Recensione di Michele Paolini Paoletti – 26/11/2008
Filosofia della storia, Filosofia morale, Escatologia
L’attesa escatologica sembra connotarsi come una delle dimensioni fondanti della civiltà occidentale. Fecondata dall’apporto della religiosità ebraico – cristiana, questa attesa non deve tuttavia soggiacere a interpretazioni univoche, nell’intento di costituire una sola e inevitabilmente generica “fenomenologia dei tempi ultimi”. Al contrario, paiono sussistere rilevanti differenze tra l’apocalittica di S. Agostino e quella di Hegel o di Marx. Tali differenze non sono semplicemente funzionali al grado di secolarizzazione del contesto storico in cui le varie escatologie vengono elaborate, ma sono delineabili in rapporto a numerosi fattori: l’oggetto dell’attesa umana, la sua collocazione temporale o metatemporale (nella storia o fuori della storia), il mutamento che si produce nel passaggio tra il “prima” e il “poi”, l’agente di questo mutamento. Non da ultimo, poi, bisogna considerare anche lo sfondo teologico – filosofico delle diverse profezie, sviluppate o sviluppabili in termini più o meno concettuali.
In tal senso, il libro di Borghesi è un interessante contributo allo studio dell’escatologia dei tempi moderni, in relazione al suo principale motivo ispiratore: la “terza era” della creazione, l’era dello Spirito Santo, delineata dall’abate cistercense Gioacchino da Fiore nel XII secolo e interpretata in forme sempre più radicalmente immanentistiche dalla linea principale della filosofia tedesca (quella che va da Lessing a Nietzsche). Prima di addentrarci nel cuore dell’opera, tuttavia, seguendo lo stesso Borghesi, bisogna chiarire un punto centrale dell’intera questione: l’interpretazione della modernità come epoca della secolarizzazione. Che posto c’è, infatti, in una civiltà che si autodescrive come interamente secolarizzata, per un portato culturale, come quello escatologico, che affonda le proprie radici nella religione, vale a dire, per buona parte dell’Illuminismo, nel campo dell’irrazionale? L’autore precisa subito, in effetti, che il processo della secolarizzazione e del disincanto religioso connota certamente la modernità, ma non la definisce del tutto: “il processo moderno di ‘autoaffermazione’ (H. Blumenberg) è un processo esso stesso ‘religioso’, dominato da una tensione escatologica verso un tempo di compiuta realizzazione umana” (p. 7). Questa tensione mira alla creazione di una nuova umanità o, meglio, di una meta – umanità ed esige l’eliminazione dei caratteri storici del Cristianesimo, che ostacolano un’autentica comprensione di quest’ultimo, in nome di una sempre più diffusa spiritualizzazione e interiorizzazione della fede e di tutta la realtà. La “fine della storia” così tratteggiata presenta certamente notevoli influssi gnostici, sia che si intenda lo gnosticismo come una possibilità perenne dell’animo umano, sia che lo si identifichi come una metamorfosi del Cristianesimo, che si ripropone, nei secoli, al fondamento di numerose eresie. Non si può seguire Blumenberg, dunque, nel sostenere che l’escatologia moderna e secolarizzata sia un residuo accidentale della visione del mondo totalizzante propugnata nel Medioevo cristiano. Non è possibile separare nettamente una visione “illuminista” della secolarizzazione come affermazione dell’autonomia mondana da una visione più marcatamente “romantica”, che insista nell’imporre un contenuto umano totalizzante al posto della religione ormai abbandonata. L’escatologia illuminista e quella romantica, piuttosto, sembrano dipendere da una metamorfosi della gnosi antica, che si dà come tentativo di autoaffermazione di un genere umano che “deve divenire Prometeo, un semidio, per portare il peso di un’autonomia che ha il sapore di una rivolta” (p. 45) e che si compie nella giustificazione razionale del male, del negativo, come momento necessario per l’affermazione dell’unità spirituale richiesta dalla nuova epoca. Il “tempo nuovo”, in effetti, almeno nella modernità, è certamente la meta finale della storia, ma resta pur sempre dentro la storia: il salto tra il “prima” e il “poi” dipende da quelle stesse forze che, sinora, paiono aver mosso la storia dall’interno. Questo elemento, che Borghesi mette in luce nel primo capitolo dell’opera, sembra contraddistinguere l’escatologia della gnosi moderna e permette di coglierne l’originalità sia rispetto alla gnosi antica che rispetto al Cristianesimo.
L’abate Gioacchino da Fiore è il primo ispiratore di questa tensione alla realizzazione del “Vangelo eterno” (in contrapposizione a quello storico), dal momento che la tripartizione della storia in età del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo inaugura, all’interno della Cristianità occidentale, la possibilità di un nuovo tempus maioris gratiae, cioè il tempo dello Spirito Santo. Pur essendo ancora collocata nell’età del Figlio, l’umanità entrerà ben presto, secondo Gioacchino, nell’era dello Spirito Santo, caratterizzato da un’interpretazione mistica (misticis intellectibus) del Vangelo, da un’umanità formata da “uomini spirituali” e da una Chiesa perseguitata, ma unita nelle proprie componenti dopo la conversione dei greci e dei giudei. La prospettiva di Gioacchino consiste, secondo l’autore (che pare condividere in tal senso la posizione di Henri De Lubac), non solo nell’aver interpretato diversamente la tripartizione agostiniana della storia, parlando di un tempo sub ampliori gratia, ma anche e soprattutto quello di aver spodestato Cristo dal centro della storia, ipotizzando una manifestazione ulteriore della divinità nella Persona dello Spirito Santo. Non si può ignorare il fatto che il presupposto di una simile visione della storia divina e della Trinità sia l’implicita ammissione di uno sviluppo dialettico in seno alla Trinità stessa.
A ogni modo, le tesi gioachimite si accompagnano ad alcune nozioni portanti della mistica tedesca e del protestantesimo nel definire la concezione della storia nella Germania dell’Aufklärung. Anzitutto, viene riscoperta l’idea eckhartiana di una scintilla animae, di una imago Dei presente nel fondo dell’uomo, nella quale Dio ha trasfuso la propria essenza, così da poter ipotizzare un processo di divinizzazione dell’uomo stesso. In secondo luogo, emerge la volontà di una generale renovatio non solo del Cristianesimo (già operata dal Protestantesimo con l’interiorizzazione e la “soggettivizzazione” della fede in Cristo), ma anche dell’intera religione in quanto tale. Se in un primo momento predomina l’ideale di una religione razionale che vada a costituire una chiesa invisibile dei giusti cui la chiesa visibile dovrebbe conformarsi, in epoca romantica si afferma un recupero del panteismo pagano mediante la divinizzazione dell’Uno – Tutto. Il Tutto divino, per Hegel, si concretizza soltanto lì dove la contraddizione è più radicale, lì dove il dolore e la morte del particolare in quanto particolare permettono la realizzazione dell’universale. La filosofia hegeliana, dunque, deve essere intesa come l’apice dell’escatologia immanentista, poiché pretende di risolvere l’intero processo della storia nella definitiva autocomprensione dello Spirito, che “toglie” il non – spirituale in quanto tale e lo risolve nella totalità del dramma dell’Assoluto. Non è qui il caso di esaminare nello specifico la vastità delle tematiche affrontate nel libro: dall’evoluzione della considerazione religiosa in Hegel alla ripresa, nella sinistra hegeliana e in Marx, del travaglio dello Spirito in vista di una palingenesi del mondo, sino ad arrivare alla scomparsa, nell’arte contemporanea, dell’ideale della rappresentazione. Bisogna evidenziare, piuttosto, sia pure in maniera sintetica, il fallimento della prospettiva escatologica in Nietzsche: pur non desiderando la salvezza nella storia né oltre la storia, l’autore del Così parlò Zarathustra scivola nel paradosso di volere un superamento dell’uomo nell’ottica necessitarista dell’eterno ritorno dell’identico, fondando non già la fine della storia, ma l’inizio di un’altra storia, ammessa e non concessa la possibilità che si possa dare un inizio come novum nell’ottica suddetta. Il contrasto tra la redenzione di Hegel e lo scacco di Nietzsche è stato riproposto, negli ultimi anni, dal dibattito tra Francis Fukuyama e Samuel Huntington, che si ispira alle tesi di Oswald Spengler. Se il crollo del Muro di Berlino del 1989 sembrava dar ragione alla teorizzazione, da parte di Fukuyama, di una “fine della storia” all’insegna del nuovo ordine democratico mondiale, i fatti dell’11 settembre 2001 paiono inclinare la cultura occidentale a diventare cosciente della propria decadenza (cioè della propria modernità come tempo di decadenza), nonché a rinnegare l’esistenza di una “forma”, di un “fine” dell’umanità, in nome di un relativismo delle civiltà. La soluzione spengleriana, che rimane pur sempre opzionale, può essere evitata, per Borghesi, se la modernità opera una critica di se stessa, divenendo una “modernità fattasi riflessiva”, come suggerisce Habermas. L’ordine democratico, allora, non può essere il nuovo “fine della storia”, ma il luogo della traduzione e della mediazione continua delle posizioni dei suoi membri, che possono anche attingere alle riserve di senso della religione. Il vero fine di questo ordine è la ricerca del “difficile e doveroso equilibrio in cui le duo civitates (Agostino) possono convivere e incontrarsi, evitando la reductio ad unum che è al centro del modello gioachimita – hegeliano”: “in questo difficile equilibrio risiede l’originalità dell’Occidente nella scena del mondo” (p. 309).
Indice
Introduzione
Parte prima. Il dibattito sulla secolarizzazione
I. Secolarizzazione ed escatologia. La controversia sul moderno
Parte seconda. L’età dello Spirito
II. Gioacchino da Fiore e la metamorfosi della città di Dio
III. Da Lessing a Hegel. Lo Spirito Santo come “spirito del mondo”
Parte terza. Idealizzazione di Dio e idealizzazione del mondo
IV. La nuova Riforma. Il superamento hegeliano del cattolicesimo e del protestantesimo
V. L’arte nella “età dello Spirito”
Parte quarta. Interiorizzazione dell’uomo – Dio e divinizzazione del genere (Gattung)
VI. “Se lo spirito conosce lo spirito”. Fede esteriore e fede interiore in Hegel
VII. La cristologia come antropologia. L’itinerario della sinistra hegeliana
Parte quinta. Il tramonto di un’idea
VIII. Tempo della fine, tempo della pienezza. L’apocalittica post - hegeliana
Conclusione
Nota redazionale
Indice dei nomi
Gli autori
Massimo Borghesi è professore ordinario di Filosofia morale all’Università degli Studi di Perugia. Tra le sue pubblicazioni: La figura di Cristo in Hegel (1983), Romano Guardini. Dialettica e antropologia (1990, 2° ed. 2004), L’età dello Spirito in Hegel. Dal Vangelo “storico” al Vangelo “eterno” (1995), Posmodernidad y cristianismo (1997), Il soggetto assente. Educazione e scuola tra memoria e nichilismo (2005), Secolarizzazione e nichilismo. Cristianesimo e cultura contemporanea (2005).
2 commenti:
Il Vangelo eterno cui alludeva Gioacchino Da Fiore è quello intuito direttamente senza mediazioni ulteriori dei tempi; Gioacchino lo riteneva estromesso dal messaggio evangelico della Chiesa Cattolica del suo tempo, dominata da eventi terreni che consentivano solo verità indirette: la Chiesa incapace di testimoniare, capace solo di riferire; non garanzia di riti solo di conoscenze dei riti, non di sacerdoti solo di preti, non di luoghi di culto solo di esempi di luoghi di culto.
I vertici ecclesiastici considerarono tali affermazioni non pretestuose ma ignoranti e disconoscenti, definendone origine in errore dottrinario di stesso affermatore, secondo i sacerdoti inquirenti sviato da pensiero rigoroso su Trinità e Rivelazione: per costoro Gioacchino Da Fiore aspettava anche l'impossibile dalla Chiesa, che a detta loro egli accusava di differimento ma perché egli stesso si costringeva a differire con le eccessive ambizioni, ragion per cui sempre a detta di costoro avrebbe dovuto meglio intendere presente religioso del suo tempo e approfondire culturalmente ed intellettualmente la distinzione tra secondo elemento trinitario e rivelazione ovvero Verbo, senza chiedere che quest'ultimo potesse corrispondere in tutto ad elemento di formula trinitaria.
D'altronde il Cattolicesimo era dominato da eterodossie, che da Chiesa Orientale erano giudicate non cristiane, per le quali la Maestà ed Onnipotenza divina sarebbero ugualmente sia in Dio Padre che in Dio Figlio ed inoltre il clero cattolico era contestato talvolta d'esser finanche falso.
A molti moderni e contemporanei filosofi cattolici Gioacchino Da Fiore risulta fautore di progresso ma questi altri non sanno dell'esito anche distruttore (e sarcastico!) del suo apostolato: per i suoi nemici un futuro prossimo di vacuità ed uno successivo di ritorno ma di simulacri ed infine proprio niente.
Gioacchino Da Fiore riteneva che la Cristianità fosse divisa tra tendenze giudaiche e giudaizzanti e domini di greci e grecizzati e pensò che vi fosser tali due poteri in contesa ad impedire presente soddisfacente alla Chiesa Cattolica, senza egli avvedersi però che non c'era più alcunché di uguale tra molti luoghi europei di culto occidentali ed orientali e relative comunità; per questo gli ortodossi ne ritenner nullo l'invito anche perché a lui imputarono di non aver capito tutto delle ambizioni di ebraismo e giudaismo in Europa e di non aver saputo intravedere tutta per intero l'ambizione di parte dei giudei di una Europa senza religiosità europea solo euroasiatica e di confonder soprattutto rifiuti greci con litigiosità avverse a religiosità giudaiche.
Gran parte dell'Italia del suo tempo era di fatto ancora ortodossa però il pensiero di Gioacchino fu saccheggiato e tuttora lo è da intellettuali antiortodossi poi che spesso si fanno anticristiani.
(...)
MAURO PASTORE
La fine della storia che per Gioacchino Da Fiore era anche solamente una beffa solenne per i cattivi cattolici dei suoi tempi, tutt'altra cosa essa significa nel pensiero contemporaneo che aveva identificato nei destini storici ormai uguaglianze future per mancanze di alternative effettive; così molti intellettuali europei stimavano, notando che l'assolutismo hegelista recava senso pur in contraddizioni immancabili e quindi ritenendone il senso eterodotto, per altre motivazioni da quelle addotte da medesimi hegelisti, che illusi di aver ottenuto segreto accesso al mistero delle umane vicende erano invece da esse captati ma in stasi che pareva loro conferma!
In entrambi i casi, i poteri ecclesiastici ne dedussero che si trattasse di vuota ulteriorità, gioachimiti ed hegelisti insomma andati "oltre il Cristo", fuori da verità di Rivelazione! Molti intellettuali italiani e non solo italiani non considerano la radicale oppositività in entrambi o ciascuno dei movimenti, di cui assumono idee o idealità come affascinati e soggiacendo imprudentemente ad influssi ad essi stessi non noti.
La medesima stasi individuata dagli studiosi di storia e filosofi europei fu anche individuata da studiosi di filosofia e storici giapponesi e nipponici ma non senza trovarvi un altro, recondito senso: essa era la conseguenza di eventi troppo negativi.
Quanto nella letteratura italiana del Secolo Ventesimo indirettamente testimoniato, cioè di una fine affatto relativa e di una conoscenza in tutto nuova, la apparizione de "La storia degli altri", si ritrova pure e stavolta intuitivamente direttamente pensato, nelle successive riflessioni, globali — invece le relative testimonianze precedenti erano locali o particolari — su La fine della Storia:
il mondo risaputo non esiste più, non tutto è finito con esso, non tutto altramente destinato, ma tutto con un significato nuovo!
MAURO PASTORE
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