Recensione di Francesca Rigotti - 06/03/2010
Filosofia della religione
Recensione breve e cattivella per questa operina impropriamente chiamata trattato. Dico ciò perché “Tractare è un termine tecnico della filosofia medievale e significa ‘svolgere filosoficamente un tema’; lo troviamo proprio all'inizio della Divina commedia: ‘ma per trattar del ben ch'io vi trovai...’ (Inf., I 8). Il risultato finale del ‘trattare’ è il ‘trattato’. Così, ad es., Dante definisce la Monarchia come un trattato” (E. R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, a cura di R. Antonelli, Firenze, La Nuova Italia, 1992, p. 247). Ora, che Lazar svolga qui filosoficamente il tema dell'anima è affermazione insostenibile: tutto quel che fa è proporre affermazioni di sano buon senso derivategli probabilmente dalla mentalità e dalla pratica scientifica. Più che altro il nostro sembra ambire a rimpolpare la fila degli scienziati che vogliono dire anch'essi qualcosa di umanistico o “filosofico”, in genere quando sono anziani e alla fine della carriera (come Sir John Eccles ad esempio, o Manfred Eigen), e che credono che il mondo degli studi umanistici e sociali sia un universo senza regole e senza metodo nel quale si può dire qualsiasi cosa, e persino scrivere un trattato senza conoscere lo status artis, la bibliografia, il metodo, lo stile ecc. Il risultato è in genere, nel caso di Lazar di sicuro, un lavoro da dilettante, ingenuo e modesto, che sviluppa una (1) idea e poi ci ricama intorno qualcosa tanto per pubblicare un libro per il vasto pubblico, nella propria lingua e non nell'arido inglese delle pubblicazioni scientifiche che ben pochi leggono.
La idea di Lazar non è nemmeno malvagia, per quanto poco filosofica e molto commonsensistica: riappropriamoci dell'anima noi spiriti liberi che non crediamo in dio e non abbiamo alcuna religione, che siamo atei e materialisti puri. Non permettiamo che l'anima sia considerata proprietà indiscussa delle chiese, delle religioni e dei loro adepti. Prendiamocela anche noi insomma questa parola, anima, soffio, così poetica e che rimanda all'immaginario e al sogno, e che Lazar stesso definisce la rete di relazioni e legami che ognuno di noi intreccia con altri esseri umani, animali, cose e oggetti, e provvista di quattro caratteristiche: che mi accompagni dal mio concepimento; che costituisca l'essenza di ciò che mi identifica; che si separi dal mio corpo quando la vita lo abbandona e che abbia, infine, la capacità di sopravvivergli.
Sopravvivere al corpo? Non sarà forse un'altra anima immortale soggetta a ricompense e castighi nel tribunale dell'aldilà, quell'anima che secondo Vito Mancuso (L'anima e il suo destino, Milano, Cortina, 2007) risorgerà completa di corpo nel giorno del giudizio universale grazie a un processo anti-entropico in virtù del quale le anime dei defunti ritroveranno il loro corpo tutto bello integro in omnibus membris completus? Sarebbe carino mettere a confronto i due, il teologo e l'alto funzionario della scienza francese e vedere come potrebbe mai il primo difendere scientificamente la sua tesi agli occhi del secondo, ma già, di fronte alla più alta verità anche la verità scientifica deve tacere.
No, la sopravvivenza dell'anima di Lazar è temporaneamente limitata e vive oltre il corpo solamente per un certo tempo, il tempo che la persona (o le opere) del defunto rimangono nella memoria dei suoi cari (e dei suoi lettori). Sopravviverà insomma, dell'anima intesa come rete di relazioni, il ricordo che continuerà a impregnare coloro che piangono il morto (o si rallegrano per la sua scomparsa), vivo nella loro memoria. L'operetta si conclude con un tentativo di elaborare un altro paio di idee, giusto per riempire qualche pagina: le anime non occupano spazio fisico, non sono né vicine né lontane ma costituiscono, come le lingue, vettori di scambi interpersonali, e di conseguenza le culture, che sono formate da anime, sono anch'esse entità astratte che non occupano spazio e il cui uso individuale non riduce la disponibilità per gli altri; che nella rete di relazioni e rapporti che sono le anime sia lecito assegnare l'anima anche alle bestie (tesi assolutamente sostenibile, altrimenti perché si chiamerebbero animali?), e magari anche, e perché no, alle cose e agli oggetti, coi quali esercitiamo se non uno scambio almeno una proiezione di relazioni.
Infine, e a conclusione, riappropriatici dell'anima, passiamo, propone Lazar, a mettere al suo posto anche la morte, ripetendo, senza citarlo, ciò che dissero gli stoici: negandole realtà per quanto riguarda il morente, o più esattamente il morto, e riconoscendogliela per quanto riguarda i suoi cari.
Attestarsi su questa linea, rifiutare l'idea semplice e consolatoria della sopravvivenza dell'anima e della redenzione e resurrezione finale completa di corpo, presuppone – e lasciatemi approvare almeno queste parole - “del coraggio, persino dell'audacia, talvolta anche una sorta di incoscienza”. Che sono poi i caratteri che sorreggono i principi di resistenza e di liberazione da forze e ideologie, conclude Lazar, che sembravano invincibili.
Indice
Avvertenza
IN MATERIA D'ANIMA
L'anima-materia
La mia anima, come la mia ombra
La doppia progressività della persona
L'anima al di là della morte
Lo spazio duale delle anime
SPAZI DI ANIME
Del predominio delle anime sui corpi
Le culture si imprimono nello spazio delle anime
Culture o fenomeni culturali?
Comunità e comunitarismo
ANIME NON UMANE
L'anima, una proprietà della specie umana?
Oggetti inanimati, avete dunque un'anima?
L'A-MORTALITÀ
La morte nell'anima
I percorsi della libertà
Corpo a corpo con l'anima
NOTE
L'autore
Philippe Lazar, Commendatore dell'Ordine nazionale del merito, Ufficiale della Legion d'onore e Cavaliere delle arti e delle lettere, nato il 21 aprile 1936 a Parigi, è uno statistico e un alto funzionario francese. Importante artefice della politica della ricerca in Francia negli anni 1980-2000, è stato direttore generale dell'INSERM e presidente dell'Institut de recherche pour le développement, poi capo consigliere alla Cour des comptes (da Wikipedia).
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