Cindy Sherman, Mike Bidlo (citato da Danto nel suo saggio), Jeff Koons, protagonista di una celeberrima causa di “plagio” o, spostandoci in altri campi, potremmo fare riferimento alle tecniche compositive della musica “rap” o dei minimalisti americani.
Ognuno di questi esempi servirebbe per evidenziare l’attualità e la pervasività del tema e, ammesso che ce ne sia ancora bisogno, per sottolineare l’importanza di questo libro che lo pone come culmine di un secolo di riflessione sull’arte.
Indice
Introduzione di Claudio Zambianchi
FONDAMENTI DEL FORMALISMO
La forma e l’emozione estetica (R. Fry, Un saggio di estetica, 1909)
POSIZIONI NON FORMALISTE NEGLI ANNI TRENTA
Una visione antiformalista dell’arte astratta (M. Shapiro, Natura dell’arte astratta, 1937)
Arte, cinema e fotografia: le masse e la “riproducibilità tecnica” (da W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 1936)
LO ZENITH DEL MODERNISMO
Greenberg prima dell’espressionismo astratto (C. Greenberg, Avanguardia e Kitsch, 1939)
Il trionfo del modernismo e della pittura americana (C. Greenberg, Pittura modernista, 1961)
DOPO IL MODERNISMO
Neodada e pop: il paradigma del “pianale” (L. Steinberg, Altri criteri, 1972)
L’aboutness (A. Danto, Arte e significato, 2000)
La crisi dell’ideologia dell’originalità (R. Krauss, L’originalità dell’avanguardia, 1981)
CONCLUSIONE
Arte moderna e avanguardia (da T.W. Adorno, Teoria estetica, 1970)
Postfazione di Giuseppe Di Giacomo
L'autore
Giuseppe Di Giacomo insegna Estetica presso la Facoltà di Filosofia dell’Università di Roma La Sapienza. Si è a lungo occupato dei rapporti tra estetica e letteratura e tra estetica e arti figurative. Tra le sue pubblicazioni, Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento (2003) e Introduzione a Klee (2005).
Claudio Zambianchi insegna Storia dell’arte contemporanea presso la Facoltà di Scienze umanistiche dell’Università di Roma La Sapienza. Tra le sue pubblicazioni La fin de son art: Claude Monet e le Ninfee dell’Orangerie (2000).
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