Recensione di Alessandro Fiengo – 09/08/2009
Estetica
L'immagine, che sia ciò che abbiamo davanti mentre camminiamo o il risultato di un complesso artificio tecnico, è al centro dei diversi contributi che compongono Sensibilia 1, 2007. Il volume, a cura di Tonino Griffero e Michele Di Monte, raccoglie alcune delle domande, riflessioni e possibili risposte circa le immagini, ma soprattutto rispetto alla loro valenza sensibile e alle modificazioni concrete che possono esercitare sull'uomo. È possibile definire Sensibilia 1, 2007, e soprattutto le conferenze che hanno preceduto la pubblicazione del volume, come un territorio di incontro tra diverse discipline, con lo scopo preciso di permettere il dialogo interdisciplinare e sondare la possibilità di nuovi scenari nell'indagine sullo statuto dell'immagine. Uno dei presupposti fondamentali di Sensibilia, tra gli altri, è di ripensare l'estetica in senso più ampio, interrogandosi non più solo sul bello e sull'arte ma, secondo l'etimo stesso della parola, soprattutto sulla sensibilità (percezione, sensazione, esperienza). Il testo affronta così una riflessione sul rapporto tra l'uomo, i sensi e il mondo, sulla capacità di percepire le immagini e di subirne gli effetti in termini di comportamento, scelte, volontà.
Al centro del volume, come osserva Boehm, la questione controversa e aperta riguardo l'episteme iconica: “Immagine e linguaggio, dire e mostrare si trovano in relazioni reciproche di tipo asimmetrico nelle quali entrambi i lati rivendicano un loro diritto irrinunciabile. E quindi lo rivendica appunto anche l'iconico” (p. 14). Boehm ricolloca il mostrare, che avviene attraverso l'immagine, all'interno delle possibilità di conoscenza e sapere, non riconoscendo come unici e assoluti i saperi mediati da una logica della predicazione o per meglio dire dal linguaggio, che persegue un andamento binario e che, a differenza dell'episteme iconica, chiude lo spazio di possibilità di una lettura del mondo. Il mostrare e l'immagine operano proprio attraverso sfumature, imprecisioni secondo una prospettiva inclusiva, in un gioco di rimandi con l'immaginazione di chi percepisce. Emerge così un'episteme iconica che sfugge alla predicazione e al linguaggio, una logica che la cultura occidentale ha tralasciato, privilegiando la scrittura. La vicinanza linguistica dei termini imaginatio e imago, immaginazione e immagine, costituisce per Boehm la possibilità del salto, continuamente compiuto dall'uomo, oltre i limiti imposti dalla realtà: l'immagine schiude così uno spazio di ulteriorità, all'interno del quale l'uomo esercita la propria libertà rispetto al mondo. Quello che in termini epistemici è uno spazio inclusivo del non detto, aperto dall'immagine rispetto alla scrittura intimamente esclusiva, uno spazio di ulteriorità, è la base della rivalsa, se così possiamo chiamarla, dell'uomo sul mondo, della sua possibilità di immaginare, fantasticare nonostante i dati di fatto. È questo, del resto, un altro dei motori del progresso umano: poter intuire un mondo, oltre le evidenze fattuali, trascendere in immagine la datità.
Partendo proprio dalle domande rispetto all'immagine e alle caratteristiche di un buon lettore, Maria Giuseppina Di Monte, trattando tra l’altro di V. Nabokov, A. Giacometti, G. Boehm, Caravaggio, L. Lotto, H. Daumier, Picasso, Cèzanne, confronta la fruizione di un testo e quella di un'immagine, dimostrando come entrambe richiedano una serie di elementi (immaginazione, senso artistico, memoria) e di conoscenze, oltre al tempo, per essere effettivamente comprese. L’importante è continuare a guardare le opere, con uno sguardo sempre nuovo e aperto alla piena percezione di esse, dimostrando infatti come le definizioni di genere e la collocazione storica non riescano ad essere esaustive e comprensive, ma siano sottoposte a oscillazioni proprio dalle opere stesse, che continuamente mettono in gioco, nella dinamica creativa ma anche con l'osservatore stesso, le categorie di somiglianza e differenza.
Michele Di Monte procede poi, in dialogo con autori come Fodor, Goodman e Wollheim, attraverso i concetti di riconoscimento e somiglianza, nel tentativo di stabilire un rapporto tra l'immagine e il rappresentato, ma soprattutto di definire la natura propria dell'immagine e il suo potere di richiamarsi ad un oggetto della realtà senza essere l'oggetto stesso o condividendone solo alcune caratteristiche.
Giovanni Matteucci compie un interessante arco argomentativo rispetto alla possibilità dell'immagine di evocare un pensiero o comunicare un pensiero: “non sorprende allora che si parli addirittura di 'immagini filosofiche', intendendo strutture iconiche in cui è sedimentato un raffinato importo concettuale a cui si accede innanzitutto in virtù della compagine figurale” (p. 109). È questo il punto di partenza per una serie di interrogativi, mediati soprattutto dalla lettura di Gehlen, relativi alla distinzione tra segno ed immagine e alla capacità dell'immagine di comunicare contenuti di pensiero nell'articolazione del come e del che cosa: cosa ci comunica un'immagine e come un'immagine può comunicare pensiero? Il problema mette in gioco le categorie di a-priori e a-posteriori, il rapporto tra soggetti che interagiscono e l'aisthesis, intesa come quella esperienza percettiva alla quale spetta nella sua stessa articolazione, nel suo 'mentre' costitutivo del rapporto tra soggetto e oggetto, generare la risposta.
Marta Olivetti Belardinelli e Massimiliano Palmiero, portando il contributo della psicologia sperimentale, indagano le modalità di rappresentazione mentale quale risultato dell'organizzazione di diverse informazioni provenienti dai canali sensoriali. Attraverso una serie di questionari specifici si cerca di stabilire quale canale sensoriale prevalga nella capacità di costruire delle immagini mentali. È possibile così costruire una mappa cerebrale più precisa del diverso livello di vividezza delle immagini (rispetto alla formulazione di un concetto astratto o più legato al vissuto esperienziale).
In una prospettiva più culturalista, che non conferisce all'immagine una intrinseca natura epistemica, si muove il saggio di Elio Franzini, che, discutendo vari autori di area fenomenologica (in primis Husserl e Dufrenne) e ridefinendo il simbolo come aggregazione di differenti stratificazioni culturali ed esperienziali che rimanda continuamente al non visibile, alla forza immaginativa dell'osservatore, lo accosta alla modalità stessa di esperienza compiuta dall'uomo rispetto al mondo, attraverso i sensi e la memoria.
Isabella Pezzini evidenzia quanto profondamente le stesse immagini siano intrise, per effetto sia di sedimentazione che intenzionalmente, di stratificazioni semiotiche che non sempre permettono la comunicabilità e la comprensione del contenuto:”negli oggetti testuali che manipoliamo e nei flussi discorsivi che ci avvolgono quotidianamente, compresi quelli artistici, a essere dominante risulta piuttosto la pluralità dei modi semiotici” (p. 164). Emerge così l'esigenza di indagare le immagini e la semiotica ad esse soggiacente (in riferimento, tra gli altri, ad autori come Peirce, Greimas, Fontanille e a uno scrittore come Sebald) nel momento stesso della creazione, nelle loro precondizioni, allo scopo di comprendere meglio gli effetti su chi le percepisce.
Antonio Somaini indica l'interesse crescente che l'immagine e l'esperienza visiva in generale hanno avuto negli ultimi anni in tutti gli ambiti disciplinari. Una tale importanza nelle considerazioni sulle immagini ha chiaramente conseguenze enormi all'interno di quella che possiamo definire una cultura visuale e anche sulla capacità di conoscenza che l'uomo può avere nel campo sociale, culturale, storico e tecnico.
Partendo dal carattere più specifico dell'immagine, Tonino Griffero fa riaffiorare la domanda sul potere che le veniva attribuito in contesti sociali premoderni, la capacità (discussa soprattutto in riferimento a Paracelso e Böhme) di agire a distanza sia come oggetto fisico sia come immagine mentale: “ci pare che essa (tale credenza, n.d.r.) valorizzi in modo particolarmente perspicuo l'idea per cui l'immaginazione si situa al confine tra l'attività dei sensi e la vita dello spirito, incarnando così eminentemente quello che potremmo chiamare il polo psicosomatico della nostra cultura” (p. 75). L'intento è di indagare, tra gli altri, il concetto di immaginazione transitiva, ripercorrendo le diverse sfaccettature, evoluzioni e illusioni (jettatura lanciata con lo sguardo, le voglie sulla pelle del nascituro, le deformità fisiche) che l'immagine e l'immaginazione hanno determinato nella storia dell'uomo.
Salvatore Patriarca compie un'indagine più storica, a partire dalle immagini di Lascaux, indagate attraverso le prospettive antropologica, estetica e intersoggettiva (rispettivamente Bataille, Blanchot, Flusser), e sottolinea diversi aspetti connessi alla comparsa delle immagini nella storia dell'uomo. Dalla pittura parietale fino alle tecnoimmagini, passando per la scrittura, vengono individuati i diversi distanziamenti operati dall'uomo, prima rispetto al mondo stesso e poi rispetto ai concetti.
Andrea Pinotti, attraverso un'analisi apparentemente tecnica delle diverse modalità narrative applicabili all'immagine e delle frequenti ibridazioni che è possibile rinvenire non solo nella contemporaneità ma anche nel passato, solleva nuovamente le questioni legate al rapporto tra immagine e narrazione, tra il testo e l'immagine, la conoscenza pregressa dell'osservatore rispetto a ciò che trova raffigurato nelle immagini e il rapporto tra tempo e spazio nell'immagine.
Infine Paolo Sanvito, centrando il suo intervento sulla figura di Cusano, illustra la profonda influenza che la tecnica artistica e le sue innovazioni hanno avuto nelle formulazioni scientifiche e nel concetto di immagine. In particolare il fenomeno dello “sguardo attivo” all'interno dei quadri è uno spunto di grande interesse per un confronto europeo sulle questioni della vista, dell'immagine e dell'immaginazione, permettendo la razionalizzazione di una serie di questioni teologiche legate allo sguardo di Dio, alla conoscenza e all'osservazione della luce.
Al centro di gran parte dei saggi troviamo dunque la capacità dell’immagine di essere usata nel pensiero, di contribuire alla narrazione, di amplificare la capacità suggestiva e instillare nel contesto in cui di volta in volta si presenta una sorta di anima pulsante, in grado di superare i confini del linguaggio e arrivare direttamente alla persona, di penetrarvi, modificandone non solo lo stato emotivo e il patrimonio cognitivo ma anche, tramite l’affettività, la dimensione corporea.
Il meno che si possa dire è che il concetto di immagine perde così l'apparente immediatezza che si tende ingenuamente ad attribuirgli, in particolare nell'attuale inflazionata declinazione mediatica. L’immagine si dissolve in una sorta di prisma concettuale che mette in luce le più diverse possibilità di analisi, non esclusa quella che spiega l’efficacia delle immagini risalendo alla loro genesi e ai meccanismi con cui le si produce.
È possibile così raccogliere indicazioni interessanti, e interessanti proprio perché differenziate e interdisciplinari, sulle condizioni di possibilità del passaggio – transizione e transazione – dall'immagine al suo osservatore (e alla realtà).
Una ulteriore linea di ricerca potrebbe allora concentrarsi proprio sull'analisi della modalità di produzione dell'immagine. In sintesi: che cosa avviene nell'uomo e per l'uomo quando egli produce un'immagine? E fino a che punto l'osservazione di un'immagine e le reazioni prodotte dalla sua apparizione possono realmente essere fatte risalire al generale complesso di meccanismi generativi dell’iconico? Domande alle quali il volume allude, suggerendo possibili sviluppi e sottolineando, se ancora ce ne fosse bisogno, le enormi potenzialità filosofiche dell’indagine sulla cosiddetta “svolta iconica”.
Indice
Michele Di Monte, Tonino Griffero - Introduzione
Gottfried Boehm - Il paradigma “immagine”. La rilevanza dell'episteme iconica
Maria Giuseppina Di Monte - Il ritratto tra genere e storia
Michele Di Monte - Eikon deloi. Il buon esempio delle immagini
Elio Franzini - Immagini del corpo
Tonino Griffero - Il potere (a distanza) delle immagini
Giovanni Matteucci - Può un'immagine pensare
Marta Olivetti Belardinelli, Massimiliano Palmiero - La vividezza delle Immagini mentali nelle diverse modalità sensoriali: uno studio fMRI
Salvatore Patriarca - La magia delle immagini: da Lascaux alle tecnoimmagini
Isabella Pezzini - I poteri dell'immagine in prospettiva semiotica
Andrea Pinotti - Narrativa muta. Immagine e storia
Paolo Sanvito - Il concetto di immagine e immaginazione nella dottrina della percezione e nell'estetica di Nicola da Cusa
Antonio Somaini - Sul concetto di cultura visuale
Tonino Griffero è professore di Estetica nell’Università di Tor Vergata, direttore della Collana ”Le parole e le cose. Itinerari di Filosofia” (Ed. Armando). Tra le sue pubblicazioni: Interpretare. La teoria di Emilio Betti e il suo contesto (Torino 1988); Spirito e forme di vita. La filosofia della cultura di Eduard Spranger (Milano 1990); Senso e immagine. Simbolo e mito nel primo Schelling (Milano 1994); Cosmo Arte Natura. Itinerari schellinghiani (Milano 1995); L’estetica di Schelling (Roma-Bari 1996); Oetinger e Schelling. Teosofia e realismo biblico alle origini dell’idealismo tedesco (Milano 2000); Immagini attive. Breve storia dell’immaginazione transitiva (Firenze 2003); Il corpo spirituale. Ontologie “sottili” da Paolo di Tarso a Friedrich Christoph Oetinger (Milano 2006).
Michele Di Monte insegna Iconografia e iconologia nell’Università Cà Foscari di Venezia e Teoria e tecniche della comunicazione estetica nell’Università di Roma Tor Vergata. È curatore presso la Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Corsini a Roma. Ha curato volumi su temi di storia e teoria dell’arte, tra i quali: (con R. Bösel, M.G. Di Monte, S. Ebert Schifferer) L’arte e i linguaggi della percezione. L'eredità di Sir Ernst H. Gombrich (Milano 2004); Paesaggio («Rivista di Estetica», n.s., 29, 2/2005); A. Danto, N. Carroll, M. Rollins, La storicità dell’occhio. Un dibattito (Roma 2007). Di prossima pubblicazione un volume dal titolo L’apparenza in pittura.
16 commenti:
Il recensore Alessandro Fiengo mostra di trascurare significato del titolo del volume: “Potere delle immagini?", e dando nozione di presupposto ai lavori ne considera solo il valore omologo ed a causa di ciò offre rassegna soggettivamente guidata ed oggettivamente inconsistente, datoché stessa recensione si riferisce ad interezza di lavoro. Il recensore non tiene in dovuto conto l'interrogazione espressa da stessa frase di stesso titolo quindi non riferisce abbastanza di àmbito iconico dello studio sulla realtà delle immagini; che invece ricerca intellettuale collettiva testimoniata dal volume recensito lascia individuare certo non identificare, per tautologia non conchiusa, più o meno implicitamente da implicitezza, secondo unica possibilità fornita dal registro percettivo-sensoriale non sensoriale-percettivo, piano non scopo di lavoro stesso cui pubblicazione recensita riferisce e che recensione menziona solamente. Il recensore dando ugualmente informazione su pubblicazione stessa però non ne informa completamente. Tale parzialità di fatto corrisponde — non saprei se da parte di recensore stesso intenzionalmente o volontariamente o diberatamente o soltanto necessariamente, per destinazione principale di azione oppure atto recensivi — a premesse di materialismo marxista, che degli studi su immagini ed immaginazioni aveva, ha per quanto di esso resti, metodo di presentazione logico-deduttivo, talché tutto l'impresentabile a causa di stessi limiti della non direttività logica-deduttiva sia addotto ad àmbito segnico non simbolico e ridotto ad identità con stessa impostazione di presentazione attuata, sicché tutto quanto e quale di altro non è tale identificabile né identificato in presentare medesimo (stessa tattica non immaginifica usata durante periodi di stalinismo sovietico per organizzare i culti idolatrici delle immagini false di Regime).
In particolare la evidenza di realtà assoluta, teologica, in ultima sezione della pubblicazione recensita, riceve senso filosofico dall'argomentare interrogativo introdotto dal titolo di stessa pubblicazione; che altrimenti sarebbe sia pur non errore filosofico ma pur sempre un errare filosoficamente e che invece è una epistemologia interna a gnoseologia propedeutica a riflessioni filosofiche su totalità del rappresentare il mondo tramite immagini, completezza che in tempi di impolitiche-economiche-nichiliste inflazioni immaginative - svalutazioni immaginifiche, per intero Occidente dilaganti (in tal senso riflessione di Boehm non adeguatamente contestualizzata non è assolutista ed è relativizzabile), resta a suo modo salvifica indicazione di un restante senso, che se trascurato in vasti ambienti occidentali condurrebbe la politica occidentale ad altrettanto vasta catastrofe sociale.
La via altra, segnata dalla funzione iconica delle immagini sensibili, però non porta ad un pensiero direttamente teologico-spirituale ma solamente religioso-teologico; né servirebbe ad inquadrare la cultura iconografica propriamente detta, potendone solo con parzialità iconostatica, per esperienza di sola psicologia fisiologica o psicoanalisi delle percezioni però senza compresenza occultante di psicologismi comportamentalisti a far da contraddetto. Il particolare materialismo, cui prospetto recensivo allineato non schierato, con iconologica psichicità perde sia confrontabilità filosofica che forza antifilosofica contraria ad intelligenza vitale.
MAURO PASTORE
In mio precedente messaggio 'diberatamente' sta per:
deliberatamente .
Sono spiacente per inconveniente di scrittura, accaduto a causa di altro cui sono stato costretto a pensare scrivendo... datoché udivo e percepivo minacciosità contro di me e non solo contro di me. Comunque reinvierò messaggio con testo corretto.
Non essendo Internet una libreria, basta ultimo reinvio se sufficiente.
MAURO PASTORE
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Il recensore Alessandro Fiengo mostra di trascurare significato del titolo del volume: “Potere delle immagini?", e dando nozione di presupposto ai lavori ne considera solo il valore omologo ed a causa di ciò offre rassegna soggettivamente guidata ed oggettivamente inconsistente, datoché stessa recensione si riferisce ad interezza di lavoro. Il recensore non tiene in dovuto conto l'interrogazione espressa da stessa frase di stesso titolo quindi non riferisce abbastanza di àmbito iconico dello studio sulla realtà delle immagini; che invece ricerca intellettuale collettiva testimoniata dal volume recensito lascia individuare certo non identificare, per tautologia non conchiusa, più o meno implicitamente da implicitezza, secondo unica possibilità fornita dal registro percettivo-sensoriale non sensoriale-percettivo, piano non scopo di lavoro stesso cui pubblicazione recensita riferisce e che recensione menziona solamente. Il recensore dando ugualmente informazione su pubblicazione stessa però non ne informa completamente. Tale parzialità di fatto corrisponde — non saprei se da parte di recensore stesso intenzionalmente o volontariamente o deliberatamente o soltanto necessariamente, per destinazione principale di azione oppure atto recensivi — a premesse di materialismo marxista, che degli studi su immagini ed immaginazioni aveva, ha per quanto di esso resti, metodo di presentazione logico-deduttivo, talché tutto l'impresentabile a causa di stessi limiti della non direttività logica-deduttiva sia addotto ad àmbito segnico non simbolico e ridotto ad identità con stessa impostazione di presentazione attuata, sicché tutto quanto e quale di altro non è tale identificabile né identificato in presentare medesimo (stessa tattica non immaginifica usata durante periodi di stalinismo sovietico per organizzare i culti idolatrici delle immagini false di Regime).
In particolare la evidenza di realtà assoluta, teologica, in ultima sezione della pubblicazione recensita, riceve senso filosofico dall'argomentare interrogativo introdotto dal titolo di stessa pubblicazione; che altrimenti sarebbe sia pur non errore filosofico ma pur sempre un errare filosoficamente e che invece è una epistemologia interna a gnoseologia propedeutica a riflessioni filosofiche su totalità del rappresentare il mondo tramite immagini, completezza che in tempi di impolitiche-economiche-nichiliste inflazioni immaginative - svalutazioni immaginifiche, per intero Occidente dilaganti (in tal senso riflessione di Boehm non adeguatamente contestualizzata non è assolutista ed è relativizzabile), resta a suo modo salvifica indicazione di un restante senso, che se trascurato in vasti ambienti occidentali condurrebbe la politica occidentale ad altrettanto vasta catastrofe sociale.
La via altra, segnata dalla funzione iconica delle immagini sensibili, però non porta ad un pensiero direttamente teologico-spirituale ma solamente religioso-teologico; né servirebbe ad inquadrare la cultura iconografica propriamente detta, potendone solo con parzialità iconostatica, per esperienza di sola psicologia fisiologica o psicoanalisi delle percezioni però senza compresenza occultante di psicologismi comportamentalisti a far da contraddetto. Il particolare materialismo, cui prospetto recensivo allineato non schierato, con iconologica psichicità perde sia confrontabilità filosofica che forza antifilosofica contraria ad intelligenza vitale.
MAURO PASTORE
È singolare che l'esito iconostatico della pubblicazione recensita e la prospettiva ridotta non iconologica della recensione siano, rispettivamente indirettamente e direttamente, in rapporto a materialismo marxista dunque ateo ed agnostico ed antireligioso.
Proprio quest'oggi rileggendo un poco del testo di un saggio, "Iconostasi La teologia della bellezza e della luce" ed estratti di altro testo di sorta di manuale “Perché venerare le icone? Una risposta tra storia, teologia e liturgia", entrambi di autore Gaetano Passarelli, notavo che la metodologia adottata da stesso autore, culturale-religiosa non religiosa-culturale e storico-filosofica non filosofica-storica, della iconostasi consente compiutamente solo argomentare non tematizzare e della venerazione delle icone solo descrizione adatta a conoscenza dei culti religiosi non ad intendimento degli stessi... Insomma tra ecclesiologia ed angelologia, fino quasi a smarrire stessa funzione religiosa della Iconostasi cristiana, ortodossa, sino quasi ad approdare ad un senso del sacro non monoteista cioè solo teista, entro una realtà intellettuale di confine non difforme ai dettami della dittatura atea-comunista-marxista, senza che una iconologia possa evidenziarsi in possibile conformità iconografica — perché il pensiero scritto che cita realtà religiosa di angelologia dice di tramiti allegorici non simbolici, ovvero segnici ma non iconici e poiché l'ecclesiologia non offre conto delle cose ma degli usi — e tra considerazione storica secondaria primariamente affermata, ovvero di romanità cristiana assieme a politica bizantina, senza che la vera religione cristiana dell'Impero di Bisanzio possa attestarsi ma senza che se ne possa prescindere: tutto ciò è direttamente speculare, relazionabile, alle coerenti ma vuote esposizioni della passata diplomazia vaticana, dietro od oltre le quali erano poste non giustapposte cioè unite non unificate né unificabili le affermazioni di stesso Vaticano, nei rapporti con la Ortodossia ricettivo non recepente e decostruttivo-distruttivo... Ma dal deserto spirituale marxista emergendo altro, una iconologia non iconosofica — diversamente che dalla iconoclastia bizantina, infatti per Bizanzio la fine del periodo iconofilo era il futuro iconologico oltre che iconografico e gli editti imperiali erano religiosamente insindacabili, assoluti, superiori ai risultati dei concili e questi erano tutti relativi e non tutti provvisori e dicevano di essenzialità e universalità mentre gli interventi religiosi imperiali stabilivano esistenza non essenza e di fatti generali non eventualità particolari — si capisce allora che il registro culturale-religioso e non viceversa religioso - culturale non ha possibilità di conferire valore al ritrovamento filosofico della iconostasi ed anzi ha potere di far degenerare cultura su religioni e spiritualità in subcultura che sentenzia su abitudini religiose e scherza con spiritualismo restante in superstizioni; ed allora si comprende pure perché sia utile conoscenza libera, in tal caso filosofica, che possa considerare a prescinder da areligiosità, irreligiosità, religiosità, ma non ad escluderne né a negarne né ad affermarne.
MAURO PASTORE
Nei messaggi da me precedentemente inviati qui ci sono gli elementi sufficienti ma in sé non bastanti per costruire una esatta coscienza critica nonché filosofica, opposta a falsa, della realtà storico-culturale e storica di politica e religione bizantine medioevali. Ritengo dunque necessarie precisazioni, che in certo senso risultano anche dure affermazioni, ma restando necessarie precisazioni e non arbitrarie né sono utili soltanto per miei commenti a recensione.
#
La cronaca di violenza riferita dal recensore ed anche quelle uguali normalmente riferite da incosciente più che inconsapevole critica storica non storiografica è o sarebbe inerente a non diretti eventi di presenza romana poi romanica a Bisanzio.
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Dato che attualmente è diffusa, senza che se ne abbia conoscenza di limiti, consuetudine a tradurre i testi greci classici secondo i sistemi grammaticali fissi e a tradurre i testi dell'ellenismo aggiungendovi stilemi sintatticamente stabiliti in accordo a medesimi sistemi grammaticali; e dato che, per ovviare alle continue mancanze causate dai limiti non conosciuti diffusamente, si pratica massicciamente il confronto fra traduzioni che nel non peggiore dei casi termina con omologazione ad esempi precedenti illustri ma paradigmaticamente comunque vacui e invece nei casi peggiori termina col tentativo di migliorie a già infedeli e fuorvianti esperimenti letterari di traduzione; dato pure che coi testi greci bizantini è diffusa abitudine ancora peggiore di non considerarli evoluzione-differenziazione dai classici oppure di aggiungervi considerazione adatta per ellenismo, cioè della sola diversità, finendo col ricorrere spesso direttamente a confronti ancora più labili ed improduttivi con traduzioni in lingue europee straniere e senza che tradizioni storiche autentiche siano utili perché proprio dai praticanti di tali sbagliate consuetudini e sbagliate abitudini queste tradizioni storiche sono state disattese oppure abbandonate o misconosciute oppure fraintese; e dato infine che il ricorso a mentalità o lingua oppure stesse traduzioni, se esistenti, latine — accadendo esso diffusamente senza distinzioni adeguate tra romanità latina e sola latinità per classicità ed ellenismo producendo restrizioni-deformazioni che di fatto allineano i sensi a ideologie violente storicamente non di medesima romanità poi di ex romanità — nei confronti della letteratura bizantina medioevale ottiene di peggio ancora cioè travisamenti di significati verbali stessi, perché la attinenza o identità culturali latine bizantine medioevali erano del tutto distaccate da cultura latina romana o di romanità ed ex romanità e maggiormente nel mondo romanico... dunque non è presente reale vasta condivisione di autentica conoscenza e neanche indiretta della letteratura greca bizantina!... E dai testi latini molti deducono soltanto errori, imprecisioni, nonsensi, fino a interrompere proprie pratiche ma poi ricorrendo a confronti impossibili o disastrosi con riferimenti storici non più autenticamente posseduti ed infine costoro ripetendo e replicando od usando vecchie traduzioni e con ugual o più grave loro medesima rovina ma pure con altrui disastro!
...
MAURO PASTORE
...
(Nei messaggi da me precedentemente non oggi inviati qui ci sono gli elementi sufficienti ma in sé non bastanti per costruire una esatta coscienza critica nonché filosofica, opposta a falsa, della realtà storico-culturale e storica di politica e religione bizantine medioevali. Ritengo dunque necessarie precisazioni, che in certo senso risultano anche dure affermazioni, ma restando necessarie precisazioni e non arbitrarie né sono utili soltanto per miei commenti a recensione.)
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Il quadro di degenerazione culturale in subcultura incosciente e disastrosa parrebbe improbabile, tranne che non si consideri cosa di altro esiste che evita al peggio di prevalere:
contatti letterari con la cultura ellena contemporanea, che fa uso di lingua unica formatasi dalla parlata medioevale ellena-bizantina, con utilizzi in parte orientaleggianti scaturiti dalle migrazioni di greci, anche nuovi o nuovissimi, da Asia ottomana ed ex ottomana sovente bizantineggiante od ex bizantina;
contatti e soprattutto liberi confronti culturali scolastici, quando non c'era o non prevaleva o non poteva prevalere violenza culturare oppure etnofobia contro grecità, tra alunni di cultura oppure etnia greca italiana ed alcuni professori di "lingua greca antica" la quale è di fatto solamente una astratta concezione unitaria di varietà di lingue dialettali che purtroppo maggioranza dei professori ben annunciando poi di fatto diceva — e risulta che ancora accade a molti o moltissimi perlomeno — essere direttamente e solo varietà di dialetti, costoro arrogandosi superiorità di pensiero intellettuale ma insensatamente perché tale concezione unitaria è confrontabile con antica mentalità soltanto entro certi e costanti riferimenti a varietà antiche dialettali non vernacolari né di dialetti veri e propri e non altrimenti;
contatti linguistici od extralinguistici con realtà etniche straniere greche-bizantine od anche greche-bizantine, in particolare assai importanti ovviamente con luoghi di Europa Est e Russia, ma importanti pure quelli con luoghi orientali ex bizantini, quali Iran, Iraq... (ovviamente anche la attuale Turchia).
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Ma nonostante dunque non sia accaduto già e del tutto il peggio, il passato medioevale bizantino è ancora vastamente confuso con quello romano-romanico a Bisanzio; e molti o moltissimi e non solo qui in Italia rapportandosi fallacemente ai testi greci bizantini passano da illusioni ad inganni e non consentono la diffusione di vere conoscenze sul passato della cultura e del mondo bizantini.
MAURO PASTORE
In mio messaggio precedente
'culturare'
sta per:
culturale .
Invierò intero testo con correzione ed anche testo precedente per agio di lettura.
MAURO PASTORE
Nei messaggi da me precedentemente inviati qui ci sono gli elementi sufficienti ma in sé non bastanti per costruire una esatta coscienza critica nonché filosofica, opposta a falsa, della realtà storico-culturale e storica di politica e religione bizantine medioevali. Ritengo dunque necessarie precisazioni, che in certo senso risultano anche dure affermazioni, ma restando necessarie precisazioni e non arbitrarie né sono utili soltanto per miei commenti a recensione.
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La cronaca di violenza riferita dal recensore ed anche quelle uguali normalmente riferite da incosciente più che inconsapevole critica storica non storiografica è o sarebbe inerente a non diretti eventi di presenza romana poi romanica a Bisanzio.
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Dato che attualmente è diffusa, senza che se ne abbia conoscenza di limiti, consuetudine a tradurre i testi greci classici secondo i sistemi grammaticali fissi e a tradurre i testi dell'ellenismo aggiungendovi stilemi sintatticamente stabiliti in accordo a medesimi sistemi grammaticali; e dato che, per ovviare alle continue mancanze causate dai limiti non conosciuti diffusamente, si pratica massicciamente il confronto fra traduzioni che nel non peggiore dei casi termina con omologazione ad esempi precedenti illustri ma paradigmaticamente comunque vacui e invece nei casi peggiori termina col tentativo di migliorie a già infedeli e fuorvianti esperimenti letterari di traduzione; dato pure che coi testi greci bizantini è diffusa abitudine ancora peggiore di non considerarli evoluzione-differenziazione dai classici oppure di aggiungervi considerazione adatta per ellenismo, cioè della sola diversità, finendo col ricorrere spesso direttamente a confronti ancora più labili ed improduttivi con traduzioni in lingue europee straniere e senza che tradizioni storiche autentiche siano utili perché proprio dai praticanti di tali sbagliate consuetudini e sbagliate abitudini queste tradizioni storiche sono state disattese oppure abbandonate o misconosciute oppure fraintese; e dato infine che il ricorso a mentalità o lingua oppure stesse traduzioni, se esistenti, latine — accadendo esso diffusamente senza distinzioni adeguate tra romanità latina e sola latinità per classicità ed ellenismo producendo restrizioni-deformazioni che di fatto allineano i sensi a ideologie violente storicamente non di medesima romanità poi di ex romanità — nei confronti della letteratura bizantina medioevale ottiene di peggio ancora cioè travisamenti di significati verbali stessi, perché la attinenza o identità culturali latine bizantine medioevali erano del tutto distaccate da cultura latina romana o di romanità ed ex romanità e maggiormente nel mondo romanico... dunque non è presente reale vasta condivisione di autentica conoscenza e neanche indiretta della letteratura greca bizantina!... E dai testi latini molti deducono soltanto errori, imprecisioni, nonsensi, fino a interrompere proprie pratiche ma poi ricorrendo a confronti impossibili o disastrosi con riferimenti storici non più autenticamente posseduti ed infine costoro ripetendo e replicando od usando vecchie traduzioni e con ugual o più grave loro medesima rovina ma pure con altrui disastro!
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MAURO PASTORE
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(Nei messaggi da me precedentemente non oggi inviati qui ci sono gli elementi sufficienti ma in sé non bastanti per costruire una esatta coscienza critica nonché filosofica, opposta a falsa, della realtà storico-culturale e storica di politica e religione bizantine medioevali. Ritengo dunque necessarie precisazioni, che in certo senso risultano anche dure affermazioni, ma restando necessarie precisazioni e non arbitrarie né sono utili soltanto per miei commenti a recensione.)
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Il quadro di degenerazione culturale in subcultura incosciente e disastrosa parrebbe improbabile, tranne che non si consideri cosa di altro esiste che evita al peggio di prevalere:
contatti letterari con la cultura ellena contemporanea, che fa uso di lingua unica formatasi dalla parlata medioevale ellena-bizantina, con utilizzi in parte orientaleggianti scaturiti dalle migrazioni di greci, anche nuovi o nuovissimi, da Asia ottomana ed ex ottomana sovente bizantineggiante od ex bizantina;
contatti e soprattutto liberi confronti culturali scolastici, quando non c'era o non prevaleva o non poteva prevalere violenza culturale oppure etnofobia contro grecità, tra alunni di cultura oppure etnia greca italiana ed alcuni professori di "lingua greca antica" la quale è di fatto solamente una astratta concezione unitaria di varietà di lingue dialettali che purtroppo maggioranza dei professori ben annunciando poi di fatto diceva — e risulta che ancora accade a molti o moltissimi perlomeno — essere direttamente e solo varietà di dialetti, costoro arrogandosi superiorità di pensiero intellettuale ma insensatamente perché tale concezione unitaria è confrontabile con antica mentalità soltanto entro certi e costanti riferimenti a varietà antiche dialettali non vernacolari né di dialetti veri e propri e non altrimenti;
contatti linguistici od extralinguistici con realtà etniche straniere greche-bizantine od anche greche-bizantine, in particolare assai importanti ovviamente con luoghi di Europa Est e Russia, ma importanti pure quelli con luoghi orientali ex bizantini, quali Iran, Iraq... (ovviamente anche la attuale Turchia).
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Ma nonostante dunque non sia accaduto già e del tutto il peggio, il passato medioevale bizantino è ancora vastamente confuso con quello romano-romanico a Bisanzio; e molti o moltissimi e non solo qui in Italia rapportandosi fallacemente ai testi greci bizantini passano da illusioni ad inganni e non consentono la diffusione di vere conoscenze sul passato della cultura e del mondo bizantini.
MAURO PASTORE
Sono ancora spiacente per inconveniente di scrittura, accaduto a causa di altro cui sono stato costretto a pensare scrivendo... datoché udivo e percepivo (e ancora ora scrivendo) minacciosità contro di me e non solo contro di me (quest'oggi assai oppressive sorta di lamentazioni umane erotiche femminili levatesi da intorno e non vicino, moleste e finanche suscitratrici, con timbro di voce assurdo, ostilità di insetti e confusive ai danni di retti intendimenti e sensazioni dirette di umanità... ma pure solita minacciosità, in parte per tramite di illusi animali vittime di inganni di antiecologisti... e purtroppo anche altro come al solito... tra cui umani maschili mugolii falsamente sessuali da vicinanze dati a scopo di dileggio e per avvilire e rumori simulanti rotture pericolose... !).
Comunque ho già reinviato messaggio con testo corretto.
Non essendo Internet una libreria, bastano ultimi reinvii se sufficienti.
MAURO PASTORE
Dopo tutto quanto di necessario ho dovuto accludere a miei commenti e non solo per essi, ritengo parimenti necessario aggiungere anche altro e di particolare, in merito ad interpretazioni storiche e mondo bizantino. Specifico che io di tal mondo, bizantino, ne sono parte, dunque non scrivo esternamente da esso; e ciò potrebbe facilitare intendimento di miei messaggi su di esso oppure potrebbe complicarlo.
Fornisco quindi un eventuale modo per constatare le incomprensioni ed ignoranze ed i fraintendimenti che ho indicato prima. Si tratta di mio racconto (su perspicuo evento storico) da me opportunamente riformato di altrui versione storica comunemente diffusa ma errata; ecco mio racconto (che già resi pubblico):
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GUERRE ROMANO-PERSIANE? Chiavi di interpretazione storica, alternativa-non-diversa.
Le guerre " romano – persiane" furono lunghi e modesti scontri bellici, con conflitti armati o disaccordi diplomatici, che iniziarono dopo il ritardo romano a sgombrare l'Asia dopo che Mitridate (VI) ne aveva reso necessario l'espansionismo per sottoporlo al giudizio dei popoli di Asia e dopo che i Parti ne avevano ingaggiato in scontro gli eserciti sconfessandone il potere, tramite nuovo esercito proprio e con il romano in non condizioni di opposizione né difesa, e presso il patriziato romano, cui proprio i parti avevano di nuovo sottoposto l’Impero stesso di Roma.
Tali guerre iniziarono quando l’intolleranza romana nei confronti dei barbari Alani aveva costretto questi ultimi a farsi rappresentare presso Roma da propri rappresentanti non barbari, ovvero civili, i quali per contro della briga ricevuta avevano separato i componenti romani degli eserciti bizantini in forza alla causa romana, abbandonandoli agli asti che costoro serbavano contro gli antichi poteri della Persia.
I tempi della guerra dipesero dalle scelte della egida e del giudizio bizantini, esercitati in considerazione della partecipazione romana ridotta e della perplessità del mondo romano senza partecipazione.
Ecco qui di seguito tre chiavi per comprensione adeguata delle vere storie, con riferimento previo, non esclusivo, a tre figure storiche reali.
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Ardaburio, magister militum presentialis, cioè che insegnava non partecipandone attivamente la giusta guerra, fu colui che durante l'epoca bizantina per i romani aveva compito di gestirne le ostilità secondo diritto romano ed anche secondo giustizia greca. In tale officio dovette condurli contro gli eserciti sasanidi, affinché la forza maggiore di costoro ne fosse motivo di conoscenza e di ravvedimento.
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Al-Mundhir ibn al-Harith (anni di azione: 570 - 581 d.C. ) ovvero Alamundaro, fu colui che doveva assicurare a Bisanzio la neutralità senza imparzialità, con cui lasciare i romani astiosi in balia dei proponimenti persiani di rifondazione della romanità in Oriente; era filarca bizantino, cioè si occupava di vigilare sul rispetto dei termini e principi dell'Impero di Bisanzio. Quale guerriero si incaricò della sconfitta dei sasanidi filoromani, preparando così la fase statica, ovvero per parti inverse, del conflitto, quando il potere sasanide era diventato filobizantino e i belligeranti romani erano involontari punitori dei poteri bizantini non contrari al coinvolgimento bizantino in guerra. In tale periodo l’Impero di Bisanzio era sostituito dall'Impero Bizantino mentre restava a Bisanzio fedeltà all'Impero ma non unione con Esso. ...
MAURO PASTORE
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(Dopo tutto quanto di necessario ho dovuto accludere a miei commenti e non solo per essi, ritengo parimenti necessario aggiungere anche altro e di particolare, in merito ad interpretazioni storiche e mondo bizantino. Specifico che io di tal mondo, bizantino, ne sono parte, dunque non scrivo esternamente da esso; e ciò potrebbe facilitare intendimento di miei messaggi su di esso oppure potrebbe complicarlo.
Fornisco quindi un eventuale modo per constatare le incomprensioni ed ignoranze ed i fraintendimenti che ho indicato prima. Si tratta di mio racconto (su perspicuo evento storico) da me opportunamente riformato di altrui versione storica comunemente diffusa ma errata; ecco mio racconto (che già resi pubblico):)
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Germano fu generale bizantino, quando gli Imperatori di Bisanzio erano soltanto portavoci inconsapevoli di altro destino politico. Condannato a morte ed assolto prima dai giudici imperiali, poi dallo stesso imperatore Maurizio I per aver sedato una rivolta non indesiderata essendo poi riconosciuto per altro maggiore rivoltoso, si impegnò in guerra al fianco dei romani, abbandonando il conflitto per il dispiacere degli scontri, poi restituendo gradi e còmpito, per cui si raccontò falsamente di lui che fosse stato ferito e che poi non ne fosse sopravvissuto. Sotto il suo comando i persiani decisero di farsi usurpare il regno dai romani per dargli conquista ma prima dei tempi da loro voluti e quindi lasciarne nulla l'impresa. Dall'Imperatore Foca era avversato, ma senza successo perché costui non era a parte degli intrighi persiani. Il precedente Maurizio cercava da lui scusante per farsi uccidere, dato che ambiva ad un suicidio ozioso, da essergli commesso se moribondo e poi già morente, cosa che gli fu realizzata da stesso successore Foca, non vero boia ma assistente per morte, neppure realmente anticipata ma commutata da indecente per cattivo stato di futura salma, a non indecente. Lo stesso Foca scelse di morire con qualcuno che gli mutasse non anticipasse condizione di morte, a scopo di evitare fine simile del predecessore e soprattutto per estrema discrezione.
Entrambi, Maurizio I e Foca, erano Imperatori dal còmpito di sola diplomazia, di cui vita e morte non furono quelle tramandate in Europa Ovest e poi altrove. (Anni di azione di Germano: 588, 603-604 d.C. )
MAURO PASTORE /
Spero che tale ulteriore acclusione, in questo e precedente messaggio, possa essere ulteriormente esplicativa, comunque costituisce continuazione di miei commenti a recensione.
MAURO PASTORE
Ultimi otto messaggi non erano destinati a questa pagina, i contenuti di essi infatti sono per altra recensione, ( benché non siano del tutto fuori argomento qui) .
MAURO PASTORE
Noto di questa recensione che essa dice anche di questioni teologiche ma direttamente in merito a percettibilità e sensibilità ed icone e — lo ribadisco — senza neppure includerne i riferimenti reali contenuti in scritti di volume recensito; e così il recensore offre potenziale occasione di sviamenti, non solo con i suoi omessi, ma pure amplificando originale questione di possibile diretta pertinenza che correttamente va considerata in prima ed unica istanza ecclesiologica non teologica.
Dunque reinvierò due degli otto testi che ho pocanzi detto estranei, li reinvierò opportunamente modificati per evitare imprecisioni che sarebbero non indifferenti a destinazione finale, ma senza che l'autentico messaggio ne sia alterato.
MAURO PASTORE
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Nei messaggi da me precedentemente inviati qui ci sono gli elementi sufficienti ma in sé non bastanti per iniziare a costruire una esatta coscienza critica nonché filosofica, opposta a falsa, della realtà storico-culturale e storica di politica e religione bizantine medioevali. Ritengo dunque necessarie precisazioni, che in certo senso risultano anche dure affermazioni, ma che restano necessarie precisazioni e non arbitrarie né sono utili soltanto per miei commenti a recensione (a volte è necessario far emergere sùbito verità occultate).
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Esiste una cronaca di violenza, riferita indirettamente da molti recensori con strategie di "evitamento" intellettuale assai eloquenti di fatto, ed esistono anche quelle uguali, normalmente riferite da incosciente più che inconsapevole critica storica non storiografica, le quali sono o sarebbero inerenti a non diretti eventi di presenza romana poi romanica a Bisanzio.
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Dato che attualmente è diffusa, senza che se ne abbia conoscenza di limiti, consuetudine a tradurre i testi greci classici secondo i sistemi grammaticali fissi e a tradurre i testi dell'ellenismo aggiungendovi stilemi sintatticamente stabiliti in accordo a medesimi sistemi grammaticali; e dato che, per ovviare alle continue mancanze causate dai limiti non conosciuti diffusamente, si pratica massicciamente il confronto fra traduzioni che nel non peggiore dei casi termina con omologazione ad esempi precedenti illustri ma paradigmaticamente comunque vacui e invece nei casi peggiori termina col tentativo di migliorie a già infedeli e fuorvianti esperimenti letterari di traduzione; dato pure che coi testi greci bizantini è diffusa abitudine ancora peggiore di non considerarli evoluzione-differenziazione dai classici oppure di aggiungervi considerazione adatta per ellenismo, cioè della sola diversità, finendo col ricorrere spesso direttamente a confronti ancora più labili ed improduttivi con traduzioni in lingue europee straniere e senza che tradizioni storiche autentiche siano utili perché proprio dai praticanti di tali sbagliate consuetudini e sbagliate abitudini queste tradizioni storiche sono state disattese oppure abbandonate o misconosciute oppure fraintese; e dato infine che il ricorso a mentalità o lingua oppure stesse traduzioni, se esistenti, latine — accadendo esso diffusamente senza distinzioni adeguate tra romanità latina e sola latinità per classicità ed ellenismo producendo restrizioni-deformazioni che di fatto allineano i sensi a ideologie violente storicamente non di medesima romanità poi di ex romanità — nei confronti della letteratura bizantina medioevale ottiene di peggio ancora cioè travisamenti di significati verbali stessi, perché la attinenza o identità culturali latine bizantine medioevali erano del tutto distaccate da cultura latina romana o di romanità ed ex romanità e maggiormente nel mondo romanico... dunque non è presente reale vasta condivisione di autentica conoscenza e neanche indiretta della letteratura greca bizantina!... E dai testi latini molti deducono soltanto errori, imprecisioni, nonsensi, fino a interrompere proprie pratiche ma poi ricorrendo a confronti impossibili o disastrosi con riferimenti storici non più autenticamente posseduti ed infine costoro ripetendo e replicando od usando vecchie traduzioni e con ugual o più grave loro medesima rovina ma pure con altrui disastro!
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MAURO PASTORE
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( Nei messaggi da me precedentemente inviati qui ci sono gli elementi sufficienti ma in sé non bastanti per iniziare a costruire una esatta coscienza critica nonché filosofica, opposta a falsa, della realtà storico-culturale e storica di politica e religione bizantine medioevali. Ritengo dunque necessarie precisazioni, che in certo senso risultano anche dure affermazioni, ma che restano necessarie precisazioni e non arbitrarie né sono utili soltanto per miei commenti a recensione (a volte è necessario far emergere sùbito verità occultate). )
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Il quadro di degenerazione culturale in subcultura incosciente e disastrosa parrebbe improbabile, tranne che non si consideri cosa di altro esiste che evita al peggio di prevalere:
contatti letterari con la cultura ellena contemporanea, che fa uso di lingua unica formatasi dalla parlata medioevale ellena-bizantina, con utilizzi in parte orientaleggianti scaturiti dalle migrazioni di greci, anche nuovi o nuovissimi, da Asia ottomana ed ex ottomana sovente bizantineggiante od ex bizantina;
contatti e soprattutto liberi confronti culturali scolastici, quando non c'era o non prevaleva o non poteva prevalere violenza culturale oppure etnofobia contro grecità, tra alunni di cultura oppure etnia greca italiana ed alcuni professori di "lingua greca antica" la quale è di fatto solamente una astratta concezione unitaria di varietà di lingue dialettali che purtroppo maggioranza dei professori ben annunciando poi di fatto diceva — e risulta che ancora accade a molti o moltissimi perlomeno — essere direttamente e solo varietà di dialetti, costoro arrogandosi superiorità di pensiero intellettuale ma insensatamente perché tale concezione unitaria è confrontabile con antica mentalità soltanto entro certi e costanti riferimenti a varietà antiche dialettali non vernacolari né di dialetti veri e propri e non altrimenti;
contatti linguistici od extralinguistici con realtà etniche straniere greche-bizantine od anche greche-bizantine, in particolare assai importanti ovviamente con luoghi di Europa Est e Russia, ma importanti pure quelli con luoghi orientali ex bizantini, quali Iran, Iraq... (ovviamente anche la attuale Turchia).
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Ma nonostante dunque non sia accaduto già e del tutto il peggio, il passato medioevale bizantino è ancora vastamente confuso con quello romano-romanico a Bisanzio; e molti o moltissimi e non solo qui in Italia rapportandosi fallacemente ai testi greci bizantini passano da illusioni ad inganni e non consentono la diffusione di vere conoscenze sul passato della cultura e del mondo bizantini.
MAURO PASTORE
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