sabato 28 febbraio 2009

Galzigna, Mario (a cura di), Foucault, oggi.

Feltrinelli, Milano 2008, pp. 308, € 20,00 [ISBN 978-88-07-10437-4]

Recensione di Luca Maria Possati

Storia della filosofia contemporanea

«Io, gli autori che amo, li utilizzo». Così, a chi gli chiedeva quale fosse il suo rapporto con Nietzsche, aveva risposto Michel Foucault nel corso di un’intervista del 1975. Il solo segno di riconoscenza che si possa testimoniare a un autore – diceva il filosofo di Poitiers – è utilizzarlo, metterlo alla prova, renderlo uno strumento del proprio appetitus philosophandi, deformarlo, «farlo stridere». La fedeltà non c’entra.
Ma la realtà delle cose è un’altra. A dispetto di Foucault, sembra essere quasi il destino d’ogni autore quello di essere fossilizzato, oggettivato, spartito tra diversi gruppi di interpreti, pronti a creare e a sposare nuove ortodossie, formule da ripetere sotto forma di slogan da proclamare in continuazione, da svendere sulle piazze accademiche più accreditate. Il pensiero scompare, restano gli oggetti. Tornare al pensiero, alla vivacità dell’idea, questo è il compito vitale del filosofo. «Io sogno – diceva Foucault a Henri Lévy nel 1977 – l’intellettuale distruttore delle evidenze e delle universalità, colui che individua e indica nelle inerzie e nelle costrizioni del presente i punti di debolezza, le aperture, le linee di forza, colui che, senza tregua, si sposta, senza che si sappia di preciso dove sarà né cosa penserà domani, perché è troppo attento al presente» (p. 41).
In quest’ottica, il pregio del volume collettivo Foucault, oggi (Milano, Feltrinelli, 2008, p. 308), a cura di Mario Galzigna, sta nello sforzo di aprire una strada diversa nella sterminata letteratura foucaultiana. Una strada che vuole sfruttare il potenziale messo a disposizione da Foucault – la sua opera, quel che egli stesso amava definire una «cassetta degli attrezzi» – per capire il mondo attuale, con le sue lacerazioni e i suoi drammi. La società globalizzata, il nuovo «Leviatano». Una macchina analitica per un’«ontologia di noi stessi».
Ma che cos’è, nella sua materialità, l’opera di Foucault? Corsi, libri, «linee di articolazione» espresse nei Dits et écrits. Un materiale eterogeneo, difficile, che chiede una lettura attenta e critica, consapevole delle difficoltà di un sapere che si costruisce attraverso continui spostamenti, passi avanti e passi indietro, promesse non mantenute, ri-problematizzazioni. Non si tratta allora – e arriviamo così al taglio fondamentale del volume che stiamo recensendo – di fare un commentario, di proporre un’altra interpretazione, un’esegesi, ma di creare «un libro mobile, plurale» (p. 7), che vuole correre un rischio, uscire da sé e collocarsi nella radicalità di questo pensiero e del suo intrinseco militantismo.
Diagnosticare il presente di una cultura è il grande compito dei filosofi. Adempierlo significa aprire lo spazio del pensiero genealogico, pensiero dei limiti e del loro superamento, pensiero – in ultimo luogo – del soggetto e dei suoi processi di costituzione, in quanto prodotto dei dispositivi del sapere e del potere. Come mettono in rilievo i saggi di Mario Galzigna, «La disciplina e la cura», e di Remo Bodei, «Il dire la verità nella genealogia del soggetto occidentale», il soggetto foucaultiano non è costituente, ma costituito, lontano tanto dagli ego della fenomenologia e dai Dasein dell’esistenzialismo, quanto dai motivi kantiani all’opera negli scritti di Lévi Strass – un «kantismo senza soggetto trascendentale», diceva Ricoeur – e in tutto il cosiddetto strutturalismo. Con Foucault – per dirla in breve – assistiamo al passaggio dal soggetto alle pratiche della soggettivazione, quelle pratiche che storicamente hanno costruito l’ego trascendentale teorizzato da Kant, da Husserl, il cogito di Descartes così come la nostra fede in esso. Fin dall’inizio – con la sua tesi sulla antropologia kantiana – Foucault apre una crisi nell’idea di trascendentale, in chiave antiheideggeriana. Mettere a fuoco quella specifica commistione tra empirico e trascendentale che egli vede all’opera nel testo kantiano significa avviare una dissoluzione della soggettività costituente imposta dalla nostra cultura e aprire le porte ad esperienze diverse, come quella del buddismo zen.
La «critica della questione antropologica» resta un punto fondamentale nel lungo itinerario di Foucault, e forse una chiave di accesso feconda a molte sue tematiche. Ad essere in ballo è il senso dell’imperativo «conosci te stesso». Foucault ci vede il desiderio di produrre soggettività, contrassegno dell’imperialismo dell’uomo occidentale. Ma la verità per Foucault è sempre rischiosa, è sempre una sfida al potere, all’autorità della tradizione, il rifiuto delle menzogne ufficiali. Verità è parrhesia: sovvertimento di sé, de-prensione, de de-prendre de soi, ma al contempo è il coraggio di un modificarsi, di un auto-sovvertirsi. L’ultimo Foucault elabora questa lunga meditazione sulla verità a contatto con i modelli proposti dalla filosofia antica, «che tende a trasformarsi piuttosto che a formare – spiega Remo Bodei nel saggio dedicato alla genealogia del soggetto occidentale – a mutare la direzione dell’anima piuttosto che ad aumentare la conoscenza, a cambiare la vita» (p. 127).
Il problema è che nella storia del pensiero occidentale questa scelta del bios filosofico come terapia dell’anima, modificazione di sé, è scomparso poco per volta con il cristianesimo prima e il cartesianesimo poi. Mosso da questa convinzione Foucault opera una vera azione genealogica, in perfetto stile nietzscheano: la conoscenza oggettiva ha poco per volta superato e cancellato la spiritualità. Nell’Ottocento, tuttavia, il bisogno di spiritualità rinasce, con Hegel, Nietzsche, Schelling, Schopenhauer, lo Husserl della Krisis, Heidegger, fino a Lacan: «Ci si accorge, infatti, che il sapere non basta, se staccato dalla vita o dalle sue manifestazioni concrete nella storia» (p. 130). Il progetto anticartesiano contemporaneo – scrive Bodei – «consiste nel rinunciare a concepire se stessi come una res cogitans autocentrata, un sole psichico attorno al quale ruota il mondo, nel cogliere se stessi – alla maniera di Valéry – come qualcosa che si costruisce mentre sfugge, che si situa paradossalmente solo attraverso la dislocazione in un altro luogo e in un altro luogo e in un altro tempo, che plasma la sua identità in una lotta incessante con la propria alterità» (p. 131).
Come sottolinea giustamente Mario Vegetti, a partire dal 1980 è avvenuta una volta radicale nella ricerca di Foucault, con i due corsi al Collège de France sul pensiero antico, poi culminata con la pubblicazione nel 1984 dei due volumi della Storia della sessualità. Foucault – scrive Vegetti - «passava qui dallo studio dei dispositivi di assoggettamento e di soggettivazione messi in opera dal potere e dal sapere all’etica delle pratiche di autoliberazione del soggetto (che fino ad allora aveva concepito solo come il “prodotto passivo delle tecniche di dominazione”)» (p. 150). Insomma, “costruendo” l’antico, più che scoprendolo, Foucault pone seriamente quale filo conduttore della propria ricerca il tema della cura di sé – intesa come liberazione di sé – e opera un cambiamento profondo nella propria metodologia, pur mantenendo tutta la vocazione critica e politica del suo pensiero. Momento centrale in questo processo è l’interpretazione dello stoicismo romano e delle sue pratiche intellettuali – epistolari, scrittura di sé, autoesame, che Foucault contrappone alla pratica cristiana della confessione resa a superiore, ad un’autorità che sovrasta. Proprio grazie a questa analisi avviene il passaggio dal binomio assoggettamento-soggettivazione (le forme della soggettività sono prodotti delle forme di dominio e di sapere che governano gli insiemi sociali) all’autocostruzione liberata dell’io senza storia e contro la dinamica politica dei saperi. Ma come si realizza? Foucault ha ben chiari i limiti dello stoicismo e critica aspramente il freudismo e il marxismo (altri due modelli di liberazione). Quale strada sceglie?
Tale interrogativo motiva il saggio di Arnold I. Davidson, «Michel Foucault e la tradizione degli esercizi spirituali». La liberazione politica passa attraverso il compito urgente di un’etica del sé. È forse il ritorno alla solitudine dell’ideale romantico dell’io ribelle? No. Il termine chiave per Foucault è resistenza perché – come afferma egli stesso nella Storia della sessualità – la possibilità della resistenza è costitutiva di qualsiasi relazione di potere. Viene a galla con sempre maggiore insistenza – come mostra Davidson – il problema della volontà e degli esercizi spirituali, il compito – accennato poc’anzi – di reintegrare la spiritualità nella filosofia. Ma non si tratta di adeguarsi a valori trascendenti: «Foucault cercava una morale de l’inconforte, un’etica dell’inquietudine per rendere mobile l’immobilità» (p. 175). Davidson – aprendo in tal modo una traccia di ricerca che andrebbe approfondita – la definisce una estetica dell’esistenza: «L’estetica dell’esistenza strappa dei segni di esistenza dal loro sonno, dalle tenebre; essa è soprattutto una creazione, una creazione di se stessi. E come la vita di Socrate l’estetica dell’esistenza porta i lampi di possibili tempeste» (p. 176). Non una morale del dovere, ma un’etica della trasformazione, una tecnica del sé, «una tecnica di vita che comporta un nuovo atteggiamento verso noi stessi, un atteggiamento critico» (p. 176).

Indice

Introduzione di Mario Galzigna
Leggere Foucault, oggi di Alessandro Fontana
La disciplina e la cura di Mario Galzigna
Michel Foucault e lo psichiatra di Vanna Berlincioni e Fausto Petrella
Il dire la verità nella genealogia del soggetto occidentale di Remo Bodei
Identità, natura, vita: tre decostruzioni biopolitiche di Judith Revel
L’ermeneutica del soggetto di Mario Vegetti
Michel Foucault e la tradizione degli esercizi spirituali di Arnold I. Davidson
Michel Foucault e l’Europa di Yves Hersant
Dalla ragion di Stato al liberalismo: genesi della “governamentalità” moderna di Michel Senellart
Biopolitica e filosofia a partire da Michel Foucault di Roberto Esposito
Il soggetto che non c’è di Pier Aldo Rovatti
Biopolitica, sovranità, lavoro. Foucault tra vita nuda e vita creativa di Ottavio Marzocco
Fenomenologia e genealogia di Elisabetta Basso
Foucault e Kant di Roberto Nigro
Verità, soggettività, filosofia nell’ultimo Foucault di Frédéric Gros


Il curatore

Mario Galzigna insegna all’università Ca’Foscari di Venezia Storia della scienza ed Etnopsichiatria e psichiatria clinica. ha svolto attività seminariali presso l’École des hautes études en sciences sociales di Parigi e all’Università di Ginevra. È autore di numerosi articoli e saggi.

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venerdì 27 febbraio 2009

Paternoster, Alfredo, Il Filosofo e i Sensi. Introduzione alla Filosofia della Percezione.

Roma, Carocci, 2007, pp. 144, ISBN 978-88-430-4397-2.

Recensione di Alessandra Melas – 27/02/2009

Filosofia della percezione, psicologia, neuro-scienze.

Il testo di Alfredo Paternoster si presenta come la prima introduzione in lingua italiana alla Filosofia della Percezione e costituisce certamente un brillante esempio di fusione tra riflessione teorica e ricerca empirica.

Sono quattro i generi di domande che soggiacciono all’analisi di un campo allo stesso tempo affascinante e spinoso come quello della percezione:

Questioni esplicative: come funziona la percezione?

Questioni metafisiche: quali oggetti sono coinvolti nella percezione? Come è fatto il mondo?

Questioni semantiche: qual è il significato degli enunciati percettivi?

Questioni epistemologiche: quanto è affidabile la percezione?

Se sembra che la scienza abbia il compito di rispondere alla prima domanda e di spiegare, pertanto, il funzionamento dei meccanismi alla base dei processi percettivi, alla filosofia sembra spetti il compito di rispondere alle altre domande. Tuttavia, come sostiene l’autore, tale divisione appare alquanto semplicistica e emerge l’idea secondo cui non sia possibile rispondere ai problemi filosofici senza avvalersi del supporto delle varie discipline scientifiche coinvolte nello studio della percezione, come la psicologia cognitiva e le varie neuroscienze.

A mio avviso, è certamente in questo senso che l’autore inserisce il suo lavoro all’interno di quella corrente di pensiero oggi conosciuta come naturalismo cognitivo, capace di fungere da sfondo ai tentativi di naturalizzazione del mentale oggi condotti dalle scienze cognitive.

Il testo di Paternoster si apre con un capitolo dedicato ai più spinosi problemi della percezione. Cruciale e ricco di spunti appare il paragrafo dedicato alla distinzione tra percezione e sensazione, distinzione che viene tracciata, secondo il suggerimento dell’autore, attraverso tre differenti percorsi.

In primo luogo, ogni percezione si distingue per aspetto fenomenologico e aspetto intenzionale. Nel primo caso ci soffermiamo sulla sensazione soggettiva che ognuno di noi ha del percepito, nel secondo caso ci soffermiamo sugli stati percettivi come atti che hanno un preciso contenuto esterno (l’oggetto visto, udito, sentito, gustato, ecc.): «vedo (atto) un albero (oggetto), così come, ad esempio, desidero (atto) un dolce (oggetto). Da questo punto di vista gli stati percettivi sono stati intenzionali, cioè stati che vertono su qualcos’altro» (p. 20). L’intenzionalità, infatti, altro non è che la capacità degli stati mentali di vertere su qualcosa e gli stessi stati percettivi sono intenzionali, in quanto non si può percepire senza percepire qualcosa di preciso. Sembrerebbe, insomma, che l’impostazione fenomenologica parli di sensazione e graviti attorno ai vissuti di prima persona e l’impostazione intenzionale verta sulla percezione e sul mondo esterno.

Non esiste, tuttavia, una netta distinzione tra questi due ambiti e non è ammessa la percezione di un presunto oggetto esterno senza un dato vissuto fenomenologico: «ogni atto percettivo è accompagnato da un vissuto in prima persona: non c’è percezione senza sensazione» (p. 17). Esiste, pertanto, uno stretto nesso tra componente intenzionale e componente fenomenologica. Ma di che natura è questo legame? L’interpretazione intenzionale è in grado di spiegare appieno il problema della percezione, inglobando al suo interno anche l’aspetto fenomenologico?

A seconda della risposta data a quest’ultimo quesito si hanno teorie filosofiche della percezione differenti. Schematicamente l’autore distingue tre teorie fondamentali: teorie intenzional-rappresentative forti, teorie intenzional-rappresentative deboli, teorie intenzionali non rappresentative. I sostenitori della teoria rappresentativa, sia nella versione forte sia in quella debole, condividono la tesi secondo cui gli stati di esperienza percettiva sono rappresentazioni del mondo, cioè l’idea secondo cui i soggetti non si trovano in relazione diretta con l’ambiente circostante ma con rappresentazioni mentali. Inoltre entrambe le teorie rappresentative sostengono l’idea secondo cui sia l’aspetto fenomenologico che quello intenzionale vadano inclusi in una buona teoria della percezione. Tuttavia, la teoria intenzional-rappresentativa forte sostiene la riducibilità dell’aspetto fenomenologico all’aspetto intenzionale, mentre la teoria nella sua versione debole sostiene la non riducibilità dell’aspetto fenomenologico a quello intenzionale.

Contrariamente, le teorie intenzionali non rappresentative sostengono l’idea secondo cui nell’esercizio delle facoltà percettive i soggetti si troverebbero in diretta relazione con il mondo e rifiutano l’idea che l’aspetto fenomenologico sia rilevante per lo studio della percezione.

Altre importanti questioni legate al problema della percezione sono le seguenti: come è possibile che le percezioni siano allo stesso tempo determinate dai nostri sensi e siano anche “pezzi di mondo”? Com’è possibile che le nostre sensazioni, che appaiono così personali e soggettive, vertano su qualcosa di esterno? Questa questione è strettamente legata a ciò che è noto come “problema di interfaccia” e ad un’altra questione centrale quale quella del “realismo diretto/indiretto”, che funge da sottofondo a gran parte del testo di Paternoster.

Ma vediamo un altro senso in cui si può distinguere percezione da sensazione: la sensazione può essere considerata, infatti, un primitivo stadio del processo percettivo e la percezione uno stadio successivo di elaborazione delle informazioni. L’immagine della sensazione come intermediario della percezione trova la sua origine nell’empirismo inglese. Basti pensare allo stesso David Hume che parlava, al riguardo, di impressioni di sensazione e impressioni di riflessione, considerando le prime uno stadio primitivo delle seconde.

Un altro modo di caratterizzare la distinzione tra percezione e sensazione è quello basato sulla dicotomia kantiana tra spontaneità e ricettività. All’interno di questa distinzione la sensazione è mera ricettività, ossia una facoltà puramente passiva. Al contrario la percezione sarebbe una facoltà attiva che prevede lo sfruttamento di precise categorie concettuali.

Le ultime due vie di distinzione sollevano l’annoso problema filosofico del concettualismo o anti-concettualismo della percezione, e il problema della presunta modularità dei processi percettivi primari. Entrambi questi problemi sono brillantemente affrontati dall’autore, in maniera dettagliata, rispettivamente nel III e IV capitolo del libro.

La parte centrale del lavoro di Paternoster approfondisce le principali teorie filosofiche e psicologiche sulla percezione. La sezione riguardante le teorie filosofiche, precisamente il secondo capitolo, è costituita da un insieme di paragrafi che introducono i principali approcci filosofici al problema della percezione. Ciascun paragrafo presenta i nodi cruciali della teoria, le principali critiche e le repliche dei suoi sostenitori.

La prima teoria filosofica presentata è la cosiddetta sense-data theory. Per utilizzare le stesse parole dell’autore «la teoria dei sense-data si inscrive nel quadro teorico generale, caratteristico dell’empirismo inglese del Sei-Settecento, secondo cui il mondo viene percepito indirettamente per il tramite delle sensazioni» (p. 26).

La seconda teoria presentata, ossia la teoria avverbiale delle percezione, è innanzitutto una teoria semantica degli enunciati percettivi. Precisamente la teoria sostiene che un enunciato della forma “X percepisce un gatto”, debba essere parafrasata come “X percepisce gattamente”. Come dice lo stesso Paternoster «l’oggetto apparente del verbo percettivo è in realtà un attributo del mio stato psicologico» (p. 33). Questo colloca chiaramente la teoria avverbiale della percezione tra le teorie non intenzionali.

La terza teoria presentata, ossia la teoria causale delle percezione si basa sull’intuizione secondo cui se ho esperienza percettiva dell’oggetto allora c’è un oggetto nel mondo che ha causato la mia esperienza. Si tratta di una teoria rappresentativa, in quanto sostiene che le informazioni che abbiamo del mondo siano mediate dalla percezione. Si tratta, inoltre, di una teoria intenzionale in quanto l’atto percettivo è distinto dall’oggetto, contrariamente a quanto accade nel caso della teoria avverbiale.

L’ultima teoria filosofica presentata è quella disgiuntiva, nata in forte polemica con la teoria causale che a sua volta non sembra distinguere abbastanza tra il caso allucinatorio e il caso genuinamente percettivo. La teoria disgiuntiva, infatti, si fonda su una marcata distinzione tra l’aspetto fenomenologico e l’aspetto intenzionale. Così, per usare ancora una volta le parole dell’autore «l’enunciato ‘A X sembra di percepire O’ non implica che X percepisce un O» (p. 43).

Dopo la presentazione delle principali teorie filosofiche della percezione troviamo due paragrafi in cui vengono approfondite rispettivamente la controversia tra realismo diretto e realismo indiretto, e la teoria intenzionalista. La controversia tra realismo diretto/indiretto nasce all’interno delle teorie intenzionali, che distinguono, appunto, l’atto della percezione dal contenuto percepito. Sia il realismo diretto che quello indiretto assumono l’esistenza di un mondo indipendente da noi. «La questione su cui si dividono è se il mondo possa essere percepito direttamente oppure no» (p. 46). Il realismo diretto, di cui la teoria disgiuntiva rappresenta un buon esempio, sostiene un rapporto diretto con il mondo, contrariamente il realismo indiretto, di cui la teoria dei sense-data è il paradigma, sostiene un rapporto mediato con il mondo. La teoria intenzionalista si presenta, invece, come una via di mezzo tra il realismo diretto e il realismo indiretto, via di mezzo etichettabile come realismo rappresentativo. Non si tratta di realismo diretto poiché l’oggetto della percezione non è il mondo, ma piuttosto rappresentazioni di questo; non si tratta di realismo indiretto poiché i contenuti degli stati percettivi non sono assimilabili a oggetti che separano la mente dal mondo.

La sezione di carattere filosofico si conclude con il III capitolo, interamente dedicato alla questione delle relazioni tra vedere e pensare, ossia al problema del confine superiore delle percezione.

Usando le parole dello stesso Paternoster, possiamo affermare che «chiedersi dove finisce la percezione equivale a trovare un modo plausibile di tracciare una distinzione tra ciò che è propriamente intrinseco alla percezione e quelle che sono invece le sue conseguenze. Genericamente parlando, le conseguenze della percezione sono, da un lato, credenze o giudizi, dall’altro azioni» (p. 57).

All’interno di questo capitolo l’autore propone una carrellata delle teorie che si sono dedicate al problema della delimitazione della percezione. Il primo paragrafo è dedicato alla distinzione tra visione semplice e visione epistemica. Secondo questa distinzione avanzata da Dretske nel 1969, il vedere gli oggetti sarebbe un “vedere semplice”, ossia vedere qualcosa in modo preconcettuale, mentre vedere fatti corrisponderebbe ad un “vedere epistemico”, ossia vedere tramite una mediazione concettuale, con la conseguenza che la percezione semplice sarebbe la causa della percezione epistemica, ossia delle credenze percettive.

Alcuni hanno anche sostenuto l’idea secondo cui i livelli percettivi richiedono tre livelli di analisi: prima del livello epistemico, ma dopo il livello semplice, sarebbe opportuno, pertanto, introdurre «un livello intermedio protoproposizionale nel quale il mondo ci è dato come già strutturato in oggetti, proprietà e relazioni, senza che ciò richieda lo sfruttamento di concetti, conoscenze, processi di pensiero esplicito» (p. 66). Questo riporta la discussione alla già citata questione filosofica sulla possibilità di una percezione non concettuale, almeno nel suo stadio primitivo.

L’intero IV capitolo è dedicato alle teorie psicologiche della visione. All’interno di questa sezione viene analiticamente descritto il dibattito sulla visione passando per le due teorie fondamentali in competizione negli anni Ottanta del secolo scorso: la teoria computazionale e la teoria ecologica.

Secondo la teoria computazionale della visione il processo percettivo è un processo in cui l’organismo partecipa attivamente all’elaborazione dell’input che proviene dall’ambiente. Questo processo costruttivo avviene per mezzo di computazioni, che, per la maggior parte dei sostenitori di questa teoria, hanno luogo all’interno di moduli incapsulati, che hanno la caratteristica di essere estranei alle conoscenze e credenze del sistema nel suo complesso.

Paternoster evidenzia brillantemente il legame tra questa teoria psicologica della visione e la questione filosofica del contenuto non concettuale della percezione: «l’interesse filosofico di questa tesi risiede nel suo evidente legame con la teoria del contenuto non concettuale della percezione: nella misura in cui i concetti sono tipicamente considerati i costituenti atomici delle credenze, dire che la visione primaria è impermeabile alle credenze è come dire che elabora informazioni in modo non concettuale» (p. 85).

È indubbio che quest’approccio possa essere annoverato sotto la struttura teorica del costruttivismo, secondo cui il processo percettivo, come appena osservato, sarebbe un processo in cui l’organismo partecipa attivamente all’elaborazione dell’informazione proveniente dall’ambiente. Al contrario, la teoria ecologica si basa sull’assunto secondo cui l’unico contributo dell’organismo durante il processo percettivo sarebbe una sorta di registrazione passiva, o quasi, delle informazioni contenute nello stimolo ambientale. Questa teoria sottolinea il ruolo fondamentale dell’ambiente, relegando il contributo dell’organismo ad un ruolo marginale. Chiaramente, anche in questo caso, siamo in presenza di una teoria che presenta l’attività percettiva come non-concettuale.

Nell’ultimo paragrafo del capitolo Alfredo Paternoster presenta alcune recenti scoperte neurofisiologiche di rilievo e illustra due approcci che incarnano, in dosi differenti, la sintesi tra teoria computazionale e teoria ecologica: la teoria delle rappresentazioni visuomotorie (teoria computazionale duale) e il paradigma sensomotorio.

Una delle basi di convergenza tra il paradigma computazionale e quello ecologico è rappresentato dalla recente scoperta neurofisiologica sull’esistenza di due cammini della corteccia visiva, il cammino “ventrale” e il cammino “dorsale”. Secondo Milner e Goodale, il cammino dorsale sarebbe associato al controllo visivo dell’azione, mentre il cammino ventrale sarebbe associato all’identificazione dell’oggetto. Naturalmente esistono dati empirici su cui sono basate queste interpretazioni, dati attinti dalla ricerca neuropsicologica e neurofisiologica.

In che senso questa scoperta giova alla sintesi tra computazionalismo ed ecologismo? Per usare le parole dell’autore, possiamo dire che «l’idea è che ciascuna delle due cornici teoriche sia corretta relativamente a uno specifico dominio visivo. Il computazionalismo è una buona teoria del riconoscimento dell’oggetto, di quella che potremmo chiamare “visione finalizzata alla cognizione”, che corrisponde alla via ventrale; l’ecologismo descrive bene la visione orientata al controllo motorio, realizzata nella via dorsale». Tuttavia, come ancora lo stesso Paternoster sostiene, «articolare la sintesi tra ecologismo e computazionalismo su questa base, […], sarebbe un’operazione un po’ semplicistica, superficiale» (p. 97).

Sarebbe certamente più verosimile se anche il controllo dell’azione richiedesse processi di elaborazione di informazione. Ed è proprio questo che viene proposto dai sostenitori del paradigma computazionale duale, che introduce, appunto, il concetto di rappresentazione visuomotoria come schema anticipatorio all’azione. Diversamente, secondo il paradigma sensomotorio, la percezione sarebbe un tipo di attività possibile solo in virtù del possesso di un certo «sapere del corpo» (p. 101). Chiaramente, questa concezione nega che la percezione possa essere totalmente descritta come un sistema computazionale.

Se è vero che l’intero testo di Paternoster privilegia principalmente lo studio e l’analisi della visione, l’autore non dimentica di estendere la trattazione di alcune questioni importanti anche agli altri sistemi sensoriali, dedicando l’intero V capitolo alla riflessione filosofica sui sistemi sensoriali non visivi (in particolare udito e tatto). All’interno di questo capitolo l’autore si chiede se abbia senso formulare un teoria generale della percezione, cioè una teoria le cui risposte ad importanti questioni non dipendano dalla peculiarità di ciascun sistema sensoriale. Strettamente connesso a questa questione è il problema dell’individuazione dei sensi, individuazione che avviene secondo tre vie principali: la teoria eziologica, in base alla quale un senso è individuato dal tipo di recettore; la teoria del contenuto, secondo cui i sistemi sensoriali si distinguono per il tipo di oggetto e per il tipo di contenuto su cui vertono; la teoria qualitativa, secondo cui le differenze tra i sistemi sensoriali sono determinate dal tipo di esperienze in prima persona ad essi associate.

Sebbene il problema dell’individuazione dei sensi sia dominante, oggi si fa sempre più strada l’idea di una percezione intermodale, almeno a livello epistemico. Inoltre, come fa ben notare l’autore, la ricerca attuale non può prescindere dai numerosi casi attestati di sinestesia, che sembrano mettere in discussione la modularità dei sistemi sensoriali. Tuttavia, come Paternoster sottolinea riferendosi ai lavori di Pylyshyn, «l’idea è che le sensazioni intermodali caratteristiche della sinestesia non siano parte del contenuto percettivo della modalità di riferimento» (p. 116). Insomma, le persone sinestetiche non sentirebbero melodie a colori, ma sentirebbero melodie accompagnate anche da sensazioni di colore.

Da ciò l’autore può concludere «che non è semplice confutare su basi empiriche l’ipotesi di modularità» e anche che «una teoria della percezione in generale potrà essere costruita a condizione di riuscire a dar conto tanto degli elementi di autonomia quanto di quelli di sinergia che caratterizzano i sistemi sensoriali» (p. 117).

Alla fine di questa intensa carrellata Alfredo Paternoster tira le somme proponendo una soluzione personale, che prevede sostanzialmente la combinazione di tre idee: la natura non concettuale dell’esperienza percettiva, la natura diretta dell’interazione tra soggetto e ambiente a livello fenomenologico, la natura costruttivo-rappresentativa dei processi subpersonali.

L’autore sostiene esplicitamente la non-concettualità della percezione, percezione immune, quindi, a conoscenze e credenze generali del sistema/persona. Pur avendo un’impostazione fortemente kantiana, Paternoster sostiene che non è vero che “le intuizioni senza concetti sono cieche” e afferma, pertanto, la possibilità di percepire forme e superfici anche «pre-interpretativamente» (p. 119), anche se sarebbe comunque necessaria una successiva elaborazione delle primitive configurazioni di superfici.

La natura non concettuale della percezione consentirebbe pertanto ad Alfredo Paternoster di dare una risposta, qualora gli venisse posta, alla seguente domanda: come risolviamo il problema dell’aspetto culturale della percezione? A livello primario vediamo tutti le stesse cose, ossia configurazioni non concettuali di superfici, configurazioni non ancora influenzate da aspetti culturali, ossia da credenze e conoscenze.

Un altro aspetto cruciale del pensiero dell’autore consiste nel suo realismo rappresentativo empirico, una forma di teoria causale della percezione capace di riassumere in sé sia l’idea della natura diretta dell’interazione tra soggetto e ambiente, sia la natura costruttivo-rappresentativa dei processi subpersonali.

Secondo l’autore, i contenuti dell’esperienza visiva sono “cose” e non “enti mentali”. Tuttavia, la posizione di Paternoster prende le distanze da una forma di realismo ingenuo secondo cui il mondo ci apparirebbe come esso è. Utilizzando le parole dello stesso autore, possiamo dire che «poiché gli stati di esperienza percettiva sono ontologicamente dipendenti da stati e processi subpersonali computazionali e in ultima analisi neurofisiologici, è probabilmente più appropriato descrivere la mia posizione come un realismo rappresentativo, in una versione empirica più che intenzionalista. Parlo di versione “empirica” in opposizione a “intenzionalista” per sottolineare che l’aspetto rappresentativo non consiste nel fatto che gli stati percettivi hanno per contenuto un oggetto intenzionale, bensì nel fatto che il contenuto è veicolato da una struttura informativa subpersonale» (p. 120). Così per l’autore i contenuti della nostra esperienza non sono in senso stretto rappresentazioni, ma oggetti che conservano un loro specifico statuto ontologico: perché mai, infatti, una bottiglia dovrebbe diventare oggettiva quando la afferriamo e prima non dovrebbe esserlo? Se l’oggetto esiste quando agiamo non si vede per quale ragione non debba esistere quando percepiamo.

Quando osserviamo un oggetto, la cui superficie dista da noi qualche metro, e avanziamo di qualche passo per avvicinarci a quest’ultimo, focalizzando sempre lo stesso punto della superficie, notiamo che la nostra esperienza è cambiata: l’oggetto ora ci appare più grande. Se avanziamo ancora fino a toccarlo, variamo ancora la nostra percezione visiva. Ora, per quale ragione dovremmo ammettere che le nostre percezioni visive si riferiscono ad enti mentali e quella tattile, invece, ad enti reali?

Per l’autore i processi cerebrali non sono, pertanto, “muri” che ci separano dal mondo, ma ci mettono in contatto con questo e sono, come voleva Kant, le impalcature che rendono possibile la conoscenza. Così i colori non sarebbero interamente soggettivi, ma sarebbero piuttosto proprietà relazionali, dipendenti in parte dal soggetto e in parte dall’oggetto.

L’importanza del libro di Alfredo Paternoster è indubbia. Esso si rivela una prima e preziosa sintesi delle teorie più accreditate sugli aspetti più importanti della percezione, ed un’introduttiva ma precisa esposizione di interessanti teorie innovative, a cui solo il tempo e la ricerca potranno dare ragione. Come conclude lo stesso autore, quelle da lui proposte sono solo poche fra le tante possibili risposte a questioni molto controverse.

In conclusione, bisogna anche aggiungere che il testo di Paternoster convince in maniera decisiva sulla fecondità di un metodo secondo il quale l’analisi filosofica si intreccia brillantemente con i risultati della scienza empirica, in una proficua collaborazione tra Filosofia e Scienza.

Indice

Introduzione

1. I Problemi della percezione

La percezione tra scienza e filosofia
I problemi filosofici della percezione
Percezione e sensazione
Intenzionalità e fenomenologia

2. Teorie filosofiche della percezione

La teoria del dato sensoriale
La teoria avverbiale
La teoria causale
La teoria disgiuntiva

Che cosa percepiamo? La controversia tra realismo diretto e realismo indiretto

La teoria intenzionalista

Riepilogo

3. Vedere e pensare: il confine superiore della percezione

Visione semplice e visione epistemica
Vedere come
Contenuto concettuale, contenuto non concettuale

4. Teorie psicologiche della percezione visiva

La tradizione costruttivista
La teoria computazionale e la modularità della mente
La visione ecologica
Verso una sintesi: le rappresentazioni visuomotorie e il paradigma sensomotorio

5. Oltre la vista

L’individuazione dei sensi
La percezione uditiva
La percezione tattile
Modalità, intermodalità, modularità: qualche osservazione sui sensi in generale

6. Verso un quadro unitario

Note

Bibliografia

Indice dei nomi

Indice analitico


L'autore

Alfredo Paternoster insegna Filosofia e Teoria dei Linguaggi nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Sassari. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Introduzione alla Filosofia della Mente (2002) e Linguaggio e Visione (2001).

Links

Pagine web personali:

http://deisweb.uniss.it/ricerca/sez_antropo_sociologica/Paternoster_Alfredo.htm

http://scipol.uniss.it/docenti/alfredo-paternoster

venerdì 20 febbraio 2009

Gianni Fresu, Lenin lettore di Marx

La città del Sole editore, Napoli, 2008, pp. 254, ISBN 9788882924331.

Recensione di Andrea Comincini – 20/2/2009

Storia della filosofia politica

Dopo la caduta del muro di Berlino e la recente sconfitta italiana della sinistra comunista, molti studiosi ed intellettuali si sono interrogati sulle fondamenta teoriche di una azione politica volta a sovvertire l’ordine attuale del sistema. Il nuovo libro di Gianni Fresu, esperto di Gramsci ed attento conoscitore delle dinamiche del movimento operaio, ha come obiettivo quello di raccogliere le testimonianze filosofiche nate dal seme fertile della dottrina di Marx e di seguirne l’evoluzione attraverso la Seconda e la Terza Internazionale, fino a giudicarne l’efficacia teoretica e tattica. Il titolo del libro non definisce appieno l’intenso lavoro svolto, poiché l’autore non si confronta soltanto con Lenin, ma anche con gli esponenti più illustri del movimento comunista, fra cui Bernstein, Luxemburg, Kautsky ecc. Chiarificatore è invece il sottotitolo - ovvero “dialettica e determinismo nella storia del movimento operaio” - in quanto delinea maggiormente il terreno nel quale Fresu si è cimentato, accompagnando il lettore nella direzione di una analisi ampia e dettagliata.

Nucleo centrale del suo lavoro, infatti, è determinare il più chiaramente possibile le complesse e varie posizioni del socialismo assunte innanzi ai drammatici eventi nati prima e dopo la Rivoluzione d’Ottobre. In un contesto internazionale angosciante, con una guerra mondiale alle porte, la caduta dello Zar, la vecchia Europa scossa e frastornata, è innegabile che il movimento socialista dovette fare scelte tattiche difficilissime, pena la sconfitta su tutti i fronti.

Fresu comincia la sua analisi partendo da questo quadro generale e analizza le posizioni revisioniste di Bernstein o di Kautsky, imputando loro sostanzialmente di contenere in sé ancora un certo idealismo borghese o una mancata comprensione del marxismo. Molto chiara per esempio è la dimostrazione della confusione di Kautsky a proposito dei concetti di capitale finanziario ed industriale, la quale in definitiva lo spinge su posizioni interventiste e quindi ad evidenziare quanto un limite teorico possa incidere sulla sfera politica.

La disamina ovviamente è complessa ed avvincente, poiché si avvale di un gran numero di documenti, nonché dei testi di Marx medesimo, ed è preferibile rimandare il lettore ad un diretto confronto con i testi per non concedere troppo a eccessive semplificazioni.

Da sottolineare invece l’abilità stilistica dello scrittore e la vocazione sistematica, a tratti didattica, capaci di render l’opera facilmente comprensibile e mai pedante: Fresu coglie nell’essenza le incongruenze del pensiero revisionista o di chi dall’ortodossia passò in seguito a posizioni più moderate, perché sa leggere nella realtà le deviazioni e le sconfitte che queste interpretazioni portarono. Fondamentale a proposito è afferrare quanto il nostro autore considera centrale, ovvero comprendere il legame tra teoria e politica, tra rivoluzione e dialetticità degli eventi, tra spontaneismo ed organizzazione. Questi ultimi termini tracciano il confine della sua ricerca, delineando infine la tesi principale del saggio, ovvero l’assoluta superiorità intellettuale di Lenin nel comprendere il marxismo e nell’applicarlo adeguatamente.

Lenin lettore di Marx, in definitiva, sostiene l’idea che il testamento spirituale del filosofo tedesco fu pienamente ereditato e compreso pressoché esclusivamente dal rivoluzionario russo.

La seconda parte del testo, dopo aver sottolineato le deficienze interpretative di personaggi seppur grandi, tende a stabilire quanto prima accennato: la comprensione, in quel determinato momento storico, della soluzione politico-filosofica tatticamente più opportuna, ha reso Lenin vincitore assoluto. Non si trattò infatti di una vittoria solamente tattica, politica, ma innanzitutto teorica. Di più: secondo Fresu, fu proprio grazie a tale superiorità intellettuale che l’azione si rivelò vincente.

Teoria e prassi diventano in Lenin un tutt’uno, e trovano la loro forma nella organizzazione del partito.

Senza voler ricordare l’importanza della funzione dei Soviet per il rivoluzionario russo, credo sia utile riportare uno dei titoli scelti da Fresu per l’apertura di un capitolo centrale, ovvero: “Dateci una organizzazione e capovolgeremo la Russia” (p. 111). La frase naturalmente è di Lenin, e sta ad indicare quel legame indissolubile che in un marxista dovrebbe sempre esser chiaro, ma anche il contesto profondamente e temporalmente circoscritto dal quale l’espressione trovò sostegno.

Altro elemento centrale nella lettura di Lenin offerta da Fresu è la contestualizzazione necessaria del marxismo ai problemi emersi in seno alla società stessa, in precisi momenti storici. Il rimprovero del russo ai suoi avversari fu l’aver frainteso lo stretto, inestricabile legame della teoria con le vicende a cui si rivolge: il marxismo, per Lenin, quando cade in un indeterminato appello ai buoni sentimenti e a vacue speculazioni, nega una reale comprensione degli eventi, quindi mina le basi per una rivoluzione vittoriosa.

L’estremismo malattia infantile del comunismo, oppure Che fare?, rivelano tale disposizione intellettuale e politica. Fresu insiste molto a proposito per giungere in definitiva a delineare l’ambito filosofico donde questa visione prende forma. L’ultima parte del libro, veramente interessante e consigliabile, spiega l’approccio alla dottrina marxista partendo dagli scritti principali del russo e rivela una profonda intelligenza per le questioni teoriche e non soltanto politiche.

Lenin, sottolinea Fresu, è una figura centrale non solamente poiché sa evidenziare gli aspetti fondamentali del Marx filosofo, ma soprattutto perché sa indicare ai socialisti di oggi gli errori commessi e le radici di tali sbagli.

Se tentiamo di interpretare gli eventi odierni, mi sembra che la lettura proposta da Fresu non sia soltanto acuta e pertinente, ma definisca correttamente la grandezza del rivoluzionario. I movimenti no global contemporanei, privi di una solida organizzazione, perdono la loro incisività e sembrano dar credito allo sforzo di Lenin nell’inserire la rivoluzione dentro un concreto quadro dialettico in grado di ottimizzare gli intenti.

Lo stile semplice ma efficace rende il lavoro non solo interessante per gli specialisti, ma anche per il lettore comune che desidera “sovvertire il fallimento del presente” – come dice Žižek in un suo libro anch’esso dedicato a Lenin – e provare a tracciare le linee guida di un nuovo socialismo del XXI secolo.

Indice

Il perché di una ricerca
I Marxismo e movimento operaio negli anni della II Internazionale
Dalle certezze del determinismo economico alla revisione di Bernstein
La parabola del custode dell’”ortodossia”: Karl Kautsky
Rosa Luxemburg, dalla lotta al revisionismo alla polemica con “l’ultracentralismo”
Rivoluzione e dialettica fra spontaneità ed organizzazione
La Rivoluzione russa e la fondazione del KPD
II Lenin: dialettica e rivoluzione
L’analisi “concreta” delle “formazioni economico-sociali”
“Dateci un’organizzazione e capovolgeremo la Russia”
Rivoluzione borghese ed “egemonia” del proletariato. Leprove generali del 1905.
Rivoluzione e questione contadina (aprile-ottobre 1917)
La questione dell’”egemonia”. “Fronte unico” e NEP
III Filosofia di un “marxista di base”
Materialismo ed empiriocriticismo
La causalità e la necessità della natura
Empiriocriticismo e materialismo storico
Karl Marx e le tre fonti della sua dottrina
Dialettica e marxismo
I Quaderni filosofici


L'autore

Gianni Fresu (Sassari, 1972), si è laureato a Cagliari in Scienze politiche, quindi ha proseguito i suoi studi grazie ad un Dottorato di ricerca ad Urbino. Presidente del Centro Studi della Sardegna “Antonio Gramsci”, ha dedicato il suo primo libro proprio ad uno dei padri del comunismo italiano: “Il diavolo nell’ampolla, Antonio Gramsci, gli intellettuali e il partito”. Attualmente svolge attività di ricerca presso l’università di Cagliari.

Savarino, Luca (a cura di), Laicità della ragione, razionalità della fede? La lezione di Ratisbona e repliche.

Torino, Claudiana, 2008, p. 189, € 15,00, ISBN 9788870167467.

Recensione di Silvia Salardi - 20/02/2009

Filosofia della religione

Il binomio fede-ragione, con le sue difficoltà e aporie, ha occupato le menti di filosofi, teologi e scienziati per secoli. A tutt’oggi, nell’era della tecnologia e del trionfo della ragione scientifica, l’interesse per questo binomio non si è per nulla affievolito. È una questione di antica origine, vexata quaestio, che tocca, per un verso, la comprensione della realtà fattuale da una prospettiva propriamente scientifica, per altro verso, pone il problema di una giustificazione di tale realtà da una prospettiva che trascende la scienza stessa. In altre parole, si tratta di trovare delle risposte adeguate alle eterne domande della filosofia quali ‘perché esistiamo?’, ‘quale è il nostro scopo?’, ‘dove siamo diretti?’, cui la scienza non sembra in grado di rispondere in modo definitivo.
L’eterno scontro-incontro tra fede e ragione non è l’espressione di una sterile disputa tra pochi intellettuali, bensì ha delle implicazioni pratiche che si manifestano, oggigiorno, con particolare evidenza, nelle materie bioetiche. È in tale contesto, infatti, che emergono chiaramente tutti i nodi critici che hanno le loro radici nella difficoltà di configurare e delineare i confini tra fede e ragione. Invero, il dibattito bioetico non è confinato ai suoi risvolti sulla sola ‘moralità personale’, ma ha forti ripercussioni in ambito pubblico, in particolare per ciò che riguarda l’individuazione di linee d’azione e di strumenti normativi. Quest’ultimo aspetto è tornato ad essere spunto di riflessione, nonché argomento di infuocate discussioni, da quando, negli ultimi anni, la Chiesa cattolica, almeno nel nostro paese, si è riproposta sulla scena pubblica, non tanto quale voce tra le voci, ma in quanto soggetto pubblico al pari dello Stato. Ad agevolare l’affermazione in campo pubblico del soggetto Chiesa è stato l’attuale clima storico. Come già accaduto in altri momenti di trasformazione sociale - si pensi ad esempio alla fase di ‘eclissi’ dell’impero romano, alla situazione dei secoli XII-XIII (età di Francesco), o più recentemente, al tormentato periodo degli anni Venti del XX secolo- la diffidenza e la paura del cambiamento portano ad assumere un atteggiamento negativo nei confronti del futuro. Si cerca, pertanto, rassicurazione in assetti di valori che sembrano avere superato il collaudo della storia. Ci si rifugia nel passato con un atteggiamento di critica disfattista nei confronti di quelli che, lungi dall’essere considerati i valori conquistati dalle società moderne, vengono additati come sue imperfezioni. E così si attribuisce, ad esempio, una connotazione negativa al pluralismo etico, caratteristico delle moderne società, identificandolo con il nichilismo o indifferentismo etico; oppure si considerano con sospetto soluzioni politiche che, ispirate alla ‘mitezza politica’, cercano di operare scelte in grado di far convivere più identità sociali, culturali, religiose, riconoscendone uguale rilevanza nei diversi ambiti di discorso.
Per superare tali imperfezioni si propone il riferimento ad un’entità esterna allo Stato in grado di dare certezza e stabilità alla società. Questa entità si identifica con la Chiesa cattolica.
È bene sottolineare che, nell’attuale momento storico, la Chiesa non adotta un atteggiamento di contrapposizione verso lo Stato, ma anzi si propone come la detentrice degli strumenti adatti a risolvere le contraddizioni e trovare le soluzioni politiche (teologia civilis). Essa non nega il fondamento costitutivo dello Stato moderno, vale a dire la sua laicità, ma ne reinterpreta sapientemente e strumentalmente le sue componenti. Un esempio è dato dal già citato approccio al pluralismo etico. All’accettazione, infatti, nel senso di riconoscimento, del pluralismo etico delle società moderne come realtà fattuale, peraltro difficilmente negabile, non corrisponde, tuttavia, da parte della Chiesa cattolica, un’eguale legittimazione e parificazione delle diverse posizioni etiche sul piano sostanziale. L’idea di fondo è quella di una laicità funzionale alla fede e non, invece, come ‘metodo’ per garantire la convivenza a diverse istanze (sociali, culturali, politiche, religiose), sulla base del principio sostanziale del rispetto della pari dignità di tutte le identità.
Si tratta di un dibattito molto delicato di cui vanno considerate e comprese tutte le sfaccettature. Per questo motivo risulta molto interessante la lettura del testo a cura di Luca Savarino, Laicità della ragione, razionalità della fede? La lezione di Ratisbona e repliche.
I contributi raccolti in questo libro mettono a confronto diversi punti di vista, non solo le usuali fazioni, vale a dire laici e cattolici, ma anche le posizioni degli esponenti della Chiesa protestante rispetto a quelle cattoliche. Come rileva il suo curatore, «fede e ragione significa, infatti, una riflessione sui fondamenti del cristianesimo e sul suo rapporto con la cultura religiosa e scientifica occidentale», così come «sul rapporto tra religione e modernità, sul ruolo pubblico della religione e sulla laicità» (Savarino, p. 7). Lo spunto per le varie riflessioni è dato dall’intervento di Papa Benedetto XVI riportato integralmente e analizzato nel dettaglio dal contributo di Coda.
Dal primo confronto, vale a dire all’interno del cristianesimo stesso (protestanti vs. cattolici),
emerge un dato comune tra le due correnti, vale a dire che fede e ragione non vanno concepite come distinte, bensì va individuato l’elemento di connessione tra queste due realtà (Aime).
Quindi, né una fede senza ragione, né una ragione senza fede (Huber).
Il legame inscindibile tra fede e ragione si palesa, secondo Ricca, in un allargamento degli interessi della ragione non solo ai fatti empirici, ma anche alle domande esistenziali. Tuttavia, piuttosto che parlare di ‘razionalità’ della fede, si preferisce proporre l’espressione ‘plausibilità’ della fede (Ricca) in quanto, pur non essendo quest’ultima direttamente derivabile dalla ragione, si possono addurre ragioni che rendono l’opzione fede, per l’appunto, plausibile.
Nemmeno nella teoria di Lutero troviamo una negazione del rapporto tra fede e ragione, nonostante la famosa frase Ratio inimica fidei. Con questa espressione Lutero riassume la sua particolare visione del rapporto tra fede e ragione. Per il Riformatore, infatti, la ragione diviene nemica della fede quando pretende di tradurre in azione concreta la conoscenza che essa può avere del bene e del male, trattandosi di una conoscenza contingente e limitata. La ragione, infatti, non possiede il nesso che permette di tradurre i principi di giustizia in opere e quando pretende di individuare l’azione giusta, che conduce alla salvezza, compie un atto di presunzione, poiché crede di conoscere la volontà di Dio (Rostagno).
Passando all’analisi del ruolo che la fede dovrebbe giocare in ambito pubblico, i contributi della seconda parte del libro mostrano orientamenti differenti sia quando si tratta di individuare un fondamento assiologico per il diritto, sia rispetto al ruolo che la Chiesa deve ricoprire sulla scena pubblica.
Rispetto al primo punto, gli autori, pur concordando sulla necessità di un fondamento assiologico, non concordano tutti con l’idea che tale fondamento giustificativo sia da rinvenirsi nei contenuti della fede cristiana, nello specifico cattolica. Zagrebelsky evidenzia come l’assolutismo etico, di cui il pensiero cattolico è espressione, mal si concilia con il concetto di democrazia, che rischia di venire strumentalizzata e ridotta alla sola regola della maggioranza, funzionale all’affermazione di un’unica posizione etica. Andrebbero valorizzati, secondo l’autore, i valori –principio di tolleranza, rispetto delle idee altrui, apertura verso gli altri ecc.- che stanno alla base della concezione laica dello Stato, additati, invece, spesso dagli avversari come punti deboli di tale pensiero. In realtà, questi valori sono adeguati a stabilire regole di convivenza per tutti.
Non riesce, invece, a rinunciare ad un fondamento trascendente, ad una verità comune, Ciancio, che muovendo dalla tesi secondo cui relativismo significa «altra faccia del dogmatismo e della sua intolleranza» (p. 183) tralascia di individuare i vari significati di relativismo (culturale, etico, metaetico, scetticismo morale), riducendo quest’ultimo al solo nichilismo etico, che nulla ha a che fare con la visione laica dello Stato. Tale visione si fonda, come rilevato sopra, su un forte principio etico di carattere sostanziale, vale a dire il rispetto di tutte le identità morali e religiose, nonché il rispetto del diritto di manifestare dissenso rispetto ai valori altrui.
Con riguardo, invece, al ruolo pubblico della Chiesa, una prospettiva che sembra poter avvicinare le posizioni di laici e cattolici, è quella della Chiesa Valdese.
Con una riflessione, che, per molti versi, ricorda quella svolta nel contesto filosofico-morale di orientamento laico sul ruolo del diritto quale cornice di garanzia per l’esplicazione delle diverse posizioni morali, si afferma che punto di partenza per un dialogo è il riconoscimento reciproco della non neutralità originaria del proprio punto di vista (Ferrario) e della necessità di ricercare costantemente un compromesso, sul versante politico, per permettere la convivenza alle diverse identità presenti nella società, di cui la Chiesa rappresenta una delle componenti. Il suo diritto di far sentire la propria voce non deve, pertanto, trasformarsi in un’imposizione a tutti di un'unica prospettiva.
Infine, una critica al concetto di laicità e di secolarizzazione, in una più ampia prospettiva di ‘crisi della crisi della ragione’, viene prospettata da Tronti. Mentre Barcellona, riprendendo il quesito se esista una ‘crisi della crisi della ragione’, sposta l’attenzione sul rapporto tra fede e scienza. Un testo, quindi, ricco di spunti di riflessione, particolarmente utili nel quadro storico attuale.

Indice

Introduzione di Luca Savarino
PARTE PRIMA. LA LEZIONE DI RATISBONA E LA REPLICA PROTESTANTE
Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni di Benedetto XVI
Fede e ragione di Wolfang Huber
La lezione di Benedetto XVI a Ratisbona di Piero Coda
Alcune osservazioni sulla lezione di Ratisbona di Paolo Ricca
Il circolo interrotto di Oreste Aime
Ratio inimica fidei. Asimmetria fede-ragione in Lutero di Sergio Rostagno
PARTE SECONDA. FEDE E SPAZIO PUBBLICO
Crisi della ragione e critica della fede di Mario Tronti
Parola, scienza, religione di Pietro Barcellona
La ragione credente di Fulvio Ferrario
Democrazia e verità di Gustavo Zagrebelsky
Povertà del relativismo e universalità della ragione ermeneutica di Claudio Ciancio
Note bibliografiche
Indice dei nomi


Il curatore

Luca Savarino è ricercatore presso l’Università del Piemonte Orientale, è presidente del Centro evangelico di Cultura «Arturo Pascal» di Torino e coordinatore della Commissione bioetica della Tavola valdese.

lunedì 16 febbraio 2009

De Carolis, Massimo, Il paradosso antropologico. Nicchie, micromondi e dissociazione psichica

Macerata, Quodlibet, 2008, pp. 192, € 16.00, ISBN 9788874622023

Recensione di Antonio Tursi – 16 febbraio 2009

Nel 1971, Noam Chomsky e Michel Foucault si confrontavano sul concetto di natura umana. Ne emergevano non solo due differenti definizioni, quanto due posizioni opposte: Chomsky ricercava il fondamento “naturale” della natura umana, qualcosa che ci contrassegna da sempre e per sempre; Foucault indicava invece i processi storico-sociali che facevano emergere una certa umanità. Sempre o ora? Siamo contrassegnati ontologicamente o emergiamo nell’attualità? Massimo De Carolis, con Il paradosso antropologico, cerca di occupare entrambe queste posizioni, cerca di mostrare come ciò che ci contrassegna da sempre si mostri volta per volta diversamente. Questo tentativo raccoglie diverse sfide teoriche: quella lanciata dall’antropologia filosofica tedesca novecentesca riguardo alla natura umana; quella assai attuale sul concetto di biopolitica; quella che ha coinvolto psichiatri e psicoanalisti nella definizione dei fenomeni dissociativi.
L’uomo è un essere paradossale, nel contempo aperto alla contingenza illimitata e protetto in nicchie culturali a cui egli stesso dà forma. La condizione umana è scandita cioè da due istanze basilari: “l’istanza di apertura, che spinge a esplorare e sperimentare ogni possibile dimensione mondana e, più ancora, a regolare la propria forma di vita sulla virtuale infinità di queste dimensioni; e l’istanza di protezione, che spinge a ritagliare un mondo nel mondo, a perimetrare una nicchia, tracciando un netto spartiacque tra le figure familiari al suo interno e lo sfondo indistinto che essa esclude” (28). Queste due istanze, questi due corni del paradosso antropologico non sono riducibili l’uno all’altro, nel senso che si implicano reciprocamente: la contingenza illimitata è necessaria a vitalizzare quelle nicchie che sono nate proprio per negare quella contingenza.
Questa tesi principale sostiene un quadro teorico tracciato dall’intreccio tra piano sociale e piano psichico, dal passaggio dal moderno al postmoderno e dalla trasposizione del paradosso sul terreno politico. L’indagine sulla dissociazione psichica permette di cogliere come il piano delle dinamiche sociali e quello della vita psichica siano da sempre intrecciati e come il tipo di intreccio si presenti diversamente nelle varie epoche. La dissociazione non sempre è stata riconosciuta in quanto meccanismo psichico. Solo dopo Freud è stata riconosciuta e riconosciuta in quanto patologia. Oggi infine è vista come un meccanismo psichico primario che svolge una funzione costruttiva per la nostra personalità (o almeno lo fa nei casi di dissociazione felice). La dissociazione è vista infatti come quell’operazione che permette alla psiche di difendersi dagli innumerevoli stimoli esterni, segmentando l’esperienza in differenti compartimenti stagni. Questa scissione dell’io è un primordiale meccanismo di difesa di fronte all’angoscia di annichilimento generata da una realtà avvertita come minaccia. Con l’uscita dall’infanzia, a questo meccanismo si affiancano i processi di simbolizzazione che ci permettono di dare ordine alla realtà, senza mai negarne del tutto la contingenza illimitata. Ma questi processi di simbolizzazione – in primis il linguaggio – costruiscono proprio quelle nicchie culturali di cui abbiamo detto in precedenza. Il progressivo riconoscimento della dissociazione psichica rivela dunque come l’intreccio tra piano psichico e piano sociale sia passato da un rapporto di analogia a una “interpenetrazione a grana fine” fatta di molteplici risonanze.
Un passaggio che dà conto di un altro passaggio, un passaggio epocale: quello dall’epoca moderna a quella postmoderna. Il moderno “ruotava intorno a una scissione orizzontale che separava nettamente un alto e un basso: l’Uno di contro ai molti, l’Io contro le spinte delle pulsioni parziali, lo Stato contro le pressioni conflittuali interne al corpo sociale” (52). Il moderno perciò ha preferito puntate su un solo corno del paradosso antropologico sia a livello sociale sia a livello psichico. Naturalmente il paradosso in quanto costitutivo della nostra natura non è stato del tutto eliminato, ma solo rimosso dalle istituzioni e dalla psiche moderne. Esso è riemerso in tutta la sua complessità nel nostro tempo caratterizzato da “una rete di scissioni verticali, che isolano e separano una pluralità di spazi circoscritti – pseudoambienti, micromondi e, appunto, nicchie” (53).
Cosa comporta in termini politici questo passaggio dal moderno al postmoderno? Se la politica moderna si è configurata intorno agli Stati nazionali e dunque all’unità del popolo sovrano, come può configurarsi politicamente la rete di scissioni verticali dell’epoca postmoderna? Gli esiti politici di questo passaggio sono ancora del tutto aperti. Alla duplice richiesta dell’essere umano di apertura e di protezione si è sempre cercato di dare una risposta, spesso non riconoscendo questo paradosso o cercando comunque di rimuoverlo riportando un polo all’altro. Il concetto di sovranità ha offerto protezione in cambio di una certa chiusura rispetto alla contingenza illimitata. Si è instaurato un ordine gerarchico tra queste richieste e dunque tra la legge del sovrano (dello Stato) e i desideri dei sudditi (dei cittadini). Oggi il paradosso antropologico può tradursi sia nella chiusura autoreferenziale di tanti e incomunicanti micromondi sia nel pluralismo di una democrazia creativa. Il pluralismo può segnare la “reintroduzione dell’illimitato all’interno della comunità politica” (161), attraverso una “rete fluida e creativa di distinzioni e differenze” (178). La creatività – intesa come tratto basilare della natura umana – permette di tracciare delle distinzioni e dunque delle regole a partire dalla loro assenza cioè dall’indistinzione e dalla contingenza illimitata: in questo senso Dewey adoperava il termine per connotare il concetto di democrazia. La difficoltà della trasposizione sul piano politico del paradosso antropologico è proprio quella di trasporre entrambi i lati: far convivere tanto la comune cittadinanza quanto le differenze.
L’argomentazione di De Carolis è stimolante e per larghi tratti condivisibile, eppure qualcosa non torna sia a monte che a valle di tale argomentazione. È un paradosso a definire la natura umana, un meccanismo dinamico dunque mai bloccato su uno dei termini, su una de-finizione univoca. Sennonché, come in larga parte dell’antropologia filosofica tedesca, questa paradossalità non incrina quella macchina antropologica che ha diviso l’essere umano tanto dall’animale quanto dalla tecnica (si veda L’aperto di Agamben o Post-human di Marchesini). Una macchina antropologica che vede, per esempio, l’animalità come altro dall’umanità, al limite come uno stadio anteriore, mai invece come ciò che sta davanti. In altri termini, sebbene De Carolis si impegni a evitare una deriva trascendentale, egli resta sempre dentro un orizzonte umanistico che si regge sulla centralità dell’essere umano. Il suo tentativo di esplorare un’ontologia dell’attualità finisce così con l’approdare ai lidi rassicuranti di una metafisica rivista ma non abbandonata A riprova di ciò, il richiamo al linguaggio che serve per mostrare l’opera del paradosso: un richiamo effettuato da buona parte della nostra tradizione culturale per giustificare la posizione eccezionale dell’essere umano. E per garantire tale eccezionalità bisogna confidare in un fondamento – innato e non storicamente determinato.
Immaginare un rapporto di orizzontalità e ibridazione tra antroposfera, teriosfera e tecnosfera è l’impegno più gravoso del presente. Solo questo sforzo immaginativo permette di spingere oltre la descrizione che De Carolis offre del paradosso antropologico: riconoscendo nell’essere umano da un lato l’apertura all’alterità animale e tecnologica (con la formazione di una rete ibridativa) e dall’altro la tensione continua a tracciare dei confini culturali della cui permeabilità è sempre più consapevole.
Qualcosa non torna però anche nella connotazione della democrazia come creativa. Infatti, sebbene De Carolis colga i meccanismi che hanno reso esangui i regimi democratici, possiamo pensare di rianimarli con un fattore pre-politico (o biopolitico, per essere à la page) quale la creatività? Inoltre, il rapporto tra cittadinanza e differenze così come articolato dall’autore, pur non essendo pratica corrente nello scenario politico occidentale, è davvero altro dal concetto e dall’esperienza maturata di democrazia? Ovvero, la democrazia come processo aperto e mai compiuto, come progetto da costruire sempre di nuovo non comprende già una creatività politica e istituzionale capace di mediare il limite e l’illimitato, la cittadinanza e le differenze?

Indice

Sommario: Introduzione
1. Nicchie. 1.1 Ontologia del presente. 1.2 Ambiente e mondo. 1.3 Formatori di mondo? 1.4 La scissione verticale
2. Psicopatologia della vita contemporanea. 2.1. Identità psichica e dinamica sociale. 2.2 Personalità multipla. 2.3 Diniego e perversione. 2.4 Dissociazione primaria. 2.5 Dissociazione psichica e paradosso antropologico
3. La zona grigia tra i fatti e le finzioni. 3.1 L’illusione, la realtà, il gioco. 3.2 Dissociazioni felici e infelici. 3.3 Performatività e reticoli sociali. 3.4. Micromondi. 3.5. Il gioco e le sue regole
4. Diversi modi di formare un mondo. 4.1 Convenzioni e ritualità. 4.2 Il rito come eccezione e paradigma. 4.3 La sovranità dei moderni. 4.4 Confini simbolici e confini reali
5. Antropologia del pluralismo. 5.1 Assenza di mondo. 5.2 Il limite e l’illimitato. 5.3 Il valore del pluralismo. 5.4 La democrazia creativa. 5.5 Politica e governamentalità
Bibliografia


L'autore

Massimo De Carolis insegna Filosofia teoretica all’Università di Salerno. Collabora a «il manifesto» ed è tra i fondatori delle riviste «Luogo comune» e «Forme di vita». È autore di numerosi saggi tra cui Tempo di esodo (manifestolibri, 1994), Una lettura del Tractatus di Wittgenstein (Cronopio, 1999) e La vita nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (Bollati Boringhieri, 2004). Per i tipi di Quodlibet ha curato, insieme con Arturo Martone, Sensibilità e linguaggio. Un seminario su Wittgenstein (2002).

venerdì 13 febbraio 2009

Reale, Giovanni, Il dubbio di Pirrone. Ipotesi sullo scetticismo

Padova, Il Prato, 2009, pp. 120, € 13,00, ISBN 9788863360431

Recensione di Michele Paolini Paoletti – 13/02/2009

Filosofia antica, Storia della filosofia, Scetticismo

La figura di Pirrone, importante quanto leggendaria, attraversa come una costante la storia della filosofia moderna, lì dove lo scetticismo antico viene appunto connotato come “pirronismo”. Le interpretazioni della vita e del pensiero di questo filosofo, tuttavia, si muovono entro un vasto panorama di fattori storici e culturali degni di attenta considerazione: i rapporti con l’Oriente in occasione della spedizione di Alessandro Magno, il ruolo della religione, il confronto con la filosofia aristotelica ed, eventualmente, con la scuola eleatica. La complessità degli studi, inoltre, pare risentire in modo precipuo del rapporto dialettico che si instaura tra l’aspetto negativo e negante dello scetticismo pirroniano (il dubbio, l’impossibilità di scegliere una tesi piuttosto che un’altra, l’afasìa) e quello positivo (il tentativo di vivere una moralità ed una religiosità pure ed incontaminate), sì da poter intendere Pirrone come una sorta di “erma bifronte”.

Giovanni Reale, in questo breve e denso studio, si sforza anzitutto di compiere un bilancio delle varie interpretazioni pirroniane. L’interpretazione tradizionale, quella gnoseologico-fenomenistica per la quale Pirrone criticherebbe la conoscenza umana distinguendo anzitempo il fenomeno conoscibile dalla misteriosa cosa in sé, si accompagna storicamente alla lettura hegeliana del pirronismo come “negazione di quel negativo che è proprio di ogni coscienza individuale” (p. 21), come dimostrazione della necessità di superare il finito. Nondimeno, Pirrone viene inteso come precursore delle tendenze empiriste della scienza moderna (Patrick), come un metafisico che vuole superare il dominio della logica (Raphael) o come un nichilista che risolve l’intera realtà nell’apparenza pura di un fenomeno senza cosa in sé (Conche). Il momento scettico, inoltre, può essere subordinato alla volontà di fuggire le insidie della teoresi per vivere una vita beata e tranquilla. Non mancano, infine, quanti sostengono la discendenza diretta delle categorie speculative pirroniane da quelle della filosofia indiana, né quanti tratteggiano questo filosofo come “eroe del dubbio o come incarnazione di esso, come una sorta di concreto simbolo del non poter credere” (p. 51).

Ciascuna linea interpretativa pare restituire un riflesso della complessa fisionomia dell’oggetto di studio. Reale, piuttosto che tentare un inquadramento globale e sistematico del pirronismo, si limita ad analizzare i due aspetti precedentemente enunciati (quello negativo e quello positivo) della vita e del pensiero di Pirrone, per poi delineare un’ipotesi di lavoro storiografico in cinque punti. Per quanto riguarda la biografia del primo filosofo scettico, occorre tener presente che, per quest’ultimo, “lo scopo del filosofare consisteva nell’esercitarsi ad essere virtuoso (chrestòs) e nell’insegnare ad essere virtuoso (agathòs) anche ad altri” (p. 57), secondo la testimonianza di Antigono. Parimenti, “la faccia scettica di Pirrone consiste non tanto nell’indifferenza, nell’impassibilità e insensibilità in quanto tali, ma nel loro essere spinte oltre misura: al limite, quasi, dell’inumano, e, comunque, ad un limite che era (o che era sentito) di rottura” (p. 60), anche se “è difficile spogliarsi completamente dell’uomo”, come afferma Pirrone stesso. Dal punto di vista dottrinale, invece, il pirronismo invoca la quiete e la pace dell’animo, l’assenza completa di turbamento e l’insensibilità a tutto ciò che è diverso dal bene. Al contempo, però, esso indica la strada per raggiungere questo difficile obiettivo nel riconoscimento dell’indifferenza tra le cose e nella conseguente disposizione a non determinare né consentire alcunché, secondo la celebre formula del “non-più-questo-che-quello”. Il principio dell’isostenia (uguale forza dei ragionamenti opposti) e la teoria dell’antilogia (cioè dei discorsi contraddittori che arrivano a non definire nulla) sarebbero stati esplicitati dai discepoli di Pirrone, così come l’epoché (la sospensione del giudizio) e la acatalepsìa (mancanza di comprensione).

L’ipotesi di lavoro impostata da Reale verte, invece, attorno all’individuazione di alcune influenze dell’ontologia eleatico-megarica. I frammenti di Timone, ad esempio, noto discepolo di Pirrone, paiono ispirarsi in alcuni punti al poema parmenideo, così come sono privi di qualsiasi critica nei confronti della scuola eleatica, mentre disapprovano tutte le altre scuole; la teoria della apàtheia, poi, prima che dagli scettici, è stata formulata da Stilpone, pensatore megarico. Per queste ragioni, il pirronismo è una sorta di “eleatismo in negativo”, poiché giunge a negare radicalmente la validità della doxa senza spingersi al cospetto della Verità. In aggiunta, Pirrone incarna, con le proprie azioni, la negazione del principio aristotelico di non-contraddizione, perché l’indeterminatezza del reale rende impossibile qualsiasi attribuzione di verità all’affermazione o alla negazione degli stati di cose. L’impresa di Alessandro Magno, del resto, rileva Conche, “significava veder distruggere nell’ambito dei valori gli antichi limiti del bene e del male e vedere l’arbitrio puro che imponeva nuovi valori, fare esperienza dell’esistenza di un volere arbitrario dal quale può risultare un nuovo mondo, e quindi capire al vivo il non-più-questo-che-quello” (p. 99). I contatti con l’Oriente, infine, sembrano tanto più importanti quanto più si considera l’atteggiamento e l’orientamento generale dei sapienti indiani invece dei singoli punti delle loro dottrine.

In conclusione, l’autore sembra suggerire la possibilità di comprendere storicamente la portata di Pirrone senza appiattire la sua figura sulle tesi dello scetticismo moderno, giacché poteva essere fondatore dello scetticismo “solo uno che non sapeva e non voleva esserlo, e che, comunque, non era uno scettico nel senso che successivamente ebbe questo termine” (p. 112).

Indice

I. Quadro generale delle interpretazioni proposte della filosofia di Pirrone
1. L’interpretazione gnoseologico-fenomenistica
2. L’interpretazione dialettico-hegeliana
3. L’interpretazione scientistica
4. L’interpretazione pratico-morale
5. L’interpretazione metafisica
6. L’interpretazione antimetafisico-nichilistica
7. L’interpretazione orientalistica
8. L’interpretazione letteraria

II. Preliminare approccio alle testimonianze pirroniane
1. Pirrone erma bifronte
2. I due atteggiamenti rispecchiati nelle testimonianze sulla vita di Pirrone
a. L’atteggiamento positivo-dogmatico
b. L’atteggiamento scettico e negativo
3. Le due componenti rispecchiate nella dottrina
a. Tesi positive e dogmatiche
b. Le tesi scettiche
4. Una importante testimonianza del pirroniano Numenio

III. Ipotesi di lavoro
1. La componente dogmatica di Pirrone e le sue ascendenze eleatico-megariche
2. Lo scetticismo di Pirrone come rovesciamento della ontologia aristotelica
3. Il nucleo centrale del pirronismo è una sorta di eleatismo in negativo
4. Influssi sul pensiero di Pirrone della rivoluzione della tradizionale visione greca del mondo e della vita operata da Alessandro
5. L’influsso dell’Oriente

IV. Conclusioni

Bibliografia essenziale su Pirrone


L'autore

Giovanni Reale è uno dei massimi studiosi del pensiero antico e insegna “Storia della filosofia antica” presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Tra le numerose opere, ricordiamo la Storia della filosofia greca e romana (nuova edizione in 10 volumi, Bompiani, 2004).

Conni, Carlo - De Monticelli, Roberta, Ontologia del nuovo. La rivoluzione fenomenologica e la ricerca oggi.

Milano, Bruno Mondadori, 2008, pp. 272, € 19,00, ISBN 9788861591127.

Recensione di Giuseppe Sorgente – 13/02/2009

Filosofia italiana, Fenomenologia, Ontologia

La necessità di riconsiderare la fenomenologia come strumento di revisione della ontologia, il modo di concepire i rapporti tra realtà ed apparenza, il rapporto tra essenza e concetto, il rapporto tra ricerca filosofica e neurobiologica, questi alcuni dei temi affrontati nel volume che risulta strutturato in due parti, la prima di Roberta De Monticelli e la seconda di Carlo Conni.
De Monticelli evidenzia la necessità di operare “una vera e propria rivoluzione nel modo di concepire i rapporti fra apparenza e realtà” (p. 9); quando si pensa, ad esempio, a una cosa, a una persona si tende a operare una distinzione tra ciò che ‘fonda’ e ciò che è ‘fondato’ attribuendo tra l’altro ­– si pensi soprattutto alla persona – più importanza sotto il profilo ontologico a ciò che ‘fonda’. Questa, però, non è l’ontologia tout court, ma solo una della possibili ontologie; si impone pertanto una revisione dell'ontologia, che si concreta nella fenomenologia. Essa ridefinisce completamente il rapporto tra realtà e apparenza: il ‘fenomeno’ non è solo l’apparenza della cosa ma piuttosto la sua ‘struttura emergente’ (definizione utilizzata per la prima volta dall’altro autore del testo, Carlo Conni, ma studiata dal fondatore della fenomenologia, Edmund Husserl, seppur con termini differenti, a partire dalla Terza ricerca logica). L’identità delle cose si manifesta già attraverso la loro espressione superficiale; muta così anche il concetto di dato: non più mero segno della cosa, ma pienezza della cosa stessa (p. 11). Il fenomeno diviene dunque ‘ricchezza ontologica’ di ciascuna cosa. L’autrice prosegue nel suo excursus con alcune nozioni di Husserl. Tra queste ritorna più volte quella di ‘vedere eidetico’ (p. 15) o essenziale, che rimane ben distinto dal vedere empirico eppure da esso inseparabile. Di qui scaturisce il principio sintetizzato nella tesi “Niente appare invano” (p. 16). Non c’è fenomenologia senza aver dinanzi agli occhi qualcosa di dato.
L’esposizione delle varie tesi e regole della fenomenologia, l’approfondimento di alcuni aspetti quali ad esempio l’a priori materiale (p. 21), dove a priori sta per eidetico e materiale sta per dotato di contenuto, la contrapposizione tra ‘a priori kantiano’, che postula un caos del dato che poi viene organizzato mediante l’attività ordinatrice dell’intelletto e della ragion pratica e ‘a priori materiale’ che riconosce all’esperienza sensoriale ordine, forma e struttura, occupano la parte centrale della sezione dell’autrice.
Menzione particolare merita, per la centralità nel pensiero fenomenologico, quell’attività di depurazione e liberazione, oggettiva e soggettiva, ‘predicata’ da Husserl e nota come riduzione fenomenologica; De Monticelli ne fornisce la sequenza: la ‘sosta’, l’epoché ossia la sospensione del giudizio, la messa tra parentesi della conoscenza del fenomeno apparso, la riduzione dell’io all’‘Io puro’. Il passaggio successivo è quello di definire la coscienza in ambito fenomenologico: coscienza in fenomenologia è sinonimo di ‘presenza di oggetti’.
Nella seconda sezione, l’autrice enuncia alcune tesi metafilosofiche e sostanziali, e alcune regole. Di particolare interesse e ulteriormente esplicativa della riduzione fenomenologica, appare la tesi “sii disponibile a ‘dare la tua vita’ per la ricerca filosofica” (p. 64) dove l’espressione ‘dare la tua vita’ non va intesa in senso drammatico, ma semplicemente serve a evidenziare che in fenomenologia non esiste sapere accumulato e che se di vivere si deve parlare, si vuole parlare di esperienza vissuta.
La trattazione fenomenologica prosegue con le tesi che sintetizzano e riproducono in maniera fedele lo spirito dei fenomenologi: il principio di evidenza, il principio di trascendenza e la regola di fedeltà. Gettate le basi teoretiche si tratta di delineare quali sono i tipi ultimi di realtà, reciprocamente irriducibili, già citati nella tesi di esistenza dei dati empirici (p. 18): la risposta ancora una volta la fornisce il programma di ricerca della filosofia fenomenologica con le cosiddette ‘regioni ontologiche’ e le relazioni che intercorrono tra le stesse. Husserl nei Prolegomeni distinse tra ‘ontologia formale’ (studio delle forme del qualcosa in generale) ed ‘ontologia materiale’ (proprietà essenziali di specifici tipi di enti ovvero le cosiddette ‘regioni ontologiche’ di appartenenza) dove materiale, anche in questo caso, è sinonimo di contenutistico; da queste considerazioni husserliane, riprese da De Monticelli, è implicato il rifiuto della riduzione ontologica sic et simpliciter degli enti, cioè il rifiuto della scomposizione di una cosa – oggetto, fatto, evento, processo – nei suoi componenti singoli. Husserl propose essenzialmente tre tipi di regioni ontologiche: Natura Materiale, Vita Animale e Persona dando vita ad un programma di ricerca ontologica differenziata noto come ‘fenomenologia trascendentale’.
A questo punto della ricerca si pone il problema dei rapporti esistenti tra le diverse regioni ontologiche; l’autrice ne dà un cenno, richiamando le teorie husserliane della Fundierung, di intero e di concreta (nozione non primitiva, derivata dalla nozione di intero). In sostanza regioni ontologiche diverse vanno concepite come strati di realtà legati da rapporti di Fundierung. Questa impostazione consente così di arrivare al principio di definizione ontologica secondo cui le regioni ontologiche sono definite da ‘enti concreti’, mentre gli oggetti delle scienze positive sono momenti di concreti ossia oggetti astratti. Accennata la regione ontologica della persona, il programma di presentazione affronta le questioni afferenti alla teoria dell'esperienza; rimarca l'importanza della esperienza diretta, proponendo una schematizzazione dei modi di presenza degli oggetti (p. 92), fornisce la nozione di originario nell'accezione fenomenologica, ossia origine dell'evidenza o sorgente di evidenza, illustra due dei modi ulteriori dell'esperienza: il modo del sentire (o della percezione affettiva) e della presenza degli altri come tali (toccando anche il concetto di empatia); evidenzia la possibilità di un legame (e la sua auspicabilità come sembra intendersi dal testo) tra ricerca empirica e filosofica prendendo spunto dalle scoperte della scuola di Parma sui neuroni specchio. Nella parte finale De Monticelli tratteggia una teoria della ragione distinguendo tra l’altro ragione teorica o logica e ragione pratica, richiamando per le sue tesi il concetto di evidenza (p. 100).
La seconda parte del testo, di Carlo Conni, naturale prosecuzione della disamina fenomenologica di De Monticelli, esemplifica l’applicazione della fenomenologia come metodo di ricerca filosofica nell'ontologia del concreto. Rimarcando la centralità della percezione nel programma fenomenologico, l’autore ci riporta a uno dei capisaldi del pensiero husserliano, ossia quello di andare verso le cose stesse (zur Sache selbst), attraverso gli strumenti della teoria degli interi e delle parti, e dell’‘a priori materiale’. Si viene così valorizzando una forma di realismo diretto secondo cui le cose sono dotate, proprio per il modo in cui si manifestano, di caratteri e significati che prescindono da qualsiasi tipo di elaborazione ermeneutica o intellettuale. La necessità, già tematizzata da Husserl, di sviluppare una scienza delle operazioni umane originarie costitutive della realtà circostante richiede una svolta della fenomenologia in senso ontologico e descrittivo, il cui punto di partenza è quello di abbandonare l’approccio classico della scienza occidentale; il fenomeno va considerato come plenum e non come sintesi ottenuta tramite riflessione e astrazione. La riattualizzazione di tale approccio si ritrova anche in alcune aree della ricerca sull’attività dei sistemi neurali del cervello (neuroni specchio), che Conni tratta brevemente. Lo sviluppo del programma dell’autore prosegue nella fondazione di un’ontologia che possa fornire solido terreno di ancoraggio per il programma di ricerca dell’a priori materiale; in questo ambito viene quindi esplicitato il concetto di fenomeno puro così come lo intendeva Husserl: fenomeno puro è quel contenuto depurato sia del lato soggettivo sia di quello oggettivo. Ciò che resta è allora quella che l’autore, con espressione appositamente coniata, definisce ‘struttura emergente’, dove l’emergenza è una modalità ontologica costitutiva dei fenomeni. Partendo da questa definizione Conni giunge a porsi la domanda: “Che relazione sussiste dunque fra il nostro mondo, costituito di qualità, valori, proprietà, e il mondo materiale?” (p. 159). Per rispondere, riprende la nozione di Fundierung, riportando la tesi di Husserl secondo cui ciò che unifica realmente gli strati di ogni cosa sono i rapporti di fondazione, relazione primitiva che unifica istanze di regioni ontologiche materiali distinte. Qualsiasi tentativo di esperire i fenomeni operando una loro riduzione o scomposizione (approccio tipico della ricerca empirica) si traduce in una perdita o in un'alterazione del livello descrittivo, che proprio in qualità di struttura emergente, funge a un tempo da spiegazione e da descrizione della realtà oggetto dell’indagine. Ma se le proprietà e le qualità non sono separabili dagli interi che le contengono, come è possibile determinarle? La risposta viene fornita mediante una strategia di tipo descrittivo (scevra da riduzioni basate su meccanismi di causalità): la teoria dell’emergenza fenomenica.
Lo sviluppo del ragionamento porta a un altro importante nodo da sciogliere: è possibile affermare, oltre al fatto che le relazioni di fondazione attengono ai rapporti fra parti, ovvero tra parti e interi, che gli interi composti di parti siano a loro volta fondati nelle loro parti? (p. 170). Husserl lo afferma en passant nella Sesta ricerca logica, mentre Peter Simons, docente di filosofia all’Università di Leeds, lo considera possibile soltanto debolmente, nel senso che un intero dipende dalle sue parti, distinguendo così dalla Fundierung già affrontata, intesa come fondazione forte. La risposta al problema della fondazione intero-parte e della sua articolazione viene ancora una volta risolto, proprio per il suo carattere di struttura globale, dalla struttura emergente. Sviluppando il proprio programma, Conni richiama il concetto di fondazione unitaria, peraltro già preconizzato da Christian von Ehrenfels, filosofo austriaco contemporaneo di Husserl, nel suo saggio Le qualità formali (1890) e affronta la teoria husserliana degli interi e delle strutture, necessaria per delineare un’ontologia del nuovo e dei fenomeni, soffermando la sua attenzione sui sistemi autopoietici. I sistemi autopoietici sono sistemi (strutture pregnanti in fenomenologia) le cui relazioni interne determinano l’organizzazione del sistema stesso. A partire dall’autopoiesi del sistema individuo è possibile comprendere la fenomenologia biologica. Il lavoro dell’autore si chiude con la considerazione che non è possibile determinare l’emergenza di una struttura inferendola dalla natura dei suoi elementi di base, poichè, essendo un contenuto di esperienza, è solo quando si manifesta che è possibile stabilire un rapporto di necessità con i suoi inferiora (p. 201). L’unità dell’intero è afferrabile dunque dal soggetto in un unico atto intenzionale. La dimensione fenomenica dell’esperienza è come una sorta di ponte tra la materia e la vita, tra le persone e la realtà fisica degli oggetti, quello che appunto l’autore definisce come ‘regno di mezzo’.
Tutto il testo lascia trapelare l’entusiasmo e la passione con cui i due autori cercano di promuovere la fenomenologia come mezzo utile alla ricerca filosofica e scientifica e come metodo per la fondazione e la comprensione di una nuova ontologia o meglio di una ontologia del nuovo; entrambi dunque seguono il rigore dei fenomenologi: ‘danno la vita’ per la ricerca filosofica.

Indice

Al lettore: istruzioni per l’uso
Parte prima. La fenomenologia come metodo di ricerca filosofica e la sua attualità
di Roberta De Monticelli
Sezione prima. Esercizi introduttivi e riferimenti di base
La fenomenologia come stile di pensiero filosofico
La fenomenologia come metodo filosofico
Battaglie che durano. La questione dell’oggettività e lo scetticismo
Sezione seconda. Domini di ricerca
Tesi e regole metafilosofiche (M)
Tesi e regole della filosofia fenomenologica
Teoria della realtà
Teoria dell’esperienza
Teoria della ragione. Ragione in senso proprio
La sfera della motivazione e i limiti della ragione
Appendice
Parte seconda. L’emergere del nuovo di Carlo Conni
Ontologia e fenomenologia
Fondazione ed emergenza
Interi e strutture
Il regno di mezzo
Glossario dei termini equivoci
Scheda bibliografica
Bibliografia
Indice dei nomi


Gli autori

Roberta De Monticelli insegna Filosofia della persona presso la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Fra le sue pubblicazioni: L’allegria della mente (Bruno Mondadori, Milano 2004); Nulla appare invano (Baldini Castoldi Dalai, Milano 2006), Esercizi di pensiero per apprendisti filosofi (Bollati Boringhieri, Torino 2006); Sullo spirito e l’ideologia (Baldini Castoldi Dalai, Milano 2007).

Carlo Conni svolge attività didattica e di ricerca presso la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Ha pubblicato Identità e strutture emergenti. Una prospettiva ontologica della Terza ricerca logica di Husserl (Bompiani, Milano 2005).

Link

http://www.unisr.it/persona.asp?id=348 (pagina della Università Vita-Salute San Raffaele di Milano dedicata a Roberta De Monticelli)