Recensione di Roberta Sala - 03/03/10
Filosofia politica, Filosofia della religione
La raccolta di saggi curati da Emilio D’Orazio riveste un peculiare interesse nel dibattito sul tema della laicità. Peculiarità della raccolta è innanzi tutto quella di ospitare saggi di autori che si definiscono laici. È dunque, in primo luogo, il significato di ‘laico’ che qui preme indagare, sia per delimitare il campo dell’indagine, sia per identificare gli indaganti. Intento comune è quello di contestare le affermazioni di personaggi sedicenti laici che avallano l’intervento delle gerarchie ecclesiastiche nella sfera delle decisioni pubbliche. È dunque per l’amore filosofico (e non solo) della distinzione che gli autori rivendicano la propria laicità, prendendo le distanze dall’atteggiamento tutt’altro che laico di chi paradossalmente si professa tale mentre assume la propria posizione come l’unica ‘sanamente laica’ perché ‘vera’.
Una prima distinzione è quella tra il termine ‘laicità’ e il termine ‘laicismo’. La contrapposizione tra i due concetti è sostenuta appunto da coloro che si considerano i ‘sanamente’ laici, a fronte dei laicisti. Laicismo è per costoro la laicità degenerata dei laicisti, che vorrebbero espungere le verità di fede dai processi decisionali pubblici. Non di contrapposizione dei due concetti bensì di una loro necessaria distinzione parlano invece coloro che considerano la laicità in due sensi, ‘debole’ – la laicità tout court – e ‘forte’ – ovvero il laicismo: nell’un caso si fa riferimento alla laicità come procedura della discussione democratica, nel secondo caso si punta invece alla difesa di posizioni sostantive etsi Deus non daretur, difese a prescindere da qualsiasi rinvio alla religione. Emergono almeno tre accezioni del termine laico: laico è il credente quando difende la propria posizione, ispirata alla verità di fede, come l’unica ‘sanamente’ laica in quanto universale; essa si fonda sulla convinzione che esista e vada perseguito l’«unico bene» per l’umanità. Venendo alle accezioni ‘laiche’ di laico, costui è, in senso ‘debole’, colui che condivide alcune regole procedurali necessarie per delimitare un terreno discorsivo comune; laico è colui che non si avvale di presupposti religiosi nell’ambito della discussione pubblica. Laico, infine, nell’accezione ‘forte’, è colui che nega l’esistenza di Dio o almeno la mette tra parentesi nel momento in cui partecipa al dibattito pubblico.
La distinzione tra significato debole e significato forte di laicità è diversamente sostenuta da Giovanni Fornero e da Patrizia Borsellino. Fornero (“Due significati irrinunciabili di laicità”, pp. 61-74) precisa come l’accezione debole “alluda ad una serie di atteggiamenti metodici”, mentre quella forte rinvii invece “a quella specifica visione del mondo che è propria di coloro che non si limitano a rispettare […] criteri metodici, ma che pensano e vivono a prescindere da (qualsivoglia) Dio e da (qualsivoglia) credo religioso” (p. 61). Non ritenendo di dover preferire un’accezione rispetto all’altra ma solo di doverle opportunamente distinguere, Fornero considera compito dello Stato laico quello di adottare la laicità nel primo senso, laddove quella nel secondo senso coincide con una dottrina comprensiva tra le altre, nei cui confronti lo Stato deve mantenersi neutrale. Fatta questa precisazione, va comunque sottolineato come laicità debole non sia mero proceduralismo; adottare una procedura significa abbracciare una prospettiva assiologica, quella che permette di prendere sul serio il pluralismo dei valori mediante la ricerca di condizioni di possibilità per la loro coesistenza. In sostanza, è nella laicità come procedura che si sostanzia l’ethos dello Stato laico, soddisfacendo la sua intenzione di neutralità e di pari trattamento delle differenti posizioni morali.
La natura morale della laicità è sottolineata anche da Borsellino (“Le ragioni della laicità «procedurale» non fraintesa”, pp. 75-82): “la laicità come metodo non rappresenta un’accezione debole perché si fonda su un principio «forte» qual è quello che, con il limite del danno che ne possa derivare ad altri, impone il rispetto delle diverse convinzioni morali e religiose alle quali gli individui abbiano liberamente scelto di improntare la propria vita” (p. 77). Dunque laici non sono coloro che escludono il riferimento al trascendente dall’orizzonte della propria esistenza ma coloro che, abbiano o meno tale riferimento, rispettano le diverse visioni morali e religiose nonché la possibilità per chiunque di dissentire da qualunque sistema di valori. Il problema è semmai di ordine pratico, qualora, sostenendo una tale concezione procedurale ma non debole di laicità, ci si chieda se tutte le prospettive morali possano rientrare in modo pertinente nel cerchio della laicità, se vi rientrino per esempio anche quelle etiche ontologicamente fondate che per definizione non ammettono alternative rispetto al sistema di valori che esse incarnano.
Condividendo in gran parte questa ricostruzione dei significati di laicità, vari autori di questo libro dubitano che i cattolici possano plausibilmente definirsi laici. Nel saggio di apertura della raccolta, Zagrebelsky si interroga sul perché la Chiesa cattolica continui, nonostante i processi di secolarizzazione della società, a rivendicare la sua autorità nei suoi confronti (“Società pluralista e universalismo ella Chiesa cattolica”, pp. 1-16). A fronte di una società giudicata ‘malata’, moralmente debilitata se non relativista, la religione cattolica si offre come rimedio, anzi come religione civile, con l’esito di inficiare il principio di separazione che dovrebbe ispirare il rapporto tra ordine civile e ordine religioso. Si dichiara invece l’insufficienza del primo a badare a se stesso e il compito del secondo a contribuire alla sua tenuta. Al principio di laicità del diritto dedica le sue riflessioni Casuscelli (“Il principio di laicità dal punto di vista del giudice civile”, pp. 27-42), con qualche considerazione utile circa l’insegnamento della religione nelle scuole. Alle vicende di attualità italiana dedica il suo contributo anche Ferraris (“Lo spirito dei laici”, pp. 125-146), con qualche amara considerazione sul trattamento pubblico ricevuto dal caso Welby e dal caso Englaro, in occasione dei quali si sono manifestate senza troppo ritegno pesanti ingerenze della Chiesa nelle questioni di coscienza.
Significativo in questo discorso di confusione e sovrapposizione delle reciproche competenze di ordine civile e ordine religioso è il contributo di Maurizio Mori (“Rivoluzione biomedica. Bioetica e allargamento della laicità”, pp. 147-174”) che, a partire dalla bizzarra auto-investitura di membri della Chiesa cattolica come paladini della “autentica laicità”, contesta la sicumera con cui essi ritengono di fare il proprio dovere quando interviene su tematiche relative alla vita e alle scelte personali dei cittadini sulla base di una asserita conoscenza razionale di ciò che è bene e giusto per l’umanità. Per costoro i laici (in senso debole e in senso forte) sarebbero spregiativamente laicisti, poiché non accettano l’ordine morale stabilito dalla gerarchia ecclesiastica.
Sulla stessa linea critica si pone Gian Enrico Rusconi (“Le condizioni di un dialogo serio tra laici e cattolici”, pp. 43-60), che polemizza con la pretesa della Conferenza Episcopale Italiana di stabilire chi sia laico e chi non lo sia: laico sarebbe per la Cei colui che aderisce all’etica ‘naturale’, dunque laici sono certamente i cattolici che a tale morale della natura si ispirano (o dovrebbero ispirarsi); laicisti sono tutti gli altri, coloro che, non riconoscendo leggi di natura, sono ipso facto dei relativisti, pericolosi per se stessi e per la società. Ma è chiaro che, dietro questa pretesa, si nasconde la negazione del principio di laicità come fondamento del pluralismo democratico e come sua istituzionalizzazione (una posizione assai vicina a quella sostenuta da Rodotà che vede nel principio di laicità “un elemento costitutivo del sistema democratico”: si veda “Una laicità costituzionale”, pp. 16-26). Laicità, aggiunge Rusconi, è lo statuto stesso della cittadinanza; essa, che non è atteggiamento anti-religioso, entra semmai in conflitto con la strategia della Chiesa cattolica quando questa “mira a determinare autoritativamente l’etica pubblica del paese” (p. 44). In sostanza, con buona pace delle direttive della Chiesa e dei suoi maîtres à penser, a torto si dichiara laica la posizione di chi pretende di assegnare unilateralmente il valore di verità alla propria posizione, in quanto iscritta nella natura e nelle sue presunte leggi. A tale pretesa si aggiunge la convinzione che solo la religione cattolica possa fornire un ethos allo Stato liberale: esso, privo di valori, deve per necessità fare riferimento alla religione perché non cada vittima del relativismo, della demoralizzazione della società e dell’immoralità dei suoi costumi. Dissentendo da tale visione dello Stato laico, l’autore sostiene che l’ethos comune vada cercato nella capacità di convivenza di diversi punti di vista, nella comunanza delle regole condivise che permette a diversi ethos di coesistere. Questa coesistenza, naturalmente, non esclude pregiudizialmente i credenti dal processo deliberativo, bensì soltanto coloro tra questi che limitano l’autonomia del giudizio e i comportamenti di altri che non condividano i loro stessi valori.
Laicità come fairness è sostenuta da Marco Santambrogio, che riprende l’idea liberale della priorità del giusto sui beni, definendo i limiti che le diverse visioni del bene devono osservare nell’esercizio del potere politico (“Laicismo e liberalismo”, pp. 107-24). Il test della reciprocità richiede opportunamente ai non liberali (i cattolici intransigenti) se siano disposti a vivere in un mondo in cui le loro posizioni venissero represse.
Riflessioni intorno al rischio di una dipendenza del diritto penale da morali imposte sono condotte da Emilio Dolcini (“Da quale pulpito… Laicità, «sana» laicità e diritto penale”, pp. 175-90); la storia del diritto penale - commenta Dolcini - consiste proprio nel suo progressivo ritrarsi da sfere incompatibili con la laicità dello Stato. Non è laico quel diritto che riconosce alla religione uno spazio nella sfera sociale. L’autore propone di recuperare in senso positivo il termine ‘laicismo’ interpretandolo come l’impegno volto a realizzare la laicità dello Stato.
Alla laicità delle istituzioni dedicano la loro riflessione Lecaldano e Del Bò: se il primo sembra optare per una laicità forte, espressione di un liberalismo perfezionista volto a declinare procedure liberali per il buon funzionamento delle istituzioni pubbliche, il secondo si concentra sui significati di neutralità delle istituzioni, nell’intento di richiedere che “le norme non possano essere interpretate come una presa di posizione pubblica a favore o contro una certa dottrina” (p. 105).
Eccentrica rispetto a quelle fin qui ricordate è l’opinione di Antonella Besussi (“I limiti del secolarismo politico. La laicità in circostanze post-secolari”, pp. 191-206): l’autrice considera ogni tentativo di epurazione della sfera pubblica da riferimenti al trascendente come del tutto impraticabile e indesiderabile. Contestando le conclusioni del liberalismo politico rawlsiano, Besussi considera superata ogni separazione tra ragione pubblica e devozioni private, così come teoreticamente indifendibile la mossa liberale nel momento cui sottrae ai non liberali lo spazio della difesa pubblica delle loro ragioni. Espellendo costoro dallo spazio pubblico, perché in dissenso con i principi liberali, il liberalismo nega a loro e a se stesso la possibilità di un’auto-difesa. Escludere la possibilità di una difesa veritativa delle proprie posizioni significa assumerle dogmaticamente, perpetuando quel paradosso del liberalismo che predica l’accoglienza dei diversi ma li costringe a consentire sui propri presupposti. Ciò che si auspica, in una società post-secolare, è che nessuno sia pregiudizialmente escluso dal dibattito ma che tutti si riconoscano reciprocamente come capaci di giudicare la validità delle rispettive ragioni.
Un’integrazione alla discussione è fornita da Mario Ricciardi (“Religione e democrazia nel pensiero di Ronald Dworkin”, pp. 207-18): a partire dalla riflessione di Dworkin si valuta l’opportunità di fare riferimento alla religione nel corso del confronto politico, contro la soluzione rawlsiana che ne sostiene l’esclusione. Vi è inoltre svolta la tesi del diritto generale dei singoli a decidere in prima persona delle materie di importanza morale fondamentale. Tale diritto sembra lontano dall’essere rispettato nel contesto italiano, laddove questioni rilevanti sono gestite a partire da pregiudizi e senza il dovuto rispetto della libertà dei singoli. Valga come esempio il caso delle unioni gay e delle discussioni generate e degenerate intorno alla proposta di una loro formalizzazione; ad esso l’autore dedica ampio e dettagliato riscontro onde mostrare l’arretratezza del dibattito italiano rispetto alla posizione di Dworkin.
Indice
E. D’Orazio, Introduzione
G. Zagrebelsky, Società pluralista e universalismo della Chiesa Cattolica
S. Rodotà, Una laicità costituzionale
G. Casuscelli, Il principio di laicità dal punto di vista del giudice civile
G. E. Rusconi, Le condizioni di un dialogo serio tra laici e cattolici
G. Fornero, Due significati irrinunciabili di laicità
P. Borsellino, Le ragioni della laicità «procedurale» non fraintesa
E. Lecaldano, Libertà, liberalismo e religioni
C. Del Bò, Laicità, neutralità e liberalismo
M. Santambrogio, Laicismo e liberalismo
M. Ferraris, Lo spirito dei laici
M. Mori, Rivoluzione biomedica, bioetica e allargamento della laicità
E. Dolcini, Da quale pulpito… Laicità, «sana» laicità e diritto penale
A. Besussi, I limiti del secolarismo politico. La laicità in circostanze post-secolari
M. Ricciardi, Religione e democrazia nel pensiero di Ronald Dworkin
Il curatore
Emilio D’Orazio è direttore del Centro per la ricerca e la formazione in politica ed etica Politeia di Milano.
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