sabato 5 dicembre 2009

Petrosino, Silvano, Jacques Derrida. Per un avvenire al di là del futuro.

Roma, Studium, 2009, pp. 103, € 12,00, ISBN 9788838240638.

Recensione di Pietro Camarda – 05/12/2009

Storia della filosofia (contemporanea), Filosofia teoretica (metafisica, ontologia), Etica

E se la filosofia di Derrida fosse “un’infaticabile ed appassionata interrogazione sull’eventualità dell’evento, o forse meglio come un’approfondita indagine sulle condizioni di possibilità […] di un pensiero dell’evento in quanto evento” (p. 11)?
Il testo di Silvano Petrosino, inscrivendosi nell’esclusivo catalogo delle monografie dedicate a Derrida, pur presentandosi sotto una veste ridotta e maneggevole, ma rivelandosi di una densità che rispecchia l’imponente mole e le molteplici deviazioni dell’opera del filosofo francese, si propone di fornire un contributo critico alle diverse prospettive interpretative sulla riflessione di Derrida. L’intento di Petrosino è di fare emergere la cifra stessa del pensatore francese, secondo una linea di lettura che esibisca la possibilità di ritracciare l’opera derridiana a partire da un’esperienza dell’evento come pensiero, come tema guida che, costituendo lo snodo concettuale che tesse lo sviluppo di tutta l’argomentazione, ci immerge nella riflessione di Derrida.
Nell’introduzione, Petrosino dichiara il suo intento di “presentare in forma sintetica la riflessione di Jacques Derrida” (p. 9), conferendo al termine sintetico sia il senso di parziale, dal momento che si presterà più attenzione ad alcuni temi, tralasciandone altri, sia quello del “raccogliersi attorno a ciò […]” che nel testo viene individuato “come l’essenziale che si agita al fondo dell’intera riflessione del filosofo francese” (p. 10).
Quest’avvertenza si fonda sulla convinzione dell’autore che la filosofia di Derrida non sia una forma di problematicismo, né espressione del nichilismo contemporaneo.
La lettura dell’opera di Derrida, tenendo conto del movimento di riapertura e rilancio proprio della decostruzione, si propone di rispondere alle domande sollevate dalla stessa riflessione derridiana: “quali sono le conseguenze (filosofiche, politiche, etiche, sociologiche, ecc.) che un termine/concetto come quello di «evento» impone di trarre? O anche: che cosa significa e come è possibile essere rigorosi con un termine/concetto come quello di «evento»? O ancora più radicalmente: come il modo d’essere dell’evento obbliga a ripensare la natura stessa del logos e la forma di razionalità ad essa adeguata?” (p. 13).
I quattro capitoli in cui è strutturato il testo ritessono la riflessione di Derrida a partire da orizzonti concettuali che, comprendendone l’intero pensiero, propongono una linea di ricerca quanto mai aperta al moltiplicarsi delle relazioni e delle interpretazioni, articolata, ogni volta, secondo lo sfondo dell’unità ricercata. Nel tentativo di rileggere il pensiero di Derrida attraverso il concetto di evento, lo sforzo di Petrosino si traduce nella necessità di una strategia ermeneutica che coinvolge l’intera opera del filosofo francese, mettendone in questione gli elementi fondamentali.
Il primo capitolo, orientandoci a una lettura della vita e di alcune opere del filosofo francese, è il tentativo di attraversare l’intera parabola esistenziale di Derrida, rivelandone il movimento dehors/dedans rispetto ad un milieu di formazione quanto mai eclettico, tanto che Petrosino non ha potuto fare a meno di prendere in considerazione aspetti decisivi della riflessione derridiana, identificati come “temi importanti” per un’adeguata comprensione dell’opera del filosofo francese: “Derrida e l’ebraismo”; “Derrida e l’America”; “Derrida e la letteratura”; “Derrida e la psicoanalisi”.
Nel secondo capitolo viene messo in risalto il tema della scrittura come risultato dell’analisi incrociata di essere e segno. A partire dalla “complicazione originaria dell’origine”, che guida l’intera opera del filosofo francese, Petrosino traduce in domanda l’affermazione derridiana secondo cui “il segno è all’inizio”. Attraverso il concetto di segno, indagato da Derrida seguendo Husserl come punto di riferimento, si giunge all’affermazione che non esiste nessuna idealità senza iterabilità e quindi nessuna presenza ideale al di fuori del raddoppiamento/ripetizione. Questo significa che la ragione non potrà più essere pensata (forse non ha potuto mai esserlo) come pura e che Husserl si muove tra due principi: “quello del lucido riconoscimento della necessità di fatto del rinvio al linguaggio e più precisamente all’iscrizione mondana, e quello della decisa affermazione di diritto della non essenzialità del segno e della grafia” (p. 29). Ma allora, come si fa esperienza del linguaggio? Heidegger avrebbe risposto: nella parola pura (della poesia); secondo Derrida, fin dal principio, nella contaminazione della scrittura. Tale prospettiva esibisce la possibilità di pensare l’esperienza reale a partire dal piano cui dà vita la scrittura, orizzonte in cui si fa esperienza dell’esercizio del pensiero. Allora il segno, e dunque il linguaggio, si configura come lo spazio dell’istituzione, ovvero come luogo della (im)posizione della differenza che si fa spazio come condizione della possibilità del segno e quindi del linguaggio tutto. La scrittura, infatti, custodisce le due caratteristiche della dinamica differenziale: il luogo, la permanenza del tratto e il suo superamento, il testo. Allora la scrittura dovrebbe essere riscritta come “archi-scrittura” cioè movimento della différance, per marcarne il carattere istitutivo e quindi imprescindibile per l’esperienza in quanto testo. Ecco perché “non c’è fuori-testo”.
Poi, se nel segno c’è disseminazione, cioè allontanamento dal presente (soggetto, intenzionalità del soggetto) e quindi esposizione al campo della possibilità (perfino della distruzione), allora la scrittura si costituisce secondo una sua propria “deriva essenziale”, la scrittura sfugge a qualsiasi possibilità di dominio, non ritornando mai a sé fino a perdersi nella moltiplicazione: non è se non numerosa, ha vita, ogni volta, nella morte.
Ancora, se vi è segno, allora vi è destinazione, cioè una trama di rinvii che, secondo un incontrollabile movimento di a-destinazione (o destinerrance), si fa apertura dell’evento dell’essere e dell’essere come evento. Infatti, come la lettera (luogo del confronto derridiano con la psicoanalisi) “può sempre non arrivare a destinazione sia perché in quanto «incisione» può sempre distruggersi e andare in pezzi (l’istituzione può cadere ed essere distrutta: istanza della finitezza e della materialità relativa ad un soggetto che è sempre «finito e mortale»), sia perché in quanto «missiva» può sempre essere deviata da un destinatario errato, illeggibile o che ha cambiato indirizzo” (p. 47), la destinazione, come forma della disseminazione, avviene perché ci si rivolge all’altro, quindi si è già, da sempre e per sempre, secondo il modo d’essere dell’altro, presi in un’eccedenza del logos, tessuta dalla scrittura come istituzione, disseminazione e destinazione, alla quale non si può sfuggire.
Il terzo capitolo, leggendo la storia della metafisica come logocentrismo, ovvero in quanto contraffazione cosciente, chiusura forzata da parte del soggetto della scena della scrittura, secondo la determinazione dell’essere dell’ente come presenza, denuncia ogni forma di controllo e dominio (politico) da parte del soggetto su questo ente fino a renderlo un oggetto. “Il logocentrismo sarebbe quella posizione di pensiero che pensa e pratica il logos solo come centro, che pone al centro il logos solo perché (per dominare l’angoscia ed esercitare un controllo) pensa e pratica anticipatamente il logos stesso come centro” (p. 52). Ecco apparire la différance ovvero “una specie di dispositivo strategico aperto, sul suo proprio abisso, un insieme non chiuso, non chiudibile e non totalmente formalizzabile” (pp. 55-56) che, istituisce lo spazio di un “tra” all’interno dell’identità mettendola in movimento, desedimenta così la questione della differenza ontologica heideggeriana, facendone la tracciatura del suo stesso differire, fino a distruggere il toglimento hegeliano, disarticolando il movimento inglobante e rilevante della dialettica. In virtù di questa operazione, il (non) termine e il (non) concetto di différance non possono che ricadere all’interno dei termini/concetti che il filosofo francese qualifica come “indecidibili”, in quanto possono essere intesi secondo modi diversi, non per difetto, ma per l’impossibilità di una loro determinazione certa. Si giunge così al rilancio proprio della riflessione derridiana: la decostruzione che “non coincide mai con una «distruzione», semmai con un processo di smontaggio finalizzato a una comprensione più profonda e consapevole della costruzione stessa” (p. 65). Tale atteggiamento implica sempre un doppio gesto: da un lato la fase del rovesciamento e dall’altro quella dell’irrompente emergenza di un nuovo concetto che non si lascia comprendere nel regime anteriore. Non è un metodo, ma una pratica propria del pensiero che se è, lo è solo operativamente.
Il quarto e ultimo capitolo si concentra sulle tematiche etico-politiche (preponderanti a partire dalla metà degli anni Ottanta) della riflessione derridiana, nelle quali Petrosino rinviene il segno del pensiero heideggeriano e levinasiano. Il rinvio a Heidegger è in relazione al concetto di finitezza che Derrida così trasforma: “solo un essere finito e mortale […] può essere responsabile, solo un essere definito da una «finitezza infinita» può compiere una decisione autenticamente responsabile; al tempo stesso: laddove vi è decisione e responsabilità vi è sempre un soggetto finito e mortale” (p. 72). La riflessione derridiana si delinea come una interrogazione sulle condizioni di (im)possibilità dell’evento inteso come apertura dell’evento dell’avvenire e dell’avvenire dell’evento. Ma quali conseguenze porta con sé un tale pensiero? La prima, secondo Derrida, è la responsabilità (nei confronti della natura del logos), come forma affermativa dell’aporia, che insisteva nella necessità dell’esperienza stessa come resistenza interminabile, quindi come “riapertura e rilancio del possibile” (p. 79). Ma “la legge del «possibile» è l’«ancora» che detta la sua legge” (p. 79), cioè l’impossibile come “estrema possibilità di «un pensiero dell’affermazione che non si arresta alla perdita»” (p. 80), producendo così un “continuo risveglio” che rende non semplicemente attualizzabile, effettuata, compiuta una potenza, ma è invece una possibilità continuamente minacciata e non dipendente da condizioni di possibilità, tanto più esposta all’evenemenzialità dell’evento. L’impossibilità diventa la condizione di possibilità dell’evento, i cui nomi potrebbero essere il messianico (come esposizione alla sorpresa assoluta dell’apertura all’avvenire o alla venuta dell’altro) e chôra (come il luogo di una resistenza infinita, di un residuo neutro infinitamente impassibile), nomi dell’av-venire del “vieni!”, come impegno all’invenzione dell’altro.
Il testo, secondo il percorso intessuto sapientemente da Silvano Petrosino, articola abilmente gli snodi concettuali che modulano la riflessione di Derrida seguendo il tema dell’evento, ritagliando uno spazio di riflessione teoretico e insieme etico-politico del versante evenemenziale come sottotraccia di un cammino di pensiero marcato dal rapporto irriducibile con l’alterità.

Indice

Avvertenza 
Introduzione 
I. La vita e alcune opere 
II. Essere e segno: la scrittura 
III. Essere e politica: il logocentrismo 
IV. Essere e tempo: «Vieni!» o dell’avvenire 
4.1 Aporie – 4.2 Il possibile e l’impossibile – 4.3 Messianico e Chōra.Indicazioni bibliografiche 
Indice dei nomi


L'autore

Silvano Petrosino (1955) insegna Semiotica e Filosofia morale presso l’Università Cattolica di Milano e Piacenza. Studioso del pensiero contemporaneo si è occupato prevalentemente della riflessione filosofica sul segno e sull’unicità a partire dall’esame delle opere di Husserl, Heidegger, Lévinas e Derrida. Tra i suoi scritti ricordiamo: La verità nomade. Introduzione a E. Lévinas (Milano 1980, Paris 1984);Visione e desiderio (Milano 1992); Jacques Derrida e la legge del possibile. Un’introduzione (2° ed. Milano 1997, Paris 1984); Lo stupore (Novara 1997); Il dono (in collaborazione con P. Gilbert, Genova 2002, Bruxelles 2003); Babele. Architettura, filosofia e linguaggio di un delirio (Genova 2003); Piccola metafisica della luce (Milano 2004); Capovolgimenti. La casa non è una tana, l’economia non è il business (Milano 2008).

4 commenti:

MAURO PASTORE ha detto...

Esiste un derridiano grafocentrismo, uno anche di stesso prof. Derrida v'era. Esso serviva a una prefilosofica fondamentalità non fondamentalista e poi ad enciclopedismo od antienciclopedismo filosofici. Derrida scoprì una cultura extrafilosofica ed altra filosofica fonocentriste e studiò combinazioni fono-grafo-logiche. Altresì individuò un èsito filosofico ed altro antifilosofico glottocentrici. Studiò parimenti combinazioni fono-grafo-glotto-logiche, ma pure nelle altre sequenze dei tre elementi: fonia, grafia, glossa ovvero 'glotta'. Non a caso tal ultimo non direttamente intuibile nelle convenzioni linguistiche alogiche, infatti diviso tra contrarietà forti, saggezza e non saggezza, conoscenza e non conoscenza, filosofia ed antifilosofia. Entro e non propria matrice antifilosofica ravvisò la stabile relazione filosofica-antimetafisica, perché in copresenza con glottocentrismo. Ma questa attenzione non era semplice né gestibile senza una prassi vitale e difensiva, per questo Derrida procedeva per manifestazioni implicite anche, dato che glottocentrici erano anche i totalitarismi di destra con le sapienze e quelli di sinistra con le arti. Dalle ragioni della vita, che includono le cause della morte, non metafisicamente egli deduceva necessità vitale della saggezza della finitezza e notava un metafisicismo analogo ma contrario. Tale enigma per il pensiero e per il pensare altrui fu risolto con la definizione di una tattica filosofica non extrafilosofica di decostruzioni semantiche, da sensismo, da unitarietà percettiva e non statica, criticando l'idealismo-razionalismo perché statico oltre saggezza della finitezza, restando la dialettica non estetica hegeliana edificio intellettuale da ridurre, mutare, riadattare, per liberare la cultura universitaria. Questa prigioniera ma non fatta tale, dai tempi di Hegel agli anni di Heidegger, di filosofemi irrinunciabili ma insufficienti, era di nuovo libera se avesse fatto ritorno a consapevolezza scritturale, ricerche di tracce, orme, depotenzianti, potenzianti o... (im-)potenzianti senza negazioni prevalenti decisivamente. Così il cerchio chiuso non interrotto di evento-essere-evento trovava non essenzialità ma pure fondamentalità per definirne limiti, evitandone regressi in indefiniti, senza ricadere nel simulacro vero ma insignificante che già si profilava oggetto distruttivo per gli studi che rendeva archeologie letterarie e culturali. Un grafocentrismo che era conseguenza di distruzioni passate, della biblioteca di Alessandria e degli archivi di Lisbona, cui egli poneva ovviamente non rimedi, d'altronde esposto ad ugual rischi passati. Eppure il fonocentrismo recava nonsenso ai riferimenti di assoluti e relativi ed era preponderante negli ambienti della filosofia o per la filosofia; allora Derrida procedeva ugualmente nel rischio di una improvvisa prossima sommersione dei dati culturali e dei risultati filosofici, descrivendo criticamente il "logocentrismo", perché stessa possibilità descrittoria dipendendo da istanze critiche.
...

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

MAURO PASTORE :
... Dunque formulò assieme a necessità di irrazionalismo filosofico, di cultura filosofica basata su valutazioni estetiche emotive, pure la origine di questa necessità, ricollegando logocentrismo a fonocentrismo. Era la sua ricerca in parte criminologica, perché era pure la violenza insinuata nelle culture a doversi valutare; e gli si mostravano modi insolenti e maniere intolleranti, stili ricorrenti, dispetti ripetuti, anche ad opera o ai danni di alunni e colleghi... Quale fonetica, quale logica, quali relazioni scoprì? Era il fenomeno della negazione delle presenza nel tempo e del tempo della presenza a rivelarglisi, ben oltre tutte le possibili indagini psicologiche, non solo psicoanalitiche; negazione per difficoltà reali, enigmi eventuali, ma anche per i guai prodotti dalle immoralità e trasgressioni etiche. In tal senso la glossa era occultata dal fonema e nel dire di limiti della vita, di cause di morte, sicché si indicava il durare senza il mutare, la ferita od il morto senza l'impedimento o la sciagura... E tra malasanità predone anche di Stati e reticenze di ambiziosi occulti poteri, Derrida trovava anche i veleni poco descrivibili, gli incendi poco figurabili, le saggezze oscurate. Da queste scoperte filologiche, di fonemi non direttamente corrispondenti ma indicativi, ne scaturì la puntuale smentita dei rifiuti distratti o incauti delle tradizioni filosofiche ma pure la prudente diffidenza coi saperi filosofici tramandati, dagli strani poteri di elargire mutando, o di cambiare necessitando, infine la serenità di un senso della storia e di percezione di una svolta, col còmpito non più vasto di agire parallelamente, per gli altri da, lui stesso indicato.
Questo accadeva da francese di origini arabe ed in Francia.
...

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

MAURO PASTORE:
... Adesso la Cattedrale di Parigi è devastata da incendio, le periferie non recano culture autoctone dopo che il centro cittadino non aveva stesse comunità perché fuggite per casi imponderabili (polveri ed insetti più del resto), e con la architettura mutata, interrotta, per ragioni che si possono intuire non solo per motivazioni estetiche. Nei quartieri satelliti, che Derrida descriveva uguali a stazioni orbitanti e viventi di occasioni e scansioni temporali proprie notando allibito disintegrazione di uniformità naturali, ora non si vive ugualmente nel tempo come in un quartiere comunque si farebbe; e i cittadini constatano sorprese anzi imprevisti, non solo per le reti fittissime di comunicazioni, ma per gli accadimenti in combinazione... Senza una forma parvente tanto definita, nessuna Signora potrebbe invitare a comprendere, la chiesa che si dice "La Nostra Signora" a Parigi è devastata, forse non potranno più pensarne il nome in futuro mirandola...

Ugualmente, non parimenti!, il destino di combinazioni verbali che non constano più forse neppure per pochi; ma ciò dovrebbe invitare alla prudenza maggiore ed il recensore a fine articolo ne cerca solo un poco ma ne cerca, lasciando logici dubbi sulla neutralità o non neutralità dello studioso recensito delle Opere dell'esotico (forse ora già alieno?) pensatore J. Derrida.

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

Nel mio secondo messaggio la frase:

'col còmpito non più vasto di agire parallelamente, per gli altri da, lui stesso indicato' sta per:

col còmpito non più vasto di agire parallelamente, per gli altri da lui stesso indicato .

Si consideri pure, volendo, quella virgola una pausa per sottolineare mio distacco (incontrai il prof. Derrida e ricevetti da lui comunicazioni perché egli stesso trovava favorevole per il futuro la mia grande distanza da suoi eventi anche biografici).

MAURO PASTORE