Recensione di Sarin Marchetti – 10/06/2008
Filosofia della mente, Filosofia del linguaggio
Esce alle stampe, in una nuova e rivoluzionata traduzione italiana, un classico del pensiero filosofico contemporaneo che delinea una ancor fresca ed interessante ‘teoria della mente’, e nello stesso momento rappresenta una preziosa testimonianza di analisi filosofica caratteristica della ‘filosofia del linguaggio ordinario’. La ricchezza di questo volume va infatti ricercata su due piani: quello più manifesto che interessa la filosofia della mente e dell’azione di matrice wittgensteiniana, e quello, altrettanto importante e caratteristico di tale ispirazione questa volta sul piano del metodo, riguardante il tipo di lavoro filosofico che l’autore si propone di fare. Solo non perdendo di vista questo doppio livello di analisi si può apprezzare a fondo la qualità dell’invecchiamento di questo volume ed insieme la sua rappresentatività di un momento peculiare di elaborazione filosofica, ossia la filosofia anglosassone degli anni ’30-’60 dello scorso secolo.
Questa nuova edizione italiana, che succede alla traduzione di Rossi-Landi pubblicata nel 1955 per i tipi di Einaudi con il titolo Lo Spirito come Comportamento, è arricchita dalla prefazione che Daniel Dennett, già allievo di Ryle ad Oxford, ha scritto per la nuova edizione inglese di The Concept of Mind (University of Chicago Press, 2000); nella sua introduzione Dennett individua proprio nell’obiettivo metafilosofico, ciò che sopra abbiamo presentato come secondo aspetto del testo di Ryle, la chiave di volta per l’apprezzamento a tutto tondo di questa opera ancora attuale, forse anche più utile e comprensibile oggi rispetto alla data della sua prima stampa nel 1949. Ryle, insieme ad altre acutissime menti quali John Austin, John Wisdom, Elizabeth Anscombe, Peter Strawson e Norman Malcolm –e naturalmente, dietro e sopra di loro, Ludwig Wittgenstein–, hanno portato avanti, pur con intenzioni, intenti ed esiti diversi un progetto comune di ridefinizione concettuale di cosa conta come problema o questione filosofica, avanzando una innovativa strategia di analisi e risoluzione di tali problemi o questioni centrata in primo luogo sull’attenzione al linguaggio filosofico. Ryle scriveva nella sua autobiografia: ‘…la questione che ci aveva preoccupato negli anni Venti e specialmente negli anni Trenta era: Cosa costituisce un problema filosofico e qual è il modo per risolverlo?’ (p. vii); ed infatti gli articoli precedenti a Il Concetto di Mente, come ad esempio il programmatico Systematic Misleading Expressions del 1932, rappresentano tentativi in cui Ryle cerca di attaccare vari problemi filosofici mostrando come una loro corretta ri-descrizione concettuale tramite una adeguata analisi del linguaggio possa portare se non alla loro soluzione, alla loro dissoluzione. Questa peculiare lezione wittgensteiniana, recentemente riportata alla giusta attenzione grazie ai lavori sul New Wittgenstein, è di importanza strategica per la stessa comprensione delle parti più ‘costruttive’ del volume di Ryle, che troppo spesso sono state utilizzate, o sarebbe meglio dire abusate, sia dagli psicologi comportamentisti, sia dagli scienziati cognitivi. Ciò che rimane centrale e che non va dimenticato è che Il Concetto di Mente è un libro filosofico, e come tale va letto. È inoltre un libro filosofico caratteristico di un certo momento di riflessione filosofica, il cui statuto ed intenti sono spesso in netto contrasto con le tradizioni che hanno invece cercato di appropriarsi di alcune teorie, sezioni o anche solo espressioni di Ryle. Il nostro consiglio, che non fa altro che riecheggiare ciò che filosofi come Stuart Hampshire, Wilfried Sellars o Richard Rorty hanno spesso ricordato, è di leggere e studiare Il Concetto di Mente come un libro scritto in un determinato contesto filosofico e con precisi intenti militanti: sul piano sostantivo una vena marcatamente anti-cartesiana, mentre su quello metodologico l’attenzione alla grammatica delle espressioni filosofiche con il conseguente ridimensionamento – o addirittura eliminazione – di alcuni problemi filosofici come ad esempio quello del rapporto tra mente e corpo.
Se spesso risulta difficile presentare nel breve spazio di una recensione il contenuto o anche le sole linee portanti di un libro, nel caso di Ryle questa è niente meno che un’impresa disperata, ragione per cui cercheremo di presentare lo ‘spirito’ del Il Concetto di Mente attraverso l’analisi di uno degli temi in esso trattati, quello della conoscenza di sé (self-knowledge), cercando di mostrare come dall’analisi di tale questione emergano sia le linee principali della teoria di Ryle, sia importanti elementi caratterizzanti del tipo di lavoro filosofico che l’autore porta avanti.
Il problema generale che Ryle affronta in questo volume è quello di una cartografia della mente, ossia una ri-categorizzazione concettuale dei vari aspetti della vita mentale degli individui a partire non dall’analisi empirico-scientifica sulla mente, bensì a partire dalla massa disomogenea di pratiche, regole e saperi che gli individui stessi hanno sulla mente. In questa indagine ricopre un ruolo centrale il tipo di conoscenza, o più in generale di accesso, che ognuno di noi ha alla propria mente –e di riflesso quello che abbiamo alle menti altrui–, dato che, come osserva Ryle, non ci sono punti di osservazione privilegiati per questo tipo di indagini se non la nostra stessa esperienza in prima persona. Tuttavia, continua l’autore, riconoscere la natura radicalmente prospettica dell’accesso che abbiamo alla nostra mente non significa accettare, come invece è stato fatto senza grandi variazioni almeno da Agostino in poi, che tale atto introspettivo connoti l’accesso ad un mondo interno di fatti privati e misteriosi, con uno statuto metafisico ed epistemologico distinto da quello pubblico e materiale della corporeità e del linguaggio. Nell’attacco all’idea di privatezza della mente portata avanti nel sesto capitolo del libro, intitolato appunto Conoscenza di sé, sono presenti molte delle mosse teoriche che Ryle elabora per disegnare una mappa dei concetti mentali opposta a quella proposta dalla tradizione cartesiano-intellettualista. Se infatti il mito contro cui l’autore si scontra è quello cartesiano del ‘fantasma nella macchina’, secondo cui la sfera del mentale sarebbe radicalmente distinta da quella fisica del corpo e pubblica del comportamento, Ryle rintraccia proprio nel rapporto che abbiamo con il nostro ‘mondo interno’ gli elementi portanti di questa fallace concezione della mente. I due bersagli contro cui Ryle scaglia le sue frecce sono la trasparenza che abbiamo rispetto ai contenuti della nostra mente semplicemente per il nostro essere coscienti e l’immediatezza del loro apprendimento tramite quella peculiare percezione interna che è l’introspezione, entrambi esenti dalla possibilità di errore. Il cotê epistemologico che fa da controparte alla tesi metafisica circa l’irriducibilità del mentale al fisico consiste infatti in un accesso privilegiato al mentale radicalmente distinto dalla conoscenza sensibile che abbiamo agli accadimenti del mondo esterno o anche alla mente delle altre persone, la cui principale caratteristica sarebbe appunto l’incorreggibilità. I ‘pasticci logici’ (p. 151) della trasparenza alla coscienza e dell’introspezione sono smascherati da Ryle dall’interno, ossia mostrando la loro insostenibilità alla luce dei propri stessi requisiti teorici.
Per quanto riguarda la trasparenza della coscienza l’autore respinge l’assunto, falsamente spacciato per senso comune, che questa accompagni ogni nostro processo mentale, apportando sia argomentazioni controfattuali circa la nostra effettiva capacità di registrare ogni accadimento della nostra vita mentale senza la possibilità di ingannarci, sia mostrando come la stessa grammatica del termine ‘coscienza’ sia radicalmente diversa da quella di ‘conoscenza’. Una prima spallata alla teoria della coscienza come trasparenza proviene secondo Ryle dall’esperienza comune: quando siamo coscienti di un determinato pensiero o sensazione ciò non vuol dire che vi siano in atto due processi, ossia quello di esperienza di tale pensiero o sensazione e quello di consapevolezza di tale coscienza, pena un ovvio regresso all’infinito nella caratterizzazione di tale ulteriore consapevolezza. Tuttavia, la principale obiezione a questa immagine della conoscenza di sé cavalca un argomento di carattere logico-concettuale. Sulla falsariga di quanto Wittgenstein in quegli anni insegnava a Cambridge, Ryle mette in questione l’assunto secondo cui asserire di avere coscienza dell’occorrenza di un certo stato mentale equivale a conoscerlo; mentre infatti ha senso affermare che io conosca quale sia la capitale della Francia, poiché è un’informazione i cui criteri di correttezza sono indipendenti dal mio avere accesso a tale informazione, non si può dire lo stesso del mio asserire di sapere di avere il mal di denti o di essere triste. Il sapere di essere triste o di avere mal di denti non è infatti indipendente dal mio provare tali stati mentali o sensazioni, per cui lo spazio logico dell’errore sembra precluso. Tuttavia questo non significa né che la coscienza sia ipso facto immune da errore, né che tutto ciò di cui abbiamo coscienza appartenga ad una dimensione privata a cui solo noi abbiamo accesso. Negare che si possa avere conoscenza del nostro mondo interno non significa, come viene invece sostenuto dalla tradizione cartesiana, che ci sia una fonte ed un accesso epistemico più fondamentale e sicuro di quello che abbiamo sul mondo esterno e sulle menti delle altre persone. In questo punto la critica di Ryle alla trasparenza della coscienza si lega alla critica alla concezione dell’introspezione come una speciale percezione interna. La domanda circa l’accesso introspettivo, per come è formulata dalla tradizione intellettualistico-cartesiana, è mal concepita perché ci chiede un qualcosa la cui logica non è la stessa della risposta che tenderemmo a dare se non fossimo sviati da presupposizioni filosofiche. Utilizzando un argomento esposto nel già citato Systematic Misleading Expressions Ryle vuole mostrare come è la stessa grammatica del termine ‘introspezione’ a metterci sulla cattiva strada, poiché suggerisce che tale accesso al mentale sia uno speciale tipo di percezione. Il fatto che non si può conoscere un nostro stato mentale perché sembra mancare lo spazio logico per l’errore non è dovuto al fatto che abbiamo un accesso infallibile di carattere percettivo ad un regno speciale, ma dal fatto che esperire certe sensazioni, emozioni o anche solo intrattenere certi pensieri significa essere disposti a compiere certe azioni e giustificarle citando tali sensazioni, emozioni o pensieri come ragioni per tali comportamenti. I comportamenti sono direttamente espressivi della vita mentale (per dirla con il linguaggio di John McDowell), e dunque tutto il peso della prova circa l’esistenza di nostri processi mentali ricadrà sulle pratiche e sulla possibilità di giustificare le nostre azioni e non su un misterioso ed incomunicabile processo interno. La conoscenza di sé non consiste in un accesso a dati privati, bensì in una peculiare disposizione ad agire in accordo con i nostri stati interni. Se fallisco a riconoscere un mio certo stato d’animo, il mio errore sarà percepibile in primo luogo al livello del mio comportamento e nel modo in cui giustificherò le mie azioni e le mie reazioni. Sicuramente tale errore è differente da un errore di valutazione circa lo stato d’animo di un’altra persona, ma ciò è dovuto, secondo Ryle, al fatto che noi ci troviamo in una posizione avvantaggiata rispetto alle altre persone essendo sempre a contatto con la nostra mente, ma questa è una differenza solo nel grado di conoscenza. Non c’è nessuna differenza nel tipo di conoscenza che abbiamo della nostra mente e di quelle altrui, proprio perché entrambe sono legate alla pubblicità del comportamento e alla nostra acquisizione di pratiche e di regole comuni con cui impariamo ad interpretare e collegare certi accadimenti mentali con determinate risposte linguistiche e comportamentali.
Su questo specifico punto Ryle potrebbe tuttavia venire corretto, poiché sostenere che mente e corpo non appartengono a due regni distinti non necessariamente significa rinunciare ad un’asimmetria robusta, e non solo di gradazione, tra prima e terza persona per quanto riguarda il rapporto con i propri pensieri, sensazioni o azioni; che il rapporto con il nostro mondo interno sia privilegiato può essere sostenuto anche rifiutando l’idea che tale rapporto sia di carattere percettivo ed incorreggibile. Ci limitiamo qui a segnalare che su questo specifico punto Ryle si discosta quindi significativamente dalle riflessioni di Wittgenstein sulla conoscenza di sé e la natura del mentale: anche rifiutando l’idea secondo cui il mentale sia un regno privato ed incomunicabile Wittgenstein era molto attento a non cadere nell’estremo opposto, ossia sostenere che noi conosciamo i nostri stati interni con gli stessi metodi e con le stesse procedure impiegate dalle altre persone, come se fossimo dei meri spettatori della nostra vita interiore.
Se dunque comprendere in che senso abbiamo accesso alla nostra mente ci dice molto sulla natura stessa del mentale, è altrettanto vero che il tipo di strumenti di analisi con cui studiamo tale conoscenza saranno gli stessi utilizzati per far luce sulla natura del mentale tout court. Questo movimento a cordata doppia tra analisi del particolare ed analisi del generale rientra nel quadro di una tendenza caratterizzante –e talvolta pericolosa– in filosofia, ossia quella di scoprire un particolare dispositivo teorico adatto alla spiegazione di un certo fenomeno o al dissolvimento di una certa perplessità, ed applicarlo per analogia ad altri problemi e perplessità di carattere simile o di ordine più generale; questa tendenza è ben visibile nel testo di Ryle, il cui metodo di analisi grammaticale dei concetti è applicato indiscriminatamente alla risoluzione dei nodi e perplessità legate ai vari aspetti della mente che affronta, come le sensazioni, le emozioni, la volontà e l’immaginazione. È forse questo aspetto ‘totalizzante’ che ha portato Anscombe a sospettare del testo di Ryle, criticandolo di non essere abbastanza attento alle peculiarità specifiche dei vari concetti analizzati, preferendo l’effetto scenico di rivoluzione globale dell’intero panorama della vita mentale a discapito della precisione dell’analisi (non a caso l’allieva di Wittgenstein prediligeva di gran lunga brevi ed intensi saggi o articoli a libri, proprio per il carattere intrinsecamente ecumenico, a suoi occhi, che i volumi con più di cento pagine necessariamente avevano –naturalmente san Tommaso escluso). Pur condividendo alcune perplessità della Anscombe circa la smisurata ampiezza dei temi trattati ne Il Concetto di Mente si potrebbe replicare, a difesa di Ryle, che questo testo andrebbe usato più come un manuale d’orientamento nella complessa selva di problemi legati al mentale che come una sua esaustiva trattazione. Azzardando un parallelismo in realtà non troppo ardito, si potrebbe suggerire di leggere Il Concetto di Mente come una versione solo poco più sistematica, nonostante le molteplici differenze a livello sostantivo, delle Osservazioni sulla Filosofia della Psicologia di Wittgenstein, e dunque non come un corpus dottrinale da accettare o criticare per la sua esaustività, ma come una serie di riflessioni a partire da cui indirizzare ulteriori ricerche filosofiche circa la natura della mente, della conoscenza che abbiamo di essa e del suo rapporto con il pensiero e con l’azione, e nello stesso tempo come un esempio di cosa significa riconoscere, affrontare ed eventualmente risolvere un problema filosofico. Per questo motivo il volume di Ryle rappresenta uno delle massime espressioni della filosofia anglosassone dello scorso secolo, e non può quindi mancare nella libreria di un buono studioso di filosofia.
Per la migliore introduzione al testo di Ryle consigliamo Une Cartographie des Concepts Mentaux di Julia Tanney, pubblicata come introduzione critica alla nuova edizione francese di La Notion d’Esprit (Payot, Paris, 2005); per una raccolta dei saggi più influenti su Ryle e The Concept of Mind rimandiamo invece all’insostituibile Ryle (O. Wood e G. Pitcher ed., MacMillan 1971), il quale contiene anche la breve ma gustosa autobiografia dell’autore.
Indice
Prefazione di Daniel Dennett p. v
Nota del traduttore p. xvii
Introduzione p. 3
Il mito di Descartes p. 6
Sapere come e sapere che p. 20
La volontà p. 58
Le emozioni p. 79
Disposizioni ed avvenimenti p. 112
La conoscenza di sé p. 150
Sensazione e osservazione p. 193
L’immaginazione p. 239
L’intelletto p. 274
La psicologia p. 315
L'autore
Gilbert Ryle (1900-1976) fu uno dei filosofi inglesi più interessanti del ventesimo secolo. Esponente originale della scuola oxoniense di filosofia del linguaggio ordinario, è stato con Austin e Strawson uno dei più rappresentativi esponenti della filosofia analitica di ispirazione wittgensteiniana. Tra i suoi libri più rappresentativi ricordiamo Dilemmas (1954), On Thinking (1979) ed i due volumi di Collected Papers (1971).
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