Recensione di Davide Sisto – 27/03/09
Estetica
Un’intricata e quantomai contraddittoria dialettica di presenza e assenza, non risolvibile una volta per tutte a favore dell’uno o dell’altro termine opposto, si pone drammaticamente sullo sfondo della ghost-story tra la bellezza e il Novecento, che il presente saggio di Federico Vercellone intende ripercorrere. C’è un ideale di bellezza tipicamente novecentesco? O è vero piuttosto che il Novecento è il secolo nel quale la bellezza non c’è, se non nelle forme grottesche e inautentiche del kitsch? La risposta ai presenti quesiti passa attraverso una “vicenda di fantasmi” (p. 19) che, preso atto a priori di quanto sia arduo l’intendimento di cosa sia effettivamente il bello e del fatto che “la bellezza per lo più nel Novecento non c’è” (p. 7, corsivo nostro), mira nel corso del suo svolgimento a reincarnare e, immediatamente dopo, a disincarnare – una volta ancora – gli spettri concettuali dietro cui si cela la bellezza, seguendo le linee direttive fornite da alcune delle principali teorie estetiche novecentesche. È attorno a quel ‘per lo più’ che il lettore deve focalizzare la propria attenzione, se vuole comprendere la circolarità di un percorso speculativo che, dal declino della bellezza originariamente progettuale, quale misura dell’essere e del cosmo secondo il mito esiodeo, perviene – seppur ironicamente – alla sua rinascita ultima con la pop art e, in particolar guisa, con Andy Warhol, a dimostrazione conclusiva del fatto che nel Novecento “la bellezza pesa sul panorama con tutta la potenza di chi manca; il suo è soprattutto uno statuto evocativo” (p. 19).
Dalla nascita di Afrodite dalle acque, narrata nella Teogonia di Esiodo, alla CocaCola di Andy Warhol: è indubbio che il percorso di ricostruzione della storia della bellezza da parte di Vercellone risulti essere profondamente avvincente, originale e soprattutto imprevedibile nei suoi esiti ultimi. Il punto di partenza di questa complessa ghost-story consiste nel mettere in luce, brevemente, lo specifico statuto morale che l’antichità greca attribuiva al bello, delle cui attenzioni la natura costituiva inopinabilmente l’oggetto precipuo. La bellezza naturale, sorta in Grecia nel segno della contemplazione e incarnata da Afrodite, “quale felice esito di un conflitto crudele, come il generarsi di un ordine a partire da un caos iniziale” (p. 10), trascendeva in toto il campo dell’arte, a cui soprattutto Platone nella Repubblica attribuiva lo statuto della mera apparenza, e assumeva piuttosto un carattere, per così dire, tecnologico o progettuale: essa, quale portatrice di armonia, simmetria ed euritmia, si proponeva come misura e ordine dell’essere e del mondo, una misura e un ordine che garantivano – “in senso lato ecologico” (p. 11) – l’abitabilità del cosmo e che, quindi, facevano, in ultimo, della bellezza il compendio della legalità cosmica. Se ne evince, pertanto, una concezione del bello come immagine ideale del bene e, quindi, come un alcunché di annoverabile tra i principi primi dell’essere, la cui valenza basilare è in tutto e per tutto metafisica. L’incontro tra l’ideale metafisico del bello naturale, coincidente con la grecità classica, e l’opera d’arte avviene per merito di Winckelmann, nella cui descrizione del gruppo del Laocoonte viene messa in luce la relazione della naturalità del bello “a quell’equilibrio delle forze che è un naturale compendiarsi, nel quale non si avverte (o non dovrebbe avvertirsi) lo sforzo della costruzione” (p. 41). Nobile semplicità e quieta grandezza sono gli aspetti che meglio qualificano, per Winckelmann, il gruppo del Laocoonte, in quanto descrivono il superamento del caos originario e l’eliminazione della dispersione energetica, rimandando a un concetto di forma quale ottimizzazione delle energie e contemperamento delle forze in un tutto equilibrato (p. 63).
Tutto ciò comincia a svanire con il Romanticismo, in particolar modo con le inevitabili conseguenze che derivano dalla distinzione kantiana tra giudizio estetico e giudizio teleologico e dal predominio – momentaneo – del primo sul secondo. La supremazia del giudizio estetico determina il passaggio cruciale in cui l’estetica si avvia a divenire filosofia dell’arte, da cui segue il sorgere dell’arte autonoma quale istituzione a sé stante (p. 39) e il mutamento della bellezza da naturale e metafisica ad artistica tout court: in altre parole, “l’arte è venuta così definitivamente sostituendosi alla natura nelle gerarchie della bellezza” (p. 18). È proprio nel trascendimento della natura, intrinseco allo sviluppo della filosofia dell’arte nell’Ottocento, che, per Vercellone, il bello in quanto ideale si avvia a perdere il suo punto di orientamento primario e quindi all’inevitabile tramonto che l’attende nel Novecento, e l’arte, da par sua, resasi consapevole di tutta la sua insufficienza a dar voce alla bellezza, si condanna – per il suo carattere costruito e artificioso – alla mortalità di hegeliana memoria: la bellezza, infatti, facendosi bellezza artistica e quindi prendendo forma nell’esclusivo ambito dell’arte, perde la sua qualità morale di misura dell’essere e cade, una volta acquisito un carattere di mera marginalità cosmica, in intima contraddizione con se stessa. Nel momento in cui si riveste definitivamente di un aspetto tecnico-costruttivo, facendosi opera e incarnandosi in un manufatto, la bellezza edifica se stessa e, pertanto, giunge all’ultima tappa del suo cammino, al paradosso, cioè, di una misura che diviene misura di sé (ibid.).
Il declino del bello nella sua valenza principalmente naturale e morale, che si avvia nell’Ottocento, non può quindi che andare di pari passo con la crisi metafisica, accertata soprattutto da Nietzsche e da Spengler, della ragione morfologica di modello goethiano, “quel modello di ragione che ritiene che l’idea, il principio della forma, si annidi nella realtà e che essa pertanto possa essere reperita qui grazie a un approccio intuitivo che si ribalta, sul piano dell’articolazione razionale, non sul piano concettuale ma su quello della descrizione” (p. 55). In altre parole, con la frattura insanabile che caratterizza il rapporto tra antico e moderno, si perviene man mano alla dissoluzione della forma quale analogon della bellezza, goethianamente intesa come sorgente da un processo formativo o come genesi che, dinamicamente, riesce a raccogliere e a dare equilibrio alle spinte centrifughe e centripete che contraddistinguono il suo divenire, fino al raggiungimento ultimo di un’armonica compiutezza. A far confluire il romanticismo nell’avanguardia è proprio la progressiva configurazione di forme dai tratti conflittuali, aperte e anticlassiche, che, perduta la capacità di contenere e di aggregare, spingono l’arte autonoma alla sua decadenza e a “uno svuotamento infinito, che dovrebbe infine ricongiungerle a quella vita dalla quale esse hanno preteso di emanciparsi” (p. 48).
La nichilistica dissoluzione formale e la crisi della ragione morfologica, i cui effetti si riscontrano già nel campo del gotico (pp. 89-107) e a cui si accompagna il venir meno di qualsivoglia norma suprema o di ogni punto di riferimento ideale e ben definito, generano la sempre più palese vocazione nominalistica nell’estetica contemporanea, la quale si traduce soprattutto nell’opposizione radicale dell’arte alla filosofia e alla sua specifica ricerca della verità: “l’arte non intende più appartenere al cosmo filosofico delle categorie estetiche, ma si propone come motivo di salvezza o, quantomeno, come evento assoluto” (p. 108). In altre parole, dissolta “ogni disciplina o normativa che sia esterna alle opere stesse e che le trascenda con un’autorità avvertita come sovrastante e inaccettabile” (p. 92), ogni opera d’arte viene intesa soltanto a partire da se stessa, quale evento che incarna – senza la mediazione di concetti o generi prestabiliti – il vero. Il trascendimento dei confini della coscienza estetica e il farsi evento della singola opera d’arte, che conseguono dal passaggio dalla crisi della ragione morfologica all’imporsi del nominalismo estetico, inaspriscono il rapporto già di per sé conflittuale tra arte e bellezza, rapporto che appunto si nutre della profonda tensione che vige tra il campo artistico e quello filosofico, in relazione all’influenza che il secondo pretende di avere sul primo. Tenuto conto del fatto che i termini di una simile tensione sono tutt’altro che omogeneamente definiti, Vercellone vede la storia della bellezza pervenire al suo capolinea ultimo soprattutto con il pensiero di Adorno e di Heidegger. Se Adorno, volendo far valere i diritti della filosofia nei confronti dell’arte, giunge alla convinzione che il riconoscimento dell’antico ruolo regale del bello non possa più collimare con le tragedie del mondo – dopo Auschwitz “la filosofia deve rinunciare a qualsiasi tentazione di legittimare l’esistente” (p. 124) e, pertanto, la bellezza, così come il vero e il buono, non può più permettersi di abitare il mondo –, Heidegger, invece, all’opposto, acuendo l’autonomia dell’arte rispetto alla filosofia e insistendo sul fatto che l’arte debba riprendere su di sé la propria verità, porta alle estreme conseguenze il nominalismo estetico di cui sopra; carica, cioè, la singola opera di un valore artisticamente universale che trascende la sua singolarità e, in tal modo, la esautora.
Le estetiche di Adorno e di Heidegger, nell’emancipare – volens nolens – una volta per tutte la verità dell’arte dall’ingombrante presenza della filosofia, fanno sì tuttavia che l’opera d’arte “viva la solitudine estrema della libertà finalmente conquistata” (p. 151), solitudine estrema che si traduce in un processo di “dissoluzione energetica dell’opera” stessa, durante il quale l’autonomizzarsi delle sue componenti va di pari passo con lo smembramento del suo corpo. Attraverso un movimento che dal surrealismo e dall’espressionismo astratto arriva fino alla pop art, si prefigura l’intento principale dell’avanguardia artistica che, sorta “da un gesto di protesta nei confronti dell’arte autonoma” (p. 152), cerca di restituire paradossalmente l’arte alla vita. Si comprende, allora, come il motto Coca.Cola is who we are di Andy Warhol rappresenti – con indubitabile sarcasmo – il ritrovato ruolo della bellezza come progetto o promessa di essere misura di questo mondo: “la CocaCola – conclude Vercellone – è sia ciò che beviamo (e di cui, se ci piace, godiamo) sia una componente del nostro immaginario e del suo ordine oggettivamente scandito dalle scansie di un grande magazzino. La CocaCola sancisce in questo modo la nostra identità collettiva” (p. 24). Con Warhol si ha, così, l’ironica rivincita del giudizio teleologico su quello estetico, il ritorno dell’antica prossimità tra il bello e la natura e, in ultimo, la rivendicazione – secondo un auspicato rinnovamento della ragione descrittiva e morfologica di modello goethiano – delle prerogative ecologiche della bellezza quale progetto contro la devastazione attuale offertaci, nostro malgrado, dallo spettacolo del mondo.
Indice
Introduzione. Bellezza e Novecento
I. Il tramonto romantico della bellezza
II. La forma che non contiene. Da Nietzsche a Spengler
III. Dal moderno all’avanguardia
IV. Dalla negatività all’evento. Adorno dopo Heidegger
V. La dissoluzione dell’opera e la rinascita della bellezza antica
Conclusioni. Ancora una volta il classico
Bibliografia
I curatori
Federico Vercellone insegna Estetica presso le Università di Torino e di Udine. Fra le sue pubblicazioni ricordiamo: “Introduzione a Il Nichilismo” (Laterza, 1992); “Nature del tempo. Novalis e la forma poetica del romanticismo tedesco” (Guerini e associati, 1998); “Morfologie del moderno” (Il melangolo, 2006); con il Mulino “L’estetica dell’Ottocento” (1999), “Storia dell’estetica moderna e contemporanea” (con A. Bertinetto e G. Garelli, 2003) e “Lineamenti di storia dell’estetica. La filosofia dell’arte da Kant al XXI secolo” (con A. Bertinetto e G. Garelli, 2008).
Links
Centro Interdipartimentale di Ricerca sulla Morfologia “Francesco Moiso”, di cui Vercellone è Direttore: http://www.uniud.it/ricerca/strutture/centri_interdipartimentali/cirm.
Associazione Italiana degli Studiosi di Estetica, di cui Vercellone è Presidente: http://www.filosofia.unibo.it/aise/Prima%20pagina.htm.
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