Recensore Mario Tanga - 01/11/2009
Filosofia del linguaggio
Pregevole (e fruibilissima) l’introduzione di Perissotto, dopo la quale ci troviamo davanti contemporaneamente a Moore e Wittgenstein, leggendo il secondo attraverso il primo.
Moore va oltre la lettera di ciò che riporta, non per la smania di metterci del proprio (rispetto e attenzione per Wittgenstein non vengono mai meno), ma per porgere i contenuti al lettore con un valore aggiunto di ordine e chiarezza, ricostruendoli (con puntualizzazioni, esemplificazioni, correlazioni, interpretazioni) in un resoconto con un impianto concettuale più unitario. Non esita a mettere in evidenza le proprie incertezze interpretative (non di rado dice “non ho ben chiaro…”, “non ho compreso del tutto…”) oppure, ove lo ritenga opportuno, le incongruenze dello stesso Wittgenstein, per coinvolgere il lettore o richiamare la sua attenzione.
La necessità di puntualità, insieme all’esigenza di giungere al fondo delle questioni, rende il testo a tratti un po’ ostico al lettore non specializzato.
Una maggiore agilità discorsiva e un ampliamento degli orizzonti giunge proprio nelle ultime pagine, dove il punto è nientemeno cosa sia la filosofia per Wittgenstein e come la “nuova” filosofia si ponga nei confronti della precedente. L’intento dichiarato è di dar luogo a una rottura come quella che a suo tempo fu provocata dalla filosofia galileiana. Anche adesso la questione è soprattutto di metodo e i nuovi filosofi dovranno mostrarsi soprattutto abili (“skillful”) nell’applicazione di protocolli, piuttosto che dar lena alla creatività o alla vena di grandezza.
La nuova filosofia (“new subject”) dovrebbe essere “qualcosa di simile al mettere in ordine le nostre nozioni riguardo a ciò che si può dire intorno al mondo” (p. 135, corsivo nostro). In altri momenti lo stesso Wittgenstein aveva dichiarato di non avere, da parte sua, la pretesa di inventare nulla di nuovo, né di proporre un nuovo corso di idee, “eine Gedankenbewegung” (p. 39), ma solo di chiarire ciò che altri hanno inventato.
Tre sono i nodi della filosofia di Wittgenstein: la sua novità è nel metodo, ha carattere di analisi, ha il suo ambito privilegiato nella logica, sconfinando nella matematica e nel linguaggio. Tale lavoro non investe tuttavia la totalità del linguaggio e della logica, ma solo quegli aspetti che creano imbarazzi o problemi. Non per questo, Wittgenstein tiene a precisare, in linea con Ryle, la filosofia si riduce a una mera faccenda di parole.
Il punto focale è l’essenza della rappresentazione, funzione che lega la parola alla cosa e al contempo ne precisa la differenza. Non si tratta del semplice richiamo di un immagine per associazione, né dell’ostensione dell’oggetto, né il fatto che l’oggetto sia il portatore di un nome (cfr. p. 66).
Parlare del linguaggio, in particolare dell’enunciazione, consente di cogliere un’altra differenza, quella tra soggetto e oggetto: le enunciazioni sulla propria esperienza privata (famoso è l’esempio ricorrente di “io ho mal di denti”) e su una possibile esperienza altrui (“lui ha mal di denti”) sono su piani diversi. La posizione di Wittgenstein in proposito è intermedia tra quello che lui stesso chiama solipsismo o idealismo (per il quale “io ho mal di denti” è l’unica enunciazione possibile e certa) e realismo (per il quale, all’opposto, “io ho mal di denti” e “lui ha mal di denti” possono essere entrambe vere, o meglio possibili, e secondo un medesimo criterio di verificazione oggettiva). Le due enunciazioni, in prima e terza persona, sono entrambe accettabili, ma non hanno lo stesso statuto. Appellandosi al senso comune, Wittgenstein presuppone che, oltre al mio corpo vivente, ci siano e ci siano stati altri corpi, altrettanto viventi, “ciascuno dei quali è stato il corpo di un essere umano distinto e diverso, il quale, per tutto il tempo della vita del suo corpo, ha avuto [come le ho avute io] molte esperienze differenti” (p. 23).
Si aprono così diverse possibilità: “Privatezza dei sentimenti può significare: nessuno può conoscerli a meno che io non li esibisca, oppure: in realtà io non posso esibirli. Oppure: se non voglio, non ho bisogno di dare alcun segno del mio sentimento, ma, anche se voglio, posso esibire solo un segno ma non il sentimento” (p. 25). E la scelta di Wittgenstein, tra tali possibilità, non è univoca, né facilmente definibile.
Il fatto cui si riferisce l’enunciazione in prima persona è comunque direttamente accessibile dal soggetto (esperienza primaria, diretta), negli altri casi l’accesso è indiretto e richiede un salto inferenziale. “Ciò che caratterizza un’‘esperienza primaria’ è il fatto che la parola ‘io’ non sta a denotare un possessore” (p. 118), mentre “tu” o “lui” sono corpi materiali, organismi o, al limite, voci enuncianti, cui potrebbe non corrispondere alcuna soggettività e alcun corpo materiale. Se ho un corpo, si chiede Wittgenstein, di chi è questo corpo? di un corpo?, lasciando intendere che per uscire da questo paradosso occorre considerare il corpo stesso come detentore di una soggettività sua propria. E l’importanza del corpo emerge anche da un’altra considerazione: non si coglie la valenza simbolica di una enunciazione, ovvero il suo senso, se non si considera, a completamento del segno linguistico, tutto quanto le attiene, compresa la parte del corpo che la effettua materialmente, ovvero, nel caso della parola pronunciata oralmente, la bocca.
Il privilegio della prima persona, rispetto alla seconda e alla terza, viene in altra occasione contraddetto (non è questo il solo caso in cui Wittgenstein ritratta le proprie convinzioni, cosa che non facilita chi cerca di tirare le fila del suo discorso), e in definitiva Wittgenstein si colloca tra gli estremi del solipsismo radicale e di un altrettanto radicale realismo: di entrambi dice che occorre riconoscere i pregi, ma anche i limiti e le contraddizioni, spiegandone, anche se un po’ frammentariamente, i motivi.
La necessità di chiarezza che il linguaggio pone, si articola a due livelli, atomico e molecolare (cfr. Russell), ovvero delle singole parole e delle proposizioni. Queste ultime, a detta di Moore, e non senza una traccia di disappunto, Wittgenstein tende talvolta a confonderle con gli enunciati; forse, gli concede Moore, per la comune etimologia, in tedesco, dei due termini. La singola parola non può essere valutata e interpretata di per sé, occorre riferirla a due contesti: quello concreto dell’uso, e quello del sistema (linguistico) di cui fa parte, due cose peraltro in continuità tra di loro. È a livello di proposizione che possiamo applicare la funzione di verità per decidere della verità/falsità di quanto dice, perché è essa che si lega ad un referente secondo un sistema di proiezione in base a regole, modalità, contesti: “il senso di una proposizione è il modo della sua verifica” (p. 72): la significazione si gioca elettivamente a livello delle proposizioni. Queste stanno ai fatti come le parole stanno alle cose. E i fatti meritano il privilegio del filosofo perché legano le cose tra di loro, rendendole comprensibili, conferendo loro senso e ragion d’essere. Forzando un po’ la nostra interpretazione potremmo dire inoltre che i fatti “accadono” (mentre le cose “sono”) e sono perciò molto più “rivelatori” della realtà.
Queste lezioni “inaugurano” il secondo Wittgenstein affermando un principio di significazione che fa discendere la referenza della parola dal suo uso: “Un punto su cui [Wittgenstein] ebbe a insistere in diverse occasioni nella sezione (II) era che una parola può avere significato soltanto se ‘mi sento impegnato (commit myself)’ dal suo uso.” (p. 64), in quanto la parola deve essere considerata come appartenente a un sistema: “perché un segno abbia significanza (significance), non è sufficiente che ‘ci si impegni’ a usarlo, ma è altresì necessario che il segno in questione appartenga al medesimo ‘sistema’ di altri segni.” (p. 65)
Tutto questo, tralasciando la controversa accezione del termine “sistema” (su cui Moore si dilunga), delinea da una parte l’impossibilità di prescindere dall’uso concreto del linguaggio e dall’altra l’importanza dei “giochi linguistici” che tanto peso hanno avuto nella filosofia di Wittgenstein e del Novecento.
Ma verificazione/falsificazione significa anche oggettività, o quanto meno intersoggettività, per cui il famoso “io ho mal di denti”, pur riferendosi a un fatto a me direttamente accessibile, non è così per tutti gli altri, e quindi, in altre parole, non è verificabile in senso proprio. Invece altre proposizioni, ipotesi, proposizioni matematiche, e persino le regole, sono verificabili (sia pure secondo criteri e modalità diversi) e quindi hanno un senso. Non è così invece per le tautologie (necessariamente sempre vere) e le contraddizioni (necessariamente sempre false), non verificabili, e, proprio per questo, senza senso.
È a livello di proposizione che si può parlare di carattere “simbolico” del linguaggio, per cui il “segno” (linguistico) acquista significanza. La proposizione si colloca tra fatto ed enunciato, ma si affaccia più sul il versante del fatto. La dimensione formale non è tuttavia prescindibile, né separabile proprio sul piano della referenza e della verifica: “La verifica determina il significato di una proposizione solo quando fornisce la grammatica della proposizione in questione” (p. 73), intendendo con “grammatica” qualunque spiegazione sull’uso del linguaggio e dei “giochi” in seno ai quali esso viene usato. Le regole grammaticali, imprescindibili, sono però arbitrarie, simboliche, non descrivono alcuna realtà. Se tentiamo di giustificarle riferendoci al reale, rischiamo di scivolare in una serie illimitata di rimandi, una sorta di “regressio ad infinitum”, mentre se le facciamo derivare le une dalle altre attraverso un meccanismo di relazioni interne, per via deduttiva, si cade nella tautologia. Wittgenstein sintetizza dicendo che “ciò che è essenziale alle regole è la molteplicità logica che tutti i possibili simboli diversi hanno in comune” (p. 99), una definizione attinente più all’uso pratico del simbolo, che ad un suo carattere “ontico”…
Similmente definisce il gioco o il bello (cfr. pp. 123-125): non si può astrarre qualcosa di comune dalle varie accezioni di questi termini, ma le possiamo concatenare, in serie. La mancanza di fratture e discontinuità nella serie è una sorta di paradigma, fonda unità e validità del concetto.
Wittgenstein si colloca ormai sul versante dei filosofi del linguaggio ordinario. La bipolarità tra ordinario e ideale ricorda quella, anteriore di due-tre secoli, della ricerca della lingua perfetta nella cultura occidentale (cfr. U.Eco, La ricerca della lingua perfetta in Europa, Editori Laterza, Roma-Bari, 1993), in cui si è assistito alle ricerche più disparate su lingue “a priori” e “a posteriori”.
L’attenzione di Wittgenstein al linguaggio e al comportamento osservati, unitamente alle riserve sul poter accedere alle (altrui) motivazioni e agli (altrui) stati interiori in genere, lo induceva a cautela nell’attribuirli a cause univoche e deterministiche. Il che lo portava a dissentire, anche se per motivi diversi, sia da Darwin che da Freud.
Il libro contribuisce a una più attenta e approfondita comprensione non solo della svolta nella filosofia di Wittgenstein, ma più estesamente nella filosofia dell’epoca: il rivolgere lo sguardo alla vita e al mondo, lasciandosi dietro i pretenziosi programmi del linguaggio ideale, è stato un cambiamento di enorme importanza, che ha avuto il suo avvio negli anni Trenta, proprio nelle università di Oxford e, guarda caso, di Cambridge.
La filosofia, rispetto al neopositivismo logico e alla filosofia linguistica, si sforza di liberarsi dei connotati di un’operazione di forma, più o meno pretestuosa e cavillosa, e soprattutto rivendica una sua origine più profonda. Come già ai tempi di Platone, Aristotele o Berkeley (cfr. pp. 134-135) scaturisce dalla meraviglia (“wonder”) dell’uomo di fronte al mondo. È questo, credo, che possiamo prendere come suggello dell’intero testo.
Indice
Introduzione: Wittgenstein e Moore tra grammatica e metafisica
Lezioni di filosofia 1930-1933
L'autore
Ludwig Wittgenstein (Vienna, 1889 - Cambridge, 1951) dà un contributo decisivo alla filosofia analitica e alla logica. Pubblica in vita solo il Tractatus logico-philosophicus (le altre opere usciranno postume), divenuto subito punto di riferimento del Circolo di Vienna, di cui tuttavia non fa mai parte. Dopo varie peripezie torna a Cambridge, dove tiene lezioni che hanno lasciato un segno e non solo in Gran Bretagna. Questo periodo corrisponde al secondo periodo della sua filosofia, in cui sposta l’attenzione dal linguaggio ideale a quello reale.
Il curatore
George E. Moore (1873-1958), filosofo inglese che si colloca nella filosofia analitica e nella metaetica. Formula il noto paradosso che porta il suo nome e mette in luce quella che lui stesso definisce la fallacia naturalistica. Successivamente si interessa del senso comune. La sua opera principale è Principia Ethica. Insegna a Cambridge e ha rapporti con Wittgenstein.
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