sabato 24 aprile 2010

Fusaro, Diego, Bentornato Marx! Rinascita di un pensiero rivoluzionario.

Milano, Bompiani, 2009, pp. 374, € 11,50, ISBN 9788845263941

Recensione di Simon Francesco Di Rupo - 24/04/2010

Storia della filosofia moderna (marxismo), Filosofia politica

Marxiano o marxista? Quale attributo legare al pensiero di Marx? Un problema di questo tipo, si potrebbe dire, è un falso problema, o una sorta di cruciverba per tecnici della storia del pensiero che non interessa la concretezza dei problemi che ci circondano. Così non è, e Diego Fusaro, con il suo Bentornato Marx! - libro scorrevole e ben scritto quanto denso di interessanti problematiche - ci mostra come, proprio in questa distinzione, abbiano luogo pertinenza e impertinenza dell’interpretazione del celebre filosofo di Treviri, il quale di certo non è passato alla storia per essersi sottratto alla presa in considerazione dei problemi concreti dell’uomo, e che anzi sulla critica del contesto storico e sociale ha fondato il suo percorso speculativo e umano. Se ne rende bene conto, e ce ne rende bene conto Fusaro, che sotto questa prospettiva assume le vesti di un preparato “marxologo”, con diffusi riferimenti alla bibliografia marxiana: dal più noto Althusser (con cui mantiene un confronto critico per larga parte del testo) ai vari Bahro, Wittfogel, Balibar, Preve (con cui ha la fortuna di aver instaurato un proficuo scambio di pareri de visu) e molti altri sino al Derrida di Spettri di Marx di cui sposa in pieno diverse suggestioni. Una su tutte: “è come se Marx e il marxismo fossero fuggiti via, si siano sfuggiti, come se si fossero fatti paura a vicenda” (cita questo passaggio di Derrida a p. 39). E’ questo il perno interpretativo adottato da Fusaro, il che potrebbe far pensare, al lettore di prima passata, a una “marxologia debole”- forse anche pensando al fatto che il volume è dedicato “a Gianni Vattimo, maestro e amico”; ma il problema che il libro sottopone al lettore è di capire fino a che punto, una lettura “debole”, o meglio ermeneuticamente guidata, di Marx, non possa essere di fondo la lettura più forte, poiché non inquinata dalla devianza del marxismo che l’autore attribuisce più a Engels che a Marx stesso, il quale fra l’altro, amava dire per conto suo “tutto quel che so è di non essere un marxista”, come Fusaro cita in esergo al quarto paragrafo del primo capitolo, dedicato appunto alla separazione del “cantiere aperto” di Marx e dell’ “edificio ultimato” di Engels. In questa chiave, il primo ermeneuta “prudente” di Marx parrebbe essere Marx stesso. Ma l’autore ci propone di seguire un percorso di “approssimazione a Marx” ben preciso, dichiaratamente filosofico; il filosofo tedesco non era solo filosofo, ma duttile studioso di vari e vasti campi del sapere, in primis, come tutti sanno, quello economico: questo lo consegna a una tipologia filosofica antica, di gran lunga antecedente alla moderna (e soprattutto contemporanea) frammentazione dei saperi. Fusaro questo lo sa e lo sottolinea più volte lungo il primo capitolo, con, al contempo però, l’invito a interpretare Marx anche per suoi aspetti filosofici importanti quanto non sempre sottolineati, se si considera, come Fusaro ci sollecita a fare, quanto la cultura contemporanea tenda a “mettere a morte Marx” più che altro per i risvolti politici di cui il manifesto comunista è stato causa. Pare più che pertinente, quindi, l’importanza che lungo il testo viene data al Marx filosofo della storia, il quale va a braccetto con il Marx critico e attivista, aspetti del filosofo che vivono di una certa propedeuticità, dipendendo strettamente dalla posizione che Marx ha nei confronti della storia e, implicitamente, del tempo. Anche la struttura del testo pone l’aspetto critico (nei confronti di Stato, religione e tradizione filosofica) del pensiero di Marx nel capitolo secondo, al quale segue, a parere di chi scrive, il capitolo decisamente più rilevante del lavoro di Fusaro, ossia Un filosofo della storia in incognito. E’ qui che si gioca la partita della rivalutazione di Marx sul piano storico e filosofico, ed è qui che l’autore si fa forte di un approccio “laico” nei confronti di Marx, lontano dalle esasperazioni di detrattori e fanatici; approccio favorito proprio dal punto di vista della filosofia della storia, la quale, nonostante le proclamazioni funebri novecentesche è viva e vegeta; Aristotele sosteneva che per negare la filosofia non si può non adoperarne gli strumenti: è ora di considerare questa antica verità anche per la filosofia della storia. Lo stesso Marx, per criticare la filosofia della storia hegeliana, si porta su un piano speculativo con pretese di verità circa il processo storico, e Fusaro ce lo testimonia con chiarezza: “quella di Marx è, al di là delle sue intenzioni, una filosofia della storia ‘futuro-centrica’, in cui la speranza messianica in un ‘meglio’ che ha ancora da venire viene dialettizzata in una versione capovolta della filosofia della storia hegeliana[…] la prospettiva marxiana si basa sull’idea che esista un soggetto storico-filosofico (lo Spirito di Hegel diventa il Proletariato di Marx) che ‘fa la storia’ e che, tramite il suo agire consapevole, le permette di avanzare in vista dell’obiettivo finale” (p.99); un Marx, per questo, allievo di Hegel e Fichte per quanto concerne la persuasione della presenza di un telos immanente al percorso storico, e un Marx dal messianismo secolarizzato (secondo la lezione di Lowith), in cui la dimensione dell’uomo fra un “già” e un “non-ancora” colloca la tensione di questi all’autorealizzazione nella storia per mezzo dell’emancipazione del proletariato, contro quel “blocco” inautentico in cui consiste la convinzione moderna di un uomo emancipato solo secondo il passaggio in cui da citoyen diviene bourgeois. L’insoddisfazione di Marx rispetto a queste connotazioni dell’uomo lo spingono a vedere nella natura umana un’unicità e una irriducibilità tale da poterci permettere di avvicinare il pensiero marxiano, ad esempio, a Stirner. Non solo Feuerbach (prima), non solo Engels (durante), non solo comunismo (dopo), insomma. Siamo lontani dal totalitarismo che ha preteso di leggere in Marx la legittimazione delle proprie politiche, e l’epoca in cui viviamo ha finalmente la possibilità e il dovere intellettuale di riscattare i “maestri del sospetto” di Ricoeur (Nietzsche, Marx, Freud) dalle esasperazioni interpretative a loro susseguite: che un filosofo sia sempre più grande dei suoi interpreti, o perlomeno più longevo, è una realtà che la storia della filosofia tende a consolidare seppur prendendosi tutto il tempo di cui ha bisogno.
La filosofia della storia in Marx – e la libertà, la profondità che la distinguono dalla filosofia politica intesa in senso totalmente programmatico – dunque, c’è eccome, e il suo “cantiere aperto” rimane tale poiché, fintanto che si rimane all’interno dei concetti filosofici, nulla è mai del tutto superato e nulla è del tutto innovativo. Il suo cantiere aperto diventa il “nostro” cantiere aperto, quando si vuole definire il suo pensiero, quando lo si vuole interpretare: il punto è che se si (ri)comincia a guardare Marx sotto le prospettive di Fichte, Stirner, Bauer e meno sotto le prospettive di Engels e del comunismo, ecco che potremo davvero dire “Bentornato Marx!” non tanto, dunque, sul piano dello schieramento politico quanto sul piano strettamente culturale - sebbene il primo possa e debba essere emanazione del secondo, altrimenti si ricadrebbe in un vuoto astrattismo che Marx deplora senza mezzi termini. Ma è piuttosto evidente come il volume di Fusaro non intenda collocarsi come una proposta sull’aspetto della prassi; in questo senso anche questo testo è un cantiere aperto, e di questo ha però tutti gli aspetti positivi, ovvero quelli che rendono la filosofia il regno della interrogazione sulla verità e non del dispotismo figlio della presunzione di possederla. Sarebbe forse interessante, a questo punto, leggere un Fusaro interprete di Gramsci.
La riflessione finale che Bentornato Marx! suscita è che del vetusto ma sempreverde albero Marx guarderemo meglio le radici e meno la digestione dei frutti. In fondo pare proprio questo il pregio di Fusaro: aver riaperto un caso. Un caso peraltro di interesse pienamente contemporaneo, come dimostrano i paragrafi dedicati al plusvalore e al pluslavoro (p.227) e al feticismo delle merci (p.262). Fusaro non descrive soltanto ma, riaprendo il caso, riapre anche una critica marxologica densa di spigolature e anfratti; entrare nel dibattito italiano su Marx non è facile, dopo un ‘900 critico, a riguardo, in grado di annoverare fra le sue fila figure del calibro di Labriola, Gramsci, Mondolfo, Della Volpe, Gentile per nominarne solo alcuni fra i più importanti. Autori che però Fusaro conosce e di cui, senza remore, è disposto a citare e gradire numerosi passaggi all’interno del testo. Non gli è sconosciuta anche la critica “estera”: ad esempio si permette dubbi nei confronti dell’ Althusser della “rottura epistemologica” e rinviene il “principio speranza” di Bloch come anello di congiunzione ermeneutico con la fitta presenza della speranza stessa all’interno del “futuro-centrismo” della filosofia marxiana. Il capitolo finale è infatti dedicato a Marx nel novecento, e proprio qui si trova il Fusaro attento studioso della critica marxiana e dei suoi mille risvolti, non ultimi i legami filosofici fra Bloch e Marx come nuova possibilità critica al di là dell’ “alienazione” e del “parricidio” comunista nei confronti del celebre filosofo di Treviri.
Come riflessione a margine, seppure non marginalmente, credo debba essere sottolineata l’importanza dei passi presenti a pagina 37, quando prende piede un singolare accostamento fra Marx e Cristo, e quindi fra cristianesimo e marxismo. Fusaro dice: “Engels sta al marxismo come Paolo di Tarso sta al cristianesimo, essendo impossibile – per ragioni certo molto diverse – individuare in Marx e in Cristo – paragone certo problematico, ma che pure è stato più volte impiegato nella storia delle interpretazioni – i fondatori dei movimenti che si sono richiamati a loro.” Le analogie fra Cristo e Marx ci sono nella misura in cui entrambi “presentavano all’inizio tratti che rompevano con la morale dominante e con l’ordine costituito, per poi diventare gradualmente, da ‘setta’ originaria, movimento di portata internazionale e, ancora più tardi, forza direttiva dell’ ‘impero’ che aveva cercato di debellarli” (ibidem). Fusaro ha ben presente il discorso di Lyotard (e lo cita nella medesima pagina) sul fatto che il marxismo abbia riprodotto, per fare presa sulle masse, la forma della “grande narrazione”, tipica delle religioni. Qui la filosofia della storia gioca un duplice ruolo: da un lato, il fatto che l’eredità marxiana nella “religione” marxista abbia prodotto l’epopea fideistica tipica, appunto, delle religioni, non fa che dare sempre più credito alla tesi fusariana del Marx filosofo della storia, anche se verrebbe da pensare che sia la componente eminentemente messianica che apra la strada alla complessità e alla devianza delle sue immediate interpretazioni e incorporazioni, rendendo quella di Marx più una sorta di teologia della storia senza dio, o meglio una “antropologia della storia” nel senso più forte. D’altro canto, quello che per la filosofia della storia contemporanea può essere d’interesse, è notare come le passate filosofie della storia “futuro-centriche” (come direbbe Fusaro) portino con cadenza regolare a delle interpretazioni con pretese totalizzanti sul piano dell’applicazione concreta. Se il presente è un tempo da redimere, la “caduta” intesa in senso teologico consegna la sua eredità anche in forme di pensiero nient'affatto religiose, come è il caso della filosofia marxiana: se è vero che la non-accettazione del presente porta alla necessità di una redenzione o almeno di un miglioramento delle condizioni di vita, è altrettanto vero che il futuro-centrismo è la prima forma di tirannia sulla vita stessa, poiché procede secondo la negazione del presente, il che da un lato può utilmente scuotere lo status quo, d’altro lato ne predispone un altro, che però “ha sempre da venire”. Il presente, insomma, diventa un significante astratto con un significato da rintracciare sempre in un “non-ancora”. Il pericolo di riletture, interpretazioni assolutizzanti deriva da questa delicata torsione.
Ad ogni modo questa sintomatologia delle filosofie della storia che espellono passato e (soprattutto) presente dal campo di una plenitudo temporum è un problema aperto - annoso e abissale di cui la corrente filosofia della storia deve tenere e rendere conto, soprattutto perché il germe del totalitarismo e del fondamentalismo - proprio la storia ne è lezione – nasce e cresce partendo da molteplici forme di comprensione della realtà, in un’eterogenesi dei fini alle volte estremamente ardua da decodificare, e ancor più da prevedere.
Sarà dunque molto interessante il dibattito susseguente a Bentornato Marx! sia per il grande pregio del volume – la chiarezza – frutto di una preparazione puntuale - sia per il “cantiere aperto” che solleva nuovi orizzonti per le considerazioni su Marx, sulla nostra attuale realtà storica e, dunque, sulla nostra comprensione in merito. In questa direzione Diego Fusaro è un piacevole esempio di come la freschezza di un giovane filosofo possa inserirsi nel panorama filosofico nazionale con piena legittimità: d’altronde è questo il percorso che si può augurare a chi, come Fusaro, manifesta rispetto e considerazione nei confronti dei maestri che l’hanno preceduto, virtù che, accompagnate da una limpida e incontestabile competenza, possono incontrare i favori del lettore non specialistico come dello studioso più abituato a verificare l’influenza degli “spettri” nella storia della filosofia.

Indice

Bentornato, Marx!
Marx pensatore della critica.
Un filosofo della storia in incognito
Il male sulla terra: la vita di fabbrica
Regno della libertà, fine della preistoria
Cronologia della vita e delle opere
Bibliografia


L'autore

Diego Fusaro (Torino, 1983) è attento studioso del pensiero di Marx e delle sue molteplici declinazioni otto-novecentesche. Per Bompiani ha curato l’edizione bilingue di diverse opere di Marx. Ha inoltre recentemente dedicato all’interpretazione del pensiero marxiano tre studi monografici: Filosofia e speranza (2005), Marx e l’atomismo greco (2007), Karl Marx e la schiavitù salariata (2007). È il curatore del progetto internet La filosofia e i suoi eroi. Dal 2006 è direttore (con Jacopo Agnesina) della collana filosofica “I cento talleri” della casa editrice Il Prato. Attualmente sta svolgendo un dottorato in filosofia della storia presso l’Università Vita-Salute S. Raffaele di Milano.

Feuerbach, Ludwig, Teogonia secondo le fonti dell’antichità classica, ebraica e cristiana, a cura di Andrea Cardillo.

Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 364, € 38,00, ISBN 9788842092094.

Recensione di Brigida Bonghi - 24/04/1010

Filosofia della religione

Consegnata all’editore Otto Wigand nell’aprile del 1856, la Teogonia secondo le fonti dell’antichità classica, ebraica e cristiana deve il suo nucleo originario agli studi compiuti da Feuerbach tra il 1849 e il 1852. Il forzato isolamento nella residenza di Bruckberg, il dissesto finanziario causato dal mancato successo del lavoro editoriale feurebachiano e dalla grave crisi in cui veniva a trovarsi la fabbrica di porcellane della quale era comproprietaria Bertha Feuerbach, avevano condotto il filosofo tedesco all’ospitalità gratuita e consolatoria della sua stessa biblioteca, nella quale la poesia della classicità, con particolare attenzione per Omero, si era rivelata come una nuova passione e una nuovo apporto alla riflessione sulla religione.

Nel 1854, se teniamo fede all’epistolario, Feuerbach aveva già intrapreso la stesura di un’opera che, pensata dapprima quale antologia complementare alla sua Essenza della religione del 1846, aveva in seguito assunto una differente forma: si veniva sviluppando, a partire dalle fonti, una ricerca che tentava di illuminare la scaturigine prima della coscienza del diritto divino e della moralità.

A un movente di natura squisitamente speculativa andava a sommarsi per Feuerbach la certezza di una svolta al livello della recezione pubblica della sua immagine, turbata da violente polemiche, non solo accademiche, giunte pure dagli ambienti della sinistra hegeliana. La forza che l’autore rintracciava nella nuova opera in fieri era stabilita su un linguaggio del tutto nuovo, depurato da qualsiasi riferimento alla scuola filosofica tedesca eppure ugualmente calato nella storia recente e presente: «Feuerbach infatti precisava che la nuova opera era “essenzialmente diretta contro il trascendente assolutismo filosofico, religioso, politico e persino giuridico dei tedeschi”» (p. XX della Introduzione di Andrea Cardillo).

Un investimento e una dedizione di tal genere non valsero tuttavia che risultati modesti, o, in qualche caso, del tutto negativi. Il governo austriaco e quello russo confiscarono immediatamente l’opera; in Germania una tutt’altro che lusinghiera recensione (l’unica) di Arnold Ruge completava il quadro di un perfetto disastro editoriale.

La Teogonia procede secondo una scansione in 42 capitoli la cui linearità tematica non risulta però coglibile al termine della prima lettura. Accorre in nostro aiuto la bella Introduzione di Cardillo che suddivide in 8 nuclei tematici il procedere dell’opera. I capitoli 1-4, dunque, concentrandosi su una disamina fenomenologico-linguistica dell’epica omerica, rintracciano la nascita della divinità nel concetto del desiderio umano, eloquente o muto che esso sia. Il capitolo 5 indaga le ragioni linguistiche del desiderio, mentre i capitoli 6-14 ricercano i risvolti fenomenologici e antropologici della fede negli dei. I capitoli 15-26 esaminano lo iato tra il desiderio di felicità considerato origine degli dei e il desiderio di felicità considerato origine della morale e del diritto. I quattro capitoli successivi espongono i punti in comune rintracciati da Feuerbach fra il politeismo e la tradizione ebraica e cristiana in merito ai temi del miracolo, della teodicea e della rivelazione.

I capitoli 31-35 affrontano una disamina del libro della Genesi e del suo linguaggio, mentre i capitoli 36-39 analizzano le differenti e varie forme di antropomorfismo, dal punto di vista antropologico e da quello psicologico. Gli ultimi tre capitoli si impongono come la proposta etica di Feuerbach che, nello stabilire il confronto tra il politeismo greco e il monoteismo cristiano, mostra anche l’abisso fra le due strutturazioni della felicità concludendo, in disaccordo con l’idea cristiana della felicità, che «la virtù che non nasce dalla felicità è soltanto ipocrisia; perciò chi vuole rendere migliori gli uomini li renda innanzitutto più felici, e, se questo è impossibile, allora rinunci anche a quello» (p. XXVI della Introduzione di Andrea Cardillo).

Metodo genetico-critico superato da una fenomenologia critica delle forme del linguaggio, profonda discussione delle fonti, indagine filologica del tutto compromessa nell’analisi psicologica costituiscono il terreno su cui Feuerbach sviluppa questa vasta enciclopedia del desiderio di felicità. Quest’ultimo si presenta come la nascita stessa della coscienza (e della coscienza del limite), come il fenomeno della consapevolezza dell’uomo d’essere finito, determinato e sottoposto alla natura (intesa come mondo e come natura propria e altrui).

Al desiderio può seguire, a livello di reazione, il far uso dei mezzi dell’intelligenza e degli strumento messi a disposizione dalla natura al fine della realizzazione dei propri scopo: al fine, in altre parole, della soddisfazione della propria mancanza. Tale reazione trasforma il desiderio in volontà.

La figura della divinità esprime, in diverse forme, la soddisfazione del desiderio, ed è sui termini telos, epos, ergon, che, a parere di chi scrive, si gioca, in ultimo, la proposta etica feuerbachiana. Nel capitolo 5, Osservazioni linguistiche, Feuerbach, nel sottolineare la differenza tra l’uomo («Gli uomini sono esseri che desiderano, anelano, chiedono, vogliono, si augurano qualcosa. […] La mera volontà, ovvero il desiderio che qualcosa sia od accada, è e si chiama uomo», p. 18) e il dio («ma la stessa volontà che si realizza concretamente, che si impone, che vince, che ha successo, è e si chiama dio», p. 18), analizza per l’appunto i tre termini nella dimensione del loro essere climax di una evoluzione, climax non esplicitamente detto nel corso dell’opera, ma che costituisce lo sfondo e anche l’esito della ricerca.

Se il telos si presenta, nel linguaggio omerico e nel suo significato originario, come il portare a termine e soddisfazione un desiderio, esso si manifesta pur sempre come ancorato al pensiero della soddisfazione del desiderio. Di diversa specie, al contrario, vediamo i termini epos ed ergon, che stabiliscono il fatto, il compiuto del desiderio. Tuttavia, l’epos è ancora un’oscillazione tra il desiderio e l’opera, «poiché il lavoro o l’azione è soltanto una promessa» (p. 19). Ergon è, infine, l’opera fatta, compiuta, soprattutto in riferimento a oggetti e opere esteriori (un letto, una strada, un abito).

Proprio su questo punto si stabilisce l’abisso tra il politeismo pagano ed il monoteismo cristiano: nel seno di quest’ultimo, il desiderio assume tutt’altra forma rispetto a ciò che in Omero si è potuto osservare. Nel monoteismo cristiano «il desiderio non si limita al sentimento paziente di una mancanza ma vuole piuttosto vederla rimossa ed effettivamente la rimuove nel pensiero, assieme al desiderio si dà anche la rappresentazione di una divinità» (p. 45). Questo il sottofondo dell’essenza del cristianesimo: il desiderio di felicità corrisponde, sì, al desiderio della vita beata, ma celeste. Il telos del cristianesimo si realizza come termine primo e ultimo dell’evoluzione della coscienza, il desiderio di beatitudine si concretizza nel desiderio d’essere simile ad un dio. Non così nell’ambito del politeismo pagano. Il pagano opera al fine del soddisfacimento del desiderio attraverso i mezzi forniti dall’intelligenza, dagli oggetti disponibili nel mondo, dalle forze stesse della natura. L’etica del pagano è dunque un’etica del fare, della Tätigkeit, nell’aiuola del mondo, la stessa che, per Dante, ci fa feroci. L’aiuola nella quale solo si gioca la felicità e la coscienza stessa.

Indice

Introduzione di Andrea Cardillo

Cronologia della vita e delle opere

Nota al testo

Teogonia
Annotazioni

Indice dei luoghi biblici
Indice degli autori citati


L'autore

Ludwig Andreas Feuerbach (Landshut, 1804 - Rechenberg, 1872), dopo una fase idealistica, fu critico della filosofia hegeliana e della religione. Dapprima studente di teologia, egli si risolse a favore degli studi filosofici, conclusisi ad Erlangen, ove conseguì pure la libera docenza in filosofia con la dissertazione De infinitate, unitate atque communitate rationis (1828). Fu dal 1838 collaboratore degli “Annali di Halle”, organo dei giovani hegeliani, su cui pubblicò La critica della filosofia hegeliana (1839). Sue opere fondamentali sono L’essenza del cristianesimo (1841), L’essenza della religione (1846), Lezioni sull’essenza della religione (1851), Teogonia secondo le fonti dell’antichità classica, ebraica e cristiana (1857).

Link

http://www.ludwig-feuerbach.de
Ludwig Feurbach Archive

mercoledì 21 aprile 2010

Gasparotti, Romano, L’inganno di Proteo. La filosofia come arte delle Muse.

Bergamo, Moretti & Vitali, 2010, pp. 240, € 14,00, ISBN 9788871864440

Recensione di Alessandra Granito – 21/4/2010

Estetica, Ermeneutica

Il volume di Gasparotti, L’inganno di Proteo. La filosofia come arte delle Muse, può essere considerato una riflessione ampia, densa e lineare di un’affermazione di Pindaro: “ciechi sono i pensieri degli uomini, quando cercano la via con gli artifici dell’intelligenza ma senza le Muse”. Il concetto intorno al quale prende corpo l’analisi articolata dell’autore è infatti quello dell’urgenza di ri-scoprire la destinazione e la vocazione (originariamente) musaica della filosofia. Come? Attraverso una liberazione dalle strettoie fuorvianti di un pensiero ridotto a mero téchne e mediante lo sviluppo di un’ermeneutica del rapporto tra filosofia, linguaggio poetico e aporeticità della verità.

Quello di 'filosofia' (logos) e ‘arte’/‘poesia’ è un binomio concettuale che ha mosso la riflessione filosofica sin dalle sue più lontane origini, ed è lo stesso attorno al quale Gasparotti sviluppa la sua intensa riflessione. La cultura post-umanistica che caratterizza l’Occidente e, in particolare, l’Europa contemporanea – terra del tramonto del pensiero ospitante, scenario di disincantamento e della krisis della filosofia – non solo ha pensato filosofia e poesia come assolutamente antitetiche e irriducibili, ma le ha anche inserite all’interno dell’inarrestabile sviluppo delle scienze esplicative e specialistiche responsabili della decapitazione delle categorie metafisiche della filosofia. Se il pensiero filosofico nasce dalla meraviglia e dallo stupore (thaumazein) – e dunque anche dallo sbalordimento (ekplexis) e dal turbamento (xenismós) – ora esso si declina in senso esplicativo come puro theorein, e la sua meta nascosta diventa quella ‘noia profonda’ (Heidegger) in cui l’ente sprofonda nella più totale indifferenza del piano ontico-mondano. Qui, nella sua compiuta spiegabilità, continua Gasparotti, la realtà tutta perde il suo alone di mistero e finisce per essere ridotta a qualcosa di ovvio, prevedibile, dominabile e manipolabile; nella rimozione di ogni autentico domandare l’ignoto viene così riportato all’ambito del noto e l’essere viene consegnato alla logica della disponibilità illimitata. La filosofia, in particolare, perde la sua costitutiva irriducibilità ed eccedenza teoretica rispetto alle scienze ‘performanti’ e non interroganti. Da dimensione evocatrice di trascendenza essa viene ridotta a mero sapere specialistico-settoriale privo di autentico spirito di ricerca: il pragma esoterico della filosofia non può ridursi a un mathéma, a un contenuto di sapere, e non può nemmeno essere completamente disvelato attraverso un linguaggio autocentrato e autosufficiente perché questo comporterebbe il venir meno del suo sguardo pan-oramico e metafisico. Questo è il cuore della riflessione di Gasparotti: la filosofia è animata dal desiderio (Imeros) della sophía, del bene e della bellezza (Eros), ossia da dimensioni che non possono essere sospese nella loro incommensurabilità per apparire semplicemente sul piano dei ‘fatti positivi’ a cui vorrebbe costringerle il narcisismo oggettivante della ratio. Questa consapevolezza invita ad assumersi la responsabilità di riscoprire l’essenza musaica della filosofia e ad andare a fondo della questione della ‘verità’ non nei termini della seduzione ingannatrice dell’adaequatio, ma come ‘non-nascondimento’ (alé-theia) e come ‘divino andare errando’ (theia ale) in quanto l’uomo è da sempre esposto all’estraneità più abissale e, dunque, all’errare e all’erranza ed è ‘il vivente essenzialmente votato a sbagliare’ (Foucault). Per questo il suo archetipo è la figura di Proteo, il Vecchio del mare, perché il suo esserci è caratterizzato dall’incertezza (amechanía). L’uomo è essenzialmente ‘ek-sistenza’ (Heidegger), ossia un pro-tendersi e un domandare che, nell’incontro con la realtà manifesta, ne asseconda la kinesis ‘in-sistendovi’ e ‘de-sistendovi’. L’erranza caratterizza nel profondo la costituzione stessa dell’essere umano e domina, quindi, ogni suo cammino e ogni sua ricerca. Senza errare non si dà ricerca della verità e, dunque, non si dà esistenza. Quello con la filosofia è insomma un incontro o, meglio, la filosofia è il mistero dell’incontro, il protendere verso l’Altro quale assolutamente Estraneo che si cerca e a cui ci si vuol dedicare.

Qual è il destino della filosofia? Attraverso il richiamo a Heidegger, Husserl, Severino e Derrida quali testimoni del senso e del destino della filosofia in Occidente e, in particolare, in Europa, Gasparotti sembra indicare un itinerario, un cammino possibile per il ‘ritorno’, la riappropriazione della e un ‘nuovo incontro’ con l’essenza musaica della filosofia: cercarla dove essa non si trova, negli spazi trasparenti della verità interiore, dove la riflessione sul fare torna ad essere la riflessione sull’essere. Tale è l’abitare dell’uomo nel pensiero: oltre i limiti angusti delle apparenze, oltre l’involucro del sensibile e del finito; un abitare che non si preclude all’esperienza poetica. Perché? Perché l’esperienza artistica e il linguaggio della poesia riescono a liberare la filosofia dalle strettoie di un pensiero ‘in-ospitante’ e claustrofobico (oggettivante) e aprire uno scorcio, una prospettiva che indichi una verità che possa darsi/rivelarsi piuttosto che essere preclusa. Affidata al linguaggio meravigliato, innocente e veggente della poesia la filosofia non è improbabile né falsificabile, ma è ripensata alla radice come ‘ricerca di verità’, al di là delle forme equivoche del pensiero notificante e oggettivante proprio perché, come scrive magistralmente Hölderlin: “la divinità è prossima/ e difficile da cogliersi”.

Indice

In limine. Pragma touto
Cap. I. Il Dio Pan è morto?
Cap. II. Musa
Cap. III. Il vecchio del mare
Cap. IV. Phainomenon
Cap. V. L’indistruttibile
Cap. VI. Comandamento
Cap. VII. Forza/violenza
Cap. VIII. L’individuo, la persona
Cap. IX. Uomini dalla doppia testa
Cap. X. Hestía/Hermes
Cap. XI. Prossimo, ma difficile a cogliersi
Cap. XII. Chora
Commiato

Postfazione. Il pensiero ospitante di Flavio Ermini


L'autore

Romano Gasparotti insegna Fenomenologia dell’immagine presso l’Accademia delle Belle Arti di Brera e Ontologia fondamentale presso la Facoltà di Filosofia dell’Università “Vita e Salute” – S. Raffaele di Milano. Ha pubblicato numerosi libri e articoli di carattere filosofico ed estetico, sulla filosofia antica, sulla filosofia della politica. Collabora con Massimo Donà sulla divulgazione dell’opera postuma e inedita di Andrea Emo. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Figurazioni del possibile. Sul contemporaneo tra arte e filosofia (Cronopio, 2008); Filosofia dell’Eros. L’uomo, l’animale erotico (Bollati Boringhieri, 2007). Ha inoltre pubblicato la voce “Eros”, in I nomi comuni dell’Anima (Moretti&Vitali, 2005) e la voce “Morte e Tempo”, in I nomi della Sincronicità (Moretti&Vitali, 2007).

martedì 20 aprile 2010

Borsellino, Patrizia, Bioetica tra “morali” e diritto.

Milano, Raffaello Cortina, 2009, pp. 370, € 26,00, ISBN 9788860302427

Nota di Beatrice Magni - 20/04/2010

Etica, Filosofia del diritto

Perché negli anni Sessanta nascono il concetto e il termine ‘bioetica’? La comparsa della parola esprime l’improvvisa inquietudine per una vulnerabilità umana misurata nel vertiginoso sviluppo delle conoscenze intorno al vivente, e delle infinite possibilità di intervento sul corpo. Si tratta di una consapevolezza emersa negli Stati Uniti in seguito allo svilupparsi di una ricerca sull’uomo capace di mobilitare considerevoli risorse umane e finanziarie, nell’ambito di una società intrisa di “valori” iscritti nel diritto della vita quotidiana? O, più semplicemente, è l’esito della reazione conseguente alla sconvolgente scoperta del modo con il quale il nazismo trattò il corpo, la dignità e la libertà di milioni di persone?
Probabilmente una congiunzione di tutti questi fattori che, negli Stati Uniti, hanno trovato modo di cristallizzarsi in questo termine diventato universale. Poiché, in effetti, la parola è nata negli Stati Uniti dalla penna del medico americano Van Rensselaer Potter, che la utilizzò in un libro del 1971, Bioetica: The bridge of the Future, un testo ponte destinato a introdurre l’etica nel sapere biologico e scientifico. L’ambizione iniziale, in effetti, era quella di esplorare l’insieme delle ricerche sul vivente con l’obiettivo preciso di garantire le migliori condizioni alla sopravvivenza dell’essere umano e del pianeta. Rapidamente, però, la dimensione globale-planetaria andrà riducendosi all’analisi dello sviluppo delle scienze biologiche applicate alla medicina – e fondamentale, in questo senso, sarà l’influenza del fondatore del “Kennedy Institute of Ethics”, André Hellegers. Questa focalizzazione sulla medicina continua però a porre problemi di fondo, in particolare riguardo i limiti della riflessione intorno al vivente – uomo, animale, vegetale. Il termine ‘etica applicata alla scienza rischia dunque, in questa fase, di rimanere prigioniero del suo oggetto, piuttosto che alimentare una specifica riflessione.
Ed ecco che, improvvisamente, il termine ‘bioetica’ riesce a coinvolgere tutti, teologi, filosofi, giuristi, scienziati, medici, agenti e pazienti, in una riflessione comune nella quale tutti hanno diritto di parola. Una ‘trans-disciplinarità’ che viene però fraintesa. Per molto tempo, in effetti, gli scienziati accettarono con riluttanza che le loro ricerche e i loro interventi sul corpo fossero sottoposti ad uno sguardo esterno, privo di competenze scientifiche. Accettarono con riluttanza il giudizio dei filosofi, dei teologi e dei giuristi. Nonostante ciò, la ricchezza della bioetica sembra risiedere precisamente in questo incontro permanente tra punti di vista diversi e differenti. Una bioetica che fosse solo l’espressione di una riflessione scientifica non avrebbe senso nella contemporaneità, non più di una bioetica dal profilo strettamente religioso, filosofico o giuridico.
Le questioni fondamentali che riguardano il corpo suscitano, a seconda delle varie culture e sensibilità, risposte molto diverse, in quanto relative a diversi dilemmi, quali ad esempio l’inviolabilità o meno del corpo da parte della scienza e della ricerca medica, l’indisponibilità di questo corpo, la sua potenziale commercializzazione, il rapporto tra il corpo e la persona, lo “status” dell’embrione e del feto, l’atteggiamento nei confronti della nascita e della fine della vita, la definizione di morte clinica, biologica e cellulare, i rapporti del gene rispetto al corpo e alla persona e, da ultimo, controversie più recenti come quella relativa alla dimensione economica della cura.
Ognuno di questi ambiti è inesauribile, ma sempre centrato sullo stesso problema fondamentale e tuttavia inafferrabile. Che ne è del rispetto della dignità umana? Che cosa significa rispettare il corpo? La dignità consiste nel rispetto di questo corpo? Il corpo è una proprietà? Ho un corpo, o sono un corpo? Se il corpo è, in effetti, semplicemente a disposizione dello spirito, allora è indefinitamente misurabile, riparabile, modificabile, votato all’oggettivazione e modellabile come una materia, secondo la concezione platonica più ortodossa. Se, al contrario, il corpo non è solo quello nel quale vivo, ma anche quello senza il quale non ho un’esistenza autonoma, allora non è più discrezionalmente “violabile” da parte della medicina. Il corpo si confonde con la persona, e non solo sul piano simbolico. Questa dualità, o questo monismo, traducono e giustificano conflitti di valore mai stati così attuali.
Il saggio di Patrizia Borsellino si propone di indagare le tensioni morali e giuridiche esistenti tra ricerca e pratica clinica in campo biogenetico, nell’ambito di società pluralistiche: la bioetica rappresenta il luogo privilegiato della riflessione dell’autrice, il contesto “nel quale si devono cercare e si possono trovare risposte alle domande relative alla spettanza delle decisioni e ai confini della relazione di cura, soprattutto – ma non solo – quando si è in presenza di situazioni critiche […] oppure alle domande relative ai benefici e ai rischi della sperimentazione, così come alle concrete opportunità e ai reali pericoli collegati alle applicazioni delle conoscenze acquisite nell’ambito della genetica” (p. IX). La versione di bioetica qui considerata si propone di essere immune da tentazioni e vicoli ciechi, quali la banalizzazione – la trappola della dipendenza dal pregiudizio, da quello che John Stuart Mill definirebbe il magico potere della consuetudine -, la logica del sospetto nei confronti del progresso scientifico, e un’ideologica intransigenza che pone il veto su qualsiasi opportunità di riflessione critica verso gli ambiti normativi della morale (le morali, come sottolinea l’autrice) – etica e meta-etica – e delle deontologie, mediche e giuridiche. E giuridico è il filo rosso della riflessione, il punto di vista privilegiato del testo (con prevalente, ma non esclusivo, interesse per il contesto italiano): i casi esemplari di controversia – fecondazione artificiale, sperimentazione sugli embrioni, aborto, ingegneria genetica, testamento biologico, eutanasia – sono esaminati secondo i criteri descrittivi della genealogia e del confronto, e con ambizione normativa, in termini di ricerca di soluzioni ragionevoli e argomentate prese di posizione a favore della strada ritenuta preferibile. A governare l’argomento normativo sono principalmente il criterio del danno, secondo il quale il controllo sociale, sotto i due aspetti della coercizione legale e della verifica dell’adeguamento individuale allo standard morale, potrà interferire solo a scopi protettivi della (ancora) milliana sfera other regarding, e il rispetto dell’autonomia, intesa come competenza e capacità individuale di “dar forma alla propria esistenza” (p. XIII).
Il capitolo di apertura è dedicato a definire i confini di una bioetica intesa come etica critica, ovvero impegnata a fare distinzioni tra stati del mondo, identificare criteri per valutare stati del mondo, ordinare stati del mondo possibili, secondo criteri di ragionevolezza. La bioetica presa sul serio – nei suoi aspetti descrittivi, metaetici, e normativi – sarà dunque in grado di assumere, e soprattutto mantenere, un carattere filosofico e un metodo scientifico, tale da permettere di affrontare questioni (e dilemmi) normative e valutative plurali. ““Bioetica, rectius “bioetiche”” (pag. 9), dunque: “non vi è, cioè, un unico modo di intendere e di praticare la bioetica, perché diversi sono i modi di intendere la natura, il ruolo e gli obiettivi dell’etica filosofica di cui in essa si fa applicazione… se la bioetica ontologicamente fondata si iscrive nell’orizzonte di una metaetica oggettivistica a impronta assolutistica, che fa dell’etica l’ambito per il raggiungimento della “Verità intorno a ciò che costituisce il bene ultimo dell’uomo, sul presupposto dell’esistenza di assunti, principi, valori morali da considerarsi validi e indiscutibili in virtù della fonte, esterna all’uomo (Dio, la Natura, la Società), da cui promanano, oppure in virtù della loro inerenza costitutiva all’ontologia dell’uomo, la bioetica come autonomo contesto giustificativo fa propri gli assunti delle concezioni metaetiche di tipo non oggettivistico e non assolutistico, sia nelle versioni non cognitivistiche, che pongono l’accento sulle scelte soggettive inevitabilmente implicate dai giudizi di valore, sia nelle versioni moderatamente cognitivistiche, nelle quali si attribuisce rilievo al ruolo decisivo che hanno le informazioni empiriche e le analisi razionali nella costituzione delle prese di posizione morali” (pp. 9, 17). Se il corredo biologico è esso stesso plasmato socialmente da pratiche e istituzioni, nel secondo capitolo l’autrice indaga precisamente quello che indica come un “tardivo interesse dei giuristi per le questioni bioetiche e, conseguentemente, lo scarso apporto che, almeno fino a un certo punto, alla bioetica è venuto da una riflessione realizzata in prospettiva giuridica” (p. 44), cui deve necessariamente rispondere un cambio di direzione e di prospettiva nel quale il diritto positivo entri a pieno titolo nella bioetica toolbox, in qualità di risorsa non solo inevitabile, ma anche e soprattutto imprescindibile. Questa nuova prossimità tra morale e diritto si declina nei modi plurali di una filosofia del diritto di orientamento analitico, che trova in Norberto Bobbio e Uberto Scarpelli referenti esemplari, e si distingue per il “rifiuto delle sintesi ardite e delle evoluzioni nei cieli della metafisica e, per contro, dall’adozione, prima di tutto, di uno “stile di lavoro” in cui si dà precedenza all’analisi sulla sintesi, con la convinzione che sia la strada da percorrere se si hanno a cuore la chiarezza e il rigore concettuale” (p. 53). In un mondo caratterizzato da ciò che John Tomlinson (Sentirsi a casa nel mondo. La cultura come bene globale, Milano, Feltrinelli, 2001) chiama “connettività complessa”, intesa come il rapido sviluppo e il costante infittimento della rete di interconnessioni e interdipendenze che caratterizzano la vita sociale moderna, l’accostamento critico tra materia bioetica e qualificazione problematica di categorie giuridiche consolidate o disponibili è reso necessario dall’accelerata ed eterogenea compresenza di differenze in uno spazio comune, alias multiculturalismo (si pensi, ad esempio, alla nozione di persona indagata nel saggio, e alla connessa difficoltà di tracciarne i confini). Il richiamo – da parte dell’autrice - alla teoria analitica dei concetti suona, tuttavia, anche e forse soprattutto come una messa in guardia contro un “diritto che, pur in presenza di un diffuso pluralismo etico, sancisca la superiorità di un sistema particolare di valori morali (il lato oscuro del multiculturalismo, ben evidenziato da S. M. Okin, ndr), lungi dall’essere la migliore, o addirittura la sola strada percorribile, rischi di trasformarsi in “veicolo di autoritarismo”, in strumento per l’imposizione di certezze morali che la società non ha” (p. 69).
Che direzione prendere, dunque, a partire da questo sfondo plurale? Si andrà procedendo secondo inclusioni virtuose, o per opposizioni funzionali? La soluzione proposta comprende elementi di compatibilismo – evidente nell’affermazione secondo la quale “… si tratta di un modello conforme all’idea del diritto come “regola di compatibilità” tra valori differenti, piuttosto che come “regola di preponderanza” di un solo valore o sistema di valori – ma non dimentica il weberiano e tragico “patto tra potenze diaboliche” contenuto in Politik als Beruf , di un’etica della responsabilità attenta alle conseguenze, ovvero politicamente ‘spendibile’, ma anche lucidamente consapevole che in date circostanze un bene può nascere anche da un male, e viceversa, e che tracciare confini è la mossa cruciale. “… Eppure nessuno tenterebbe di fare nulla, se non avesse la prospettiva di pervenire a un limite. E non esisterebbe neppure intelligenza, perché chi ha intelletto agisce sempre in vista di qualche cosa, e questo è un limite: il fine infatti è un limite” (Aristotele, Met. II.): se la bioetica è luogo di sfide considerevoli, la più considerevole tra tutte è quella relativa alla definizione di un senso del limite, inteso in prima istanza come una rassegna di reali soluzioni, di vie effettivamente percorribili (siano esse inerenti alla pianificazione di politiche pubbliche e alle decisioni sulle cure, come appare chiaro nei capitoli 4 e 5 del testo, al potenziamento di alcune leggi, allo sviluppo di nuovi modi di pensare e così via) per migliorare – dove e quando necessario - la condizione del soggetto umano.
Nei capitoli che seguono, e che rappresentano il corpo centrale del testo, i capitoli sesto – relativo al caso delle mutilazioni genitali femminili, il settimo – relativo alla sperimentazione clinica, terapeutica e farmaco genetica, sull’uomo, e l’ottavo – relativo ai modelli che disciplinano la procreazione, il saggio di Borsellino entra a pieno titolo nelle pratiche e nelle (buone e cattive) prassi, interrogando quindi e mettendo in questione il difficile equilibrio tra le istanze di un liberalismo politico - un contesto condiviso in cui ogni cittadino acconsente che ciascun altro (senza distinzione di razza, genere, classe sociale e così via) abbia la sua stessa libertà di scelta - e quelle suggerite da un liberalismo onnicomprensivo. Il nodo problematico del rispetto dell’autonomia individuale come condizione per il rispetto delle culture verte, insomma, sul definire, di volta in volta, i confini di questo imprescindibile interesse, e il “caso estremo delle mutilazioni genitali femminili” rappresenta in tal senso un caso esemplare di analisi della controversia tra universalismo e particolarismo dei diritti, declinata nei meccanismi della cultural defense, in promesse di libertà da aspettative altrui aprioristicamente fondate, nella diffidenza contro “creative” appropriazioni di sapere e potere, in una parola, nelle inadeguatezze e nelle tensioni del liberalismo dell’anno duemila dove, come scrive l’autrice, “bisogna acquisire una sempre più solida consapevolezza che la difesa dei diritti fondamentali e l’affermazione della loro inviolabilità, lungi dall’entrare in conflitto con il rispetto dovuto alle diverse culture, costituiscono la condizione per la sopravvivenza di quelle culture a cui gli individui scelgono di appartenere, condividendone i valori e i principi ispiratori, fermo restando che i diritti fondamentali, in quanto “leggi del più debole contro la legge del più forte che vigerebbe in loro assenza…valgono a proteggere la donna o il minore o l’oppresso anche contro le loro culture e perfino contro le loro famiglie”” (p. 192).
Ma è forse nel capitolo dedicato al rapporto e alle tensioni tra le nuove frontiere della genetica e il diritto, che l’autrice pone le premesse ulteriori per “affrontare correttamente la questione del rapporto che sussiste tra determinate acquisizioni scientifiche e l’adozione di altrettanto ben determinate soluzioni normative o politiche sociali” (p. 285). Se, infatti, tra la deferenza nei confronti delle differenze e l’imposizione monista di un Bene, la “domanda intorno ai valori” non può essere elusa, e la scienza non sempre indica la strada, perché non sempre è in misura di dire tutto circa “i fini da raggiungere mediante gli strumenti che consente di approntare” (p. 288), quello di Patrizia Borsellino – si vedano in tal senso gli ultimi due bellissimi capitoli - è soprattutto un ragionevole richiamo a non semplificare, perché “in ogni stato liberale c’è posto per ciascuna chiesa ma non per una chiesa di stato, per ciascuna nuova impresa ma non per il tipo di potere economico che determina da sé la politica pubblica, e così via. Gli individui che abitano una società sono liberi ed eguali quando ogni istituzione di quella stessa società è autonoma: la libertà è adattiva, consiste di diritti all’interno di ambienti diversi, e dobbiamo capire gli ambienti, uno per uno, se vogliamo garantire i diritti. Il liberalismo è insomma l’arte di tracciare confini; è agli stessi cittadini insieme con lo stato che spetta decidere dove tracciare le linee che racchiudono – e dividono - le diverse sfere sociali: in questo senso la mappatura degli spazi istituzionali è una decisione politica: le linee […] saranno tracciate qui e là, in maniera sperimentale e talvolta sbagliata. […] Probabilmente non le otterremo mai esattamente giuste, e la mutevolezza di stati e mercato richiede, in ogni caso, la loro continua revisione. L’importante è che non si abbandoni la pratica di questa fondamentale arte: la conquista del liberalismo è reale anche se (sempre, ndr) incompleta” (M. Walzer, “Liberalism and the Art of Separation”, Political Theory, vol. 12, n. 3, august 1984).
Qual è, in ultima istanza, il rapporto tra la bioetica e la deontologia? La deontologia crea un obbligo di rispetto delle regole per tutti coloro che praticano una stessa disciplina o professione. L’etica pone la questione delle scelte non semplici, quella nelle quali emergono forti conflitti valoriali. L’etica non è là per risolvere i problemi, ma per sollevarli. Il concetto di bioetica si applica, secondo le circostanze e le persone, ad ambiti plurali che riguardano, nello stesso tempo, la ricerca sull’uomo, la riflessione sul rapporto tra tecnoscienze e essere umano, o ancora, a particolari e differenti situazioni cliniche. Queste specificità, che dovrebbero restare separate, hanno la tendenza a sovrapporsi: ciascuna vorrebbe iscriversi, nello stesso tempo, nel concreto immediato e nell’universale del pensiero; fare della casistica sull’interruzione di gravidanza e derivarne un giudizio definitivo sullo statuto dell’embrione.
La bioetica tra morali e diritto rimane dunque un’interrogazione fondamentale sempre aperta, da riprendere in continuazione, sulle nostre capacità di agire sul nostro destino, rispettando sia l’orgogliosa esigenza del progresso conoscitivo, sia la nostra umiltà di umani votati alla finitudine e alla ricerca. Qual è la sfera dell’etica? Quali i suoi riferimenti? Quali le istituzioni? E quale, infine, il futuro degli umani?
La bioetica è una disciplina che si può trasmettere, secondo norme oggettive e a partire da un sapere, o resta un’interrogazione esistenziale individuale, messa semplicemente in comune da comitati ad hoc? Probabilmente né una cosa né l’altra. Non è nata spontaneamente da una buona volontà né da una convinzione religiosa, razionalista o scientifica. Non rappresenta un corpus di leggi. È un’esigenza di responsabilità, quindi di conoscenza dell’immenso cantiere di riflessioni aperto da più di mezzo secolo per derivarne le risorse necessarie ad affrontare con la maggiore lucidità possibile l’avvenire del rapporto tra la scienza e i terrestri.
Proviamo a chiudere il cerchio, torniamo all’inizio: “In altre parole, quella sottoscritta è la prospettiva in cui il rifiuto di pretese verità etiche, attingibili per vie diverse dall’indagine empirica e dall’analisi razionale, va di pari passo con la convinzione, presente in tutti coloro che fanno propria in filosofia l’opzione per lo stile analitico, che, solo realizzando discorsi di cui siano chiari i punti di partenza, i passaggi e i punti di arrivo, si possa pervenire, per le questioni sollevate dalle condotte in ambito sanitario e, più in generale, in ambito biogenetico, se non a soluzioni definitive, senz’altro a soluzioni da considerare sempre più valide, perché sempre più supportate e garantite dalle conoscenze disponibili, così come dalle analisi razionali realizzabili” (p. 16). Il saggio di Patrizia Borsellino, e il suo invito ad indagare sempre nuove giurisdizioni sensibili alla cultura, capaci di mediare tra valori diversi e conflittuali tramite il raggiungimento di compromessi equilibrati, e perciò largamente condivisibili, ci appare ora, a libro ancora aperto, un invito irrinunciabile.

Indice

La bioetica: problemi, sviluppi, prospettive 
Bioetica e diritto 
Il rapporto medico-paziente tra morale, deontologia e diritto: diritti, doveri, responsabilità 
Gli strumenti della libertà del paziente in ambito sanitario: informazione, consenso, riservatezza 
Decisioni sulle cure: direttive anticipate e altri strumenti in previsione dell’incapacità 
La medicina di fronte alla sfida del multiculturalismo: il caso estremo delle mutilazioni genitali femminili 
Sperimentazione clinica sull’uomo e tutela dei soggetti 
Le regole per la procreazione: modelli a confronto 
Le nuove frontiere della genetica e il diritto 
Lo stato vegetativo permanente come problema bioetico e giuridico 
Eutanasia tra morale e diritto: argomenti contro e argomenti a favore 
Cure di fine vita e dignità del morire


L'autrice

Patrizia Borsellino, professore ordinario di Filosofia del diritto all’Università di Milano Bicocca, è presidente del Comitato per l’etica di fine vita e vicepresidente della Consulta di bioetica.

giovedì 15 aprile 2010

Forni Rosa, Guglielmo, L'amore impossibile.

Genova-Milano, Marietti, 2010, pp. 200, € 22,00, ISBN 9788821165290.
Antropologia filosofica

Recensione di Rolando Ruggeri - 15/04/2010

Il testo è una raccolta di saggi apparsi tra il 1970 e il 2000, tranne il primo, inedito, che fa da introduzione. Il libro verte su un tema estremamente complesso e delicato: la percezione che l'uomo ha del mondo.

Il saggio introduttivo pone la domanda: "che cos'è un'autobiografia?", che sembrerebbe meritare una risposta semplice, quasi banale: la vita di un uomo raccontata da se stesso. Le cose non stanno in modo così piano. Nel giro di poche pagine l'autore fa intuire la profondità dell'argomento. Occorre anzitutto distinguere tra un piano storico, oggettivo, 'reale' ed un piano interiore, soggettivo, che organizza gli eventi della vita. Solo la riflessione del soggetto può dare un senso al vissuto, al ricordato. L'autobiografia è composta da questo: una storia organizzata filtrata dai ricordi, che non sono mai oggettivi in quanto sono anch'essi frutto di una mutazione. Raccontare se stessi diventa qualcosa di mediato dall'interpretazione personale degli eventi vissuti. Diversi sono gli autori citati, da Dilthey a Cassirer, da Rousseau a Levi-Strauss, da Dostoevskij a Borges.

Il secondo saggio, “Claude Lévi-Strauss: dal dubbio antropologico alla metafisica dell'inconscio” pone un quesito fondativo: per studiare l'uomo occorre esaminarlo con distacco e freddezza oppure occorre partecipare della condizione di uomo? Lévi-Strauss esamina la posizione di due filosofi che hanno segnato una opposizione radicale nel modo di intendere la questione. Cartesio “concepisce l'intero mondo come oggetto perché pone soltanto se stesso come soggetto: il mondo è tutto oggettivo, l'io tutto soggettivo” (p. 56), Rousseau percorre la via opposta, alla cui base è “l'elemento pratico-affettivo: 'la pietà, derivante dall'identificazione a un altro che non è solo un parente, un vicino, un compatriota, ma un uomo qualsiasi, dal momento che è un uomo, anzi, un essere vivente qualsiasi, dal momento che è vivente'” (p. 57). La svolta è chiara ed essenziale. Cartesio pone un unico soggetto che percepisce un mondo del tutto oggettivo ed esterno; Rousseau intuisce la partecipazione del mondo e degli altri individui alla coscienza propria dell’essere vivente. In altre parole Rousseau apre alla possibilità di uno studio ‘partecipato’ dell’uomo e della società. È la fine di una troppo rigida interpretazione delle altre culture in base a schemi prestabiliti, che non tengono conto di una soggettività ineliminabile di ciò che Cartesio riteneva puro oggetto. Lo studio di Lévi-Strauss ricerca, attraverso questa ‘partecipazione’ e somiglianza tra gli uomini, la struttura fondamentale che guida l'essere umano. La dicotomia cartesiana tra soggetto e oggetto, ricucita da Rousseau, deve di nuovo ripresentarsi una volta che il soggetto abbia acquistato consapevolezza di partecipare egli stesso all’oggetto: “per comprendere convenientemente un fatto sociale, è necessario afferrarlo totalmente, cioè dal di fuori, come una cosa, ma come una cosa di cui fa parte integrante l’apprendimento soggettivo” (p. 61). Questo  terreno di incontro tra il soggetto e l’oggetto, tra l’io e l’altro, è la struttura profonda che regola la vita di tutti gli uomini.

Il saggio “Borges o della solitudine” si muove su un terreno molto simile. Lo scrittore argentino mostra nelle sue opere una serie di eventi che appaiono slegati tra loro, indipendenti. Accanto ad una frammentazione formale della vita troviamo qualcosa di più profondo, che diventa una sorta di piano sotterraneo che agisce nascosto dall'apparente frammentarietà degli eventi. È quella struttura che Lévi-Strauss poneva quale ‘tesoro’ da disseppellire per una genuina comprensione del mondo. Borges disseppellisce il ‘tesoro’ e lo pone davanti al lettore in modo palese. Ciò che all’inizio delle proprie opere Borges descrive come autonomo, nel volgere delle storie viene ad essere dipendente da una ragione che tutto guida. La posizione a cui Borges porta il lettore è quella di un unico autore, che unisce in sé tutte le opposizioni ed elimina ogni differenza personale in un piano universale che si realizza nel corso dei secoli e dei millenni.

L’irriducibilità delle coscienze individuali ad un unico piano è invece argomento del saggio dedicato alla interpretazione che Michail Bachtin fa di Dostoevskji. Il campo letterario diviene un insieme di voci, un intreccio di coscienze senza che sia assorbita dal piano narrativo che trova negli eventi narrati una necessaria linea unitaria. L'interpretazione del grande autore russo fatta da Michail Bachtin è quella di un palco calcato da più personaggi senza che sia definito un vero e proprio protagonista di scena; tutti i personaggi sono drammaticamente contrapposti tra loro, lo spazio narrativo è invaso da molteplici flussi di coscienza. Dostoevskij rivoluziona il modo di intendere la narrazione, “ là dove gli altri vedevano un solo pensiero, egli ha saputo trovare e sondare due pensieri, uno sdoppiamento” (p. 98). La trama diventa un coro, e questa complessa modulazione di note evoca la complessità di una realtà irriducibile (come già Forni Rosa ha mostrato in altri saggi) ad una interpretazione lineare. Di nuovo si trova la struttura profonda degli uomini in quello spazio che costituisce l’interazione tra essi. Anche se Dostoevskji è lontano dal volerlo teorizzare, la compresenza delle coscienze nelle pagine dei propri romanzi, rivela antropologicamente la partecipazione di ogni uomo con il suo simile, uniti da quella struttura che già Forni Rosa parlando di Lévi-Strauss indicava con chiarezza.

Senza entrare nel merito di ogni interessante saggio, vale notare la ricerca generale di una ‘forma’ per collocare la realtà degli eventi entro gli umani orizzonti mentali. Si possono considerare i fatti come qualcosa di esterno, oggettivo, come qualcosa di puramente interno e costruito dall'uomo stesso, oppure guidati da una sorta di legge superiore (non necessariamente divina) che fonda il piano reale. Gli altri autori puntualmente esaminati nel testo sono Cassirer, Dilthey, Thomas Mann, Goethe e Nietzsche. Il punto centrale diventa il mondo della fantasia. Se i fatti della vita sono necessariamente organizzati grazie ai ricordi, occorre tenere presente un’altra questione. Nel ricordo compare spesso un elemento di ‘disturbo’, “non è possibile separare nettamente l’esperienza accumulata e la fantasia che liberamente crea” (p. 155). L’esperienza si cancella con il passare del tempo e la fantasia può anche prendere il sopravvento, portando alla follia oppure, nel caso la fantasia sia incanalata in modo virtuoso, alla ‘fantasia poetica’. Il processo artistico può quindi trovarsi in questo punto di incontro-scontro tra ricordo e fantasia, tra identità vissuta e identità costruita, con tutti i rischi che comporta il muoversi su questo incerto crinale. La paura di essere travolti da questo processo è di Goethe come di Rousseau ma affrontarla ci riporta al tema centrale del testo.

Come si è visto nel saggio dedicato a Lévi-Strauss, per riuscire a comprendere il mondo occorre prima parteciparvi empaticamente poi osservarlo nuovamente in un nuova (e non la stessa in cui costringeva l’orizzonte cartesiano) ritrovata posizione esterna. Ora, analogamente, “l’arte si trova in una condizione strana e paradossale: essa si allontana dalla vita per meglio comprenderla; l’elaborazione fantastica del dato reale, ovvero l’elaborazione interna del materiale esterno, è il processo in cui avviene un nuovo incontro particolare, tra me e gli altri, tra l’immaginazione e la realtà, tra l’individuo singolo e la sua condizione storica” (p. 159).

L’ultimo saggio è dedicato a Rousseau e dà il titolo all’opera. Il matrimonio e l’amore sono in Rousseau lo specchio di quella tensione tra passione e matrimonio quali rispettivamente istinto e contratto; di nuovo tornano immaginazione (sentimento) e realtà (matrimonio), in una antitesi che riesce a risolversi nell’opera di Rousseau con l’accettazione del matrimonio da parte di Giulia (nella Nuova Eloisa) e nella sua estrema fedeltà a questo istituto. Sta nell’inquietudine di Giulia il segno della concezione negativa del mondo di Rousseau. Giulia trova nella fantasia il suo rifugio, il “paese delle chimere” diventa un mondo migliore di quello in cui le è toccato di vivere. “Non esiste nulla di bello se non ciò che non esiste” (pp. 192-193), ecco la conclusione di Giulia, forse persa con l’autore che l’ha creata in quella dimensione difficile che sta fra realtà e immaginazione e che, come Forni Rosa suggerisce, può dare vita a creazioni artistiche fantastiche, oppure a fughe da un mondo non riconosciuto come vivibile.

Indice

Che cos'è un'autobiografia? Modelli e problemi della confessione

Claude Lévi-Strauss: dal dubbio antropologico alla metafisica dell'inconscio

Borges, o della solitudine

Michail Bachtin: il romanzo polifonico di Dostoevskij

L'autoalienazione del soggetto dell'ultimo Rousseau

Cassirer e la dimensione simbolica

Un mondo oltre il mondo. Vita e poesia nella formazione del concetto di spirito

L'amore impossibile. Passione e matrimonio nella Nuova Eloisa


L'autore

Guglielmo Forni Rosa, allievo di Felice Battaglia, ha insegnato Filosofia morale e Antropologia filosofica presso la Facoltà di Lettere di Bologna. Membro del dottorato in Studi religiosi della stessa Università e del consiglio di amministrazione della “Société internationale des amis du musée J.-J. Rousseau” (Montmorency). Tra le sue pubblicazioni: Il dibattito sul modernismo religioso (Laterza, 2000), Destino della religione. Il cristianesimo moderno fra scienza storica e filosofia della storia (Marietti, 2005), “Scienza e religione: i modernismi cristiani” in Religioni e modernità, a cura di G. Filoramo (Einaudi, 2008), Simone Weil politica e mistica (Rosenberg & Sellier, 2009).

domenica 11 aprile 2010

Tarizzo, Davide, La vita, un’invenzione recente.

Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 236, € 20,00, ISBN 9788842092100.

Recensione di Stefano Grosso - 11/04/2010

Filosofia morale

Kant, in un luogo della sua bibliografia, si domanda: Wer ist der Mensch? Sebbene tale domanda appaia solo timidamente nel corso dell’ultimo lavoro di Davide Tarizzo, sembra sia tale interrogativo a scandirlo del tutto – lo si potrebbe persino ritenere una sorta di “controcampo morale” rispetto l’analisi politica svolta in precedenza (Giochi di potere, sulla paranoia politica Laterza, 2007). Premesso ciò, rintracciate Le parole e le cose di Michel Foucault, l’autore apre il proprio spazio d’indagine sulla modernità – iniziata, seguendo Foucault, non con Cartesio bensì con Kant – e a ruota sulla vita. La modernità è la messa a distanza del soggetto da se stesso in un luogo nello spazio e nel tempo: è s-oggettivazione. Ed è in questa spaziatura che Foucault rintraccia la nascita, oltre che della biologia come scienza della vita, di un nuovo dispositivo di potere che ha di mira la vita stessa, la “bio-politica”. Così, da una mera tassonomia sulla vita, svolta nel precedente periodo storico, che pone gli esseri viventi in una classificazione rigorosa, si perviene attraverso la cultura moderna a una completa astrazione del concetto di vita, scompigliata in un dispositivo ontologico definito “selvaggio”. Di cosa si tratta? Di un impeto misterioso che gli esseri possiedono. In cosa consiste? Nel semplice fatto di esistere: una forza, impenetrabile alla ragione, che spinge gli esseri a vivere, alla vita tout court. La vita costituisce allora il fulcro dell’essere; è l’irrequietezza di una pulsione che dà e toglie essere all’essere che, vivente, agisce nel mondo e nello stesso istante ne viene consumato. La vita è dunque un tessuto che lega l’essere e il non-essere. L’autore ne rintraccia poi ulteriori informazioni riversandosi in un doppio paradigma, scientifico e metafisico. Nel primo incontra la biologia che, nonostante lo statuto scientifico che contrae all’oggettività, evidenzia la chimerica impresa di una descrizione positiva della vita. L’altro versante, che rimane perlopiù onnipresente, è quello che sfocia invece in una metafisica della vita. Foucault, tuttavia, non chiarisce il rapporto tra questi due versanti, vuoi perché non utile alla sua indagine o perché già arrischiato dalla stessa. Così, allo scopo di ampliare il quadro di ciò che è stata chiamata ontologia “selvaggia”, Tarizzo interviene ancorando il paradigma metafisico e biologico rispetto ai versanti di autonomia della volontà e della vita e assevera: “La soglia metafisica della modernità è l’autonomia (p. XVIII)”. Questi campi versanti, a dispetto di quanto avviene nella contemporaneità, nell’individuo moderno non appaiono come divisi tra loro, con la sicurezza di cadere da una parte o l’altra del declivio, ma si espongono integrandosi a vicenda. Per cui: per Foucault la vita è un concetto ineffabile che funziona semplicemente da indice epistemologico, un “quadro di riferimento”, privo di afferenze con la realtà, utile per scandagliare, delimitare e quindi orientare i confini di certi discorsi. Così l’intento di questo libro è “completare o almeno ampliare il quadro, da lui parzialmente abbozzato, dell’ontologia selvaggia [ibidem].
Nel primo capitolo del libro, Tarizzo, orbitando attorno al concetto di volontà per ricercarne una definizione, conduce una ricognizione filosofica dai principali esponenti del pensiero antico fino a quello cristiano. Ricerca il cui esito è perentorio: non vi è traccia di alcun riferimento alla volontà. Prima di vederla affiorare bisogna attendere Agostino d’Ippona – che per Hannah Arendt costituisce il primo filosofo della volontà – che fa della volontà, insinuata come volutas, ciò che singolarizza un individuo nel proprio principium individuationis. Tale principio misura la forza della volontà in una scala verticale la cui sommità è rappresentata da Dio, cui più si avvicina e più si consolida la volontà, e la base dall’animalità, che costituisce il massimo degrado dell’individualità. Ma il primo vero pensatore che lega la volontà al fattore dell’autonomia introducendo l’autonomia della volontà o volontà autonoma come “fatto della modernità (p. 7)” è Kant, che disgiunge ogni legame dal teleologico e patologico, o dalla volontà eteronoma. Si deve ancora a Kant la consacrazione del principio di autonomia a imperativo categorico per l’individuo e ciò conduce a tre esiti fondamentali per questo discorso sulla vita. In primo luogo il volere non è sostanza ma forma astratta, che fornisce una direzione ma che non possiede alcun nesso con l’oggetto. Il secondo esito è la volontà come fatto del Sé, come ciò che solo deve essere e dare ragione al Sé. Terzo e ultimo esito, conclusione e conseguenza dei primi due, è l’emergere stesso del concetto di autonomia come soglia metafisica della modernità. Seguendo a ruota la Weltanschauung kantiana, la volontà, come il noumeno e imperativo kantiano, è il principio del pensare senza forma, scisso da qualsiasi contenuto – costituito bensì dalla ragione. L’autonomia è allora una clausola che si conserva senza riserve nel pensiero, è la libertà scissa dalla Wirklichkeit. Ma come dare contenuto a questo imperativo? Come può l’individuo affacciarsi, ricongiungersi, ed essere quindi sincero, nei riguardi del proprio Sé? Attraverso la Storia che aggiudica la libertà a chi supera i contrasti nel contendersi il diritto al lavoro e alla vita. Seguendo però la lettura hegeliana di Alexandre Kojève, la lotta per il diritto al lavoro nella modernità non può aver luogo quando la Storia si è già realizzata. Non resta che seguire la vita o forza-di-vita – da Darwin questi due concetti vengono scissi –, che traccia e indica sola il percorso all’individuo per ricongiungersi con la propria umanità – per Kant l’individuo desidera Sé, è spinto a Sé, vuole Sé –, non in una contesa che guarda i motivi del passato o ferma al presente ma che volge lo sguardo verso un futuro da organizzare e redigere. L’uomo non può sempre mentire a Sé, pena l’annichilimento. Deve essere, prendendo in prestito la metafora foucaultiana, come un “cambiamonete” che, scrutando minuziosamente in se stesso, traccia le condizioni della menzogna cercando di comporre la possibilità della propria verità.
La vita possiede tre proprietà essenziali: “La vita è individuazione di sé […]. La vita è lotta per la vita […]. La vita è volontà di salute [pp. 37-38]”. La percezione stereoscopica del soggetto è garantita dalla forza-di-vita come incessante svisceramento e qualificazione del Sé. Fin qui però il problema permane: qual è il medium tra la vita o forza-di-vita così concepita e la Wirklichkeit? Fichte fornisce una risposta in un principio: “L’Io è il primo principio di ogni movimento, di ogni vita, di ogni atto, di ogni evento”, vale a dire: “Il mondo deve diventare, per me, ciò che per me è il mio corpo. Ora, questa meta è certo irraggiungibile, ma io devo sempre avvicinarmi a essa, devo quindi nel mondo sensibile fare tutto ciò che possa costituire un mezzo per raggiungere questo fine ultimo [pp. 53-58]”. Sarà però Schelling che, ricalcando le argomentazioni kantiane e fichtiane, compirà un passo breve rispetto i due precedenti autori, ma nodale per la modernità: definisce essere “vivente” solo l’individuo che si “proclama” – termine che assume una posizione rilevante per la totale avocazione del Sé – come estremo principio di autorità nel confronto con la natura (o vita) universale. Ripercorrendo le tappe del libro, fino a questo punto la vita è il calco della volontà che contrasta e spinge a determinare la realtà esistente. Non solo sul piano filosofico però, ma anche sul piano scientifico-biologico: con John T. Needham e con toni diversi si rivelano conferme alla tesi per cui una particolare forza organica opera contro ogni resistenza inorganica. Ciò conduce dritti al bivio del sentiero del dibattito sull’”evoluzione” che apre a due possibilità. Una di queste porta all’ipotesi preformista secondo cui il seme contiene potenzialmente in nuce ciò che verrà sviluppato nel corso dell’evoluzione. L’altra strada invece è quella dell’ipotesi epigenetica, che esclude una necessaria finalità nel corso dell’evoluzione. Seguendo questa strada però, alla fine del sentiero si incontra Xavier Bichat che insiste sulla variabilità e imprevedibilità delle funzioni organiche della vita che fanno fronte a quelle inorganiche della morte. A questo punto del discorso, torna a pagina 93 scalpitante la domanda fondamentale di cui è oggetto il libro: che cos’è la vita? Questa volta è il celebre Charles Darwin a fornire una risposta che pone accanto alla vita la salus vitae come infinito consolidamento della vita nella sua espansione e lo fa sulla scia dell’idealismo di Schelling e sulla teoria di Carl Gustav Carus sulla perpetua manifestazione di una realtà ideale – nonostante, da un lato, non sia possibile tracciare un legame diretto tra Schelling e Darwin e, dall’altro, Darwin riprende ben poco dai testi di Carus o altri naturalisti a parte ripeterne lo stesso gesto di emanazione della volontà nella vita. La teoria darwiniana sull’evoluzione si mostra in tre motivi fondamentali – ma senza esaurirsi in questi. La vita ascrive una variazione imprevedibile rispetto alle forme-di-vita (variazione). Assodato che Darwin non adotta il finalismo, sopravvive l’essere vivente che meglio si adatta all’ambiente (ambiente-selezione). Per ultimo, l’essere vivente non si preserva semplicemente nell’ambiente ma “migliora” (salus vitae). Da queste tre tesi vengono portate alla luce e analizzate alcune problematiche: per citare qualche esempio, qual è l’origine della società? Come si giustifica l’altruismo? A cosa (o chi) si indirizza la selezione naturale? Questioni di etica come la “libertà umana”, cos’è la salute? Freud, Dawkins, Dennet, Canguilhem, tutti presenti per cercare di far luce su queste equivocabili questioni. Tarizzo intreccia persino, ed efficacemente, le analisi darwiniane con le intuizioni di Freud in particolare sul Todestrieb, la “pulsione di morte”. Cos’è la vita? La vita è il valore della salute: una forza normativa che possiede ogni essere che vivente non lo è mai fino in fondo e pienamente, che spinge all’individuazione e alla liberazione dalle catene di ogni vincolo esterno.
Nel terzo e ultimo capitolo Tarizzo passa in rassegna e confronta ciò che è stato affrontato in precedenza a temi di carattere perlopiù politico (e ciò permette di aggiungere nuovi dati all’analisi sul tema della vita). Così un’altra questione affrontata è il rapporto tra Darwin e Hitler: quanto il nazismo si è ispirato a Darwin e al darwinismo in generale? L’influenza è stata tale da rendersi, il darwinismo, una condizione “necessaria” per il nazismo. Inoltre, fa appello la biopolitica con una breve genealogia delle prospettive offerte da Roberto Esposito – per il quale questo tema si sviluppa a partire dal pensiero moderno con Hobbes – e Giorgio Agamben – che rintraccia già nel diritto romano l’esistenza di tale categoria politica. Ancora, si parla del biologismo di Martin Heidegger che dietro le spalle nasconde in realtà un nichilismo con la molteplice prospettiva dei valori umani. Infine, Non poteva mancare la problematica sul razzismo che si pone come una conseguenza inevitabile delle analisi. La natura umana è ormai dileguata e ciò che ne resta è solo la vita: questo è il risultato di tutte le analisi del libro. L’uomo è vita: infinitamente variabile, perfettibile e vitale. Chi siamo, dunque, “noi”? Questa domanda, che è la domanda politica per antonomasia, non ha più senso oggi, nel regno dell’autonomia. L’unica domanda che abbia senso è la stessa, declinata però al futuro, non più al presente. Chi saremo “noi”? Come si definire l’uomo al futuro? Tre sono le sole soluzioni per risolvere l’impasse: ritorno alle vecchie religioni, riqualificazione delle fondamenta della bloßes Leben, decidere di rimanere all’interno dello spazio della modernità attuando gli strumenti di ciò che l’autore definisce “meta-critica” nei confronti del Sé: con la coscienza di essere un “eterno frammento”.

Indice

Introduzione. L’ontologia selvaggia
1. Modernità: la soglia dell’autonomia
2. Vita: genesi di un paradigma metafisico
3. Noi: sull’utilità e il danno della vita per la storia
Bibliografia
Indice dei nomi


L'autore

Davide Tarizzo insegna Filosofia morale presso l’Università di Salerno e Filosofia politica presso l’Università L’Orientale di Napoli, oltre a collaborare con l’Istituto Italiano di Scienze Umane (SUM). Ha curato l’edizione in lingua italiana di testi di Gilles Deleuze, Ernesto Laclau, Jean-Luc Nancy, Stanley Cavell, Hannah Arendt e Alain Badiou. Tra i suoi saggi più recenti, Homo insipiens. La filosofia e la sfida dell’idiozia (Milano 2004). Per Laterza ha pubblicato Giochi di potere. Sulla paranoia politica (2007) e Introduzione a Lacan (2009²).

Link

“Come Darwin ha cambiato la filosofia?” è il titolo di un interessante articolo scritto da Tarizzo che è possibile reperire in Internet al link:
http://www.scienzaefilosofia.it/res/site70201/res507999_15-TARIZZO.pdf

giovedì 8 aprile 2010

Botturi, Francesco, La generazione del bene. Gratuità ed esperienza morale.

Vita & Pensiero, Milano, 2009, pp. 396, € 25,00, ISBN 9788834319048

Recensione di Antonio Allegra – 08/04/2010

Filosofia morale, Filosofia teoretica (fenomenologia, ermeneutica)

Il libro di Francesco Botturi è un contributo importante alla discussione etica contemporanea, ma è anche un ambizioso tentativo di una complessiva visione antropologica. Questo strategico legame tra antropologia e morale discende forse soprattutto da un’opzione antiformalista: l’impronunciabilità contemporanea dei termini dell’antropologia tende a comportare, in effetti, il rifugio nell’astrattezza, particolarmente esiziale per il discorso morale. Si tratta, al contrario, di recuperare un coraggioso ponte tra la dimensione antropologica e quella morale, rispetto ad una scissione che rimonta alle fonti della modernità. Proprio una visione integrale e non riduttiva dell’umano e del morale in esso mi sembra l’intenzione fondamentale dell’autore, di contro ai restringimenti del momento etico a dimensioni vuoi consequenzialiste vuoi deontologiche, solo per menzionare due tra le grandi alternative sul campo. Il discorso di Botturi tende, di conseguenza, ad articolarsi in maniera estremamente ricca. Non a caso, in modo non scontato, si parte dalla rivendicazione della ricchezza non formalistica dello stesso giudizio, prima ancora dell’apertura tematica più direttamente antropologica offerta dalle analisi condotte su ambiti quali desiderio, libertà, riconoscimento. Per così dire l’intreccio di pathos, logos, ethos (cfr. p. 210) è una delle chiavi propriamente teoretiche del libro.
La dimensione antropologica è strategicamente premessa alla elaborazione morale. Vediamone le articolazioni seguendo la scansione tematica del volume.
1. Come si accennava, il giudizio va colto nella sua ricchezza non riducibile alla dimensione procedurale. Esso, per Botturi, dipende dalla possibilità di fare esperienza in senso proprio, non come mero accumulo di eventi: l’esperienza e la ratio della stessa sono fattori intrinsecamente collegati. Il vissuto significativo ed unificato è pensato all’interno della soggettività, senza che ciò implichi una disponibilità totale dei contenuti del vissuto stesso. Il postulato di tale pur imperfetta adeguazione è il rapporto originario di ragione e realtà (p. 67: si tratta di una consonanza ontologica o trascendentale). Pensiero ed esperienza condividono le fondamentali premesse dell’unità del senso e dell’identità del soggetto; ciò implica la possibilità di una riconciliazione antropologica. Ma tali premesse di senso non valgono in senso ontico e “totale” bensì ontologico e “totalizzante”. L’esperienza umana è compenetrata dal logos, ma senza che venga negata la cifra antropologica della limitatezza entitativa (p. 41). Tali primi risultati vengono corroborati da un confronto con l’ermeneutica, all’insegna della coappartenenza di mente e vero ovvero della connessione di spirito e mondo (che appare necessaria anche da un punto di vista schiettamente epistemologico).
La trascendentalità del desiderio è una seconda e significativa tappa. Botturi conduce qui un confronto con la tecnica, la quale rende plastica la natura in vista del progetto: in questo senso c’è empatia nei confronti della tecnica come espressione determinata del desiderio assoluto. Questa è un’indicazione decisiva per lo statuto appunto del desiderio: esso funziona nella sproporzione, simile a quella del giudizio, tra i desiderati e il Desiderare. D’altra parte, l’assoluto o trascendenza pura resterebbero vuoti (p. 99): ad avviso dell’autore non si aspira al Bene come tale, se non altro perché non lo si saprebbe rappresentare, ma alla progressiva conciliazione o totalizzazione tra specificazioni e condizioni dell’esistenza e l’illimitato (p. 100). Come già intravisto in relazione al giudizio, vi è dunque un continuo rimando tra “categoria” e “trascendenza”; confermato d’altra parte dal carattere “eccentrico” del desiderio: che, anche spinozianamente, non è rimedio ad una mancanza empirica ma affermazione dell’intero dell’esistenza. Esso è dunque di principio insoddisfacibile entro l’oggettività dell’esistenza, esattamente come il giudizio resta provvisorio.
Un primo risultato: occorre resistere alla tendenza a risolvere il desiderio o il giudizio (o il soggetto) entro le loro forme o maschere parziali (pp. 108, 110). Ciò può aprirsi, in ultima analisi, ad una fondazione trascendentale forte: bisogna però prendere posizione sulla natura del desiderio, sulla sua non equabilità al semplice bisogno. L’infinitezza del desiderio esprime la sua verità oppure va ridotta nei termini dell’allucinazione ideologica? Occorre, per così dire, prendere posizione sul ruolo dell’alienazione, sulla sua insuperabilità o meno (pp. 115-116). È chiaro che qui vi è un’opzione teoretica di fondo, riassumibile, forse in maniera troppo schematica ma chiara, nell’alternativa tra naturalismo e trascendentalismo.
A questo punto del percorso, giudizio e desiderio sono, per così dire, speculari. Botturi muove dalla crucialità di entrambi, nel senso della possibilità ontologica del giudizio come originaria dell’epistemologia; e della radice anch’essa ontologica, non empirica, del desiderio, dunque la sua ulteriorità rispetto al soddisfacimento.
Un secondo blocco significativo si apre nell’analisi della libertà, grazie ad un confronto con la riflessione moderna (posthobbesiana) sul tema, sia nel senso dell’analisi, altamente problematica in quest’ambito, della possibilità del libero arbitrio, sia in quello della problematizzazione del presupposto individualistico (p. 156). Ancora una volta viene compiuta una mossa ontologica in favore della radicalità della libertà quale causa sui, della sua singolarità (interessante qui una certa tensione individuata nella classica posizione di Leibniz, p. 128). Dunque, per l’essenza della libertà l’automotivazione è più fondamentale della vera e propria decisione rispetto alla pluralità di opzioni offerte (p. 141). Antropologicamente il fatto della libertà è reso possibile proprio dalla disequazione, dal trascendimento che il soggetto compie rispetto al suo contesto (p. 139), il che rende possibile considerare il limite inevitabilmente presente al libero arbitrio come occasione ontologica piuttosto che come mero ostacolo (il che non significa che non lo sia, ma ne esprime una valenza più profonda, p. 146).
Assai importanti mi sembrano anche le considerazioni rivolte alla soggettività, che si collocano in implicita ma piuttosto chiara contraddizione con molti temi diffusi nella contemporaneità. Per Botturi il riconoscimento non è costitutivo della soggettività ma del suo, per così dire, esercizio storico; ossia non dell’essere del soggetto bensì del suo esistere quale persona. Ciò non sminuisce certo la sua rilevanza: basti osservare che la vera e propria generazione umana stessa va ricondotta al riconoscimento del figlio e non alla sua, pur premessa, nascita biologica (pp. 173 e 208). E tuttavia la soggettività, ancora una volta, non è pienamente risolvibile nella dimensione relazionale coinvolta in essa (p. 170). L’identità è sia il dato originario, necessariamente premesso, che il processo che lo porta alla luce (pp. 208 e 233). L’esperienza del pudore (inteso ovviamente con maggiore profondità rispetto al senso riduttivo standard) manifesta questo iato tra lo svelamento possibile e la vera e propria alterità, il residuo intimo del sé (p. 234). Si tratta in ultima analisi di distinguere tra il soggetto e la sua attuazione: grazie a ciò si evita la paradossale alternativa, che come un pendolo caratterizza la modernità, tra la divinizzazione del soggetto (dovuta all’assolutizzazione dell’Io) e la sua dissoluzione empirica (legata alla sua riduzione ai fenomeni).
Infine anche corpo (ed affetti) sono dimensioni a loro volta mai pienamente trasparenti e narrativizzabili (p. 204). Occorre però rivendicare il tentativo di fare esperienza della corporeità, di darne conto, in contrasto con l’andamento moderno e postmoderno dal passionale al sentimentale all’emozionale, che fa infine dell’affettività un residuo incomprensibile (p. 212). Al contrario, un vero rapporto tra ragione e passione implica una certa comunanza “logica” tra esse (p. 216). Allo stesso modo anche la spontaneità ha valore nella dimensione del lavoro compiuto su di essa, come il logos agisce sull’irrazionale (p. 224); anche l’amore è ancora una volta in certo modo un’operazione, interminabile ed incompiuta, del giudizio (p. 233): esso sopporta la non reciprocità, e in questo senso non appartiene essenzialmente alla sfera del sentimento (p. 236). Qui mi pare che Botturi mostri un aspetto importante della sua riflessione. Non si tratta solo dell’operazione attesa: mostrare le radici antropologiche della moralità o del giudizio; ma di compiere anche l’operazione inversa, che sola può spiegare teoreticamente la dimensione ontologica: ovvero mostrare la parziale permeabilità del lato corporeo-affettivo, del lato “pesantemente” antropologico, da parte del logos. Si tratta a ben vedere di un obiettivo straordinariamente arduo all’interno della linea fondamentale del pensiero moderno e contemporaneo.
Lasciando momentaneamente da parte questo aspetto, che subito però ritroveremo nella sua crucialità, resta confermato che libertà, riconoscimento, soggettività, corporeità, sono in rapporto (ossia: non sono estranee, né sono congruenti) con le forme variabili della loro esperienza. La dialettica tra oggettivazione ed inoggettivabile si conferma il filo conduttore teoretico dell’antropologia di Botturi.
2. Compiuto questo percorso la seconda parte del libro percorre il sentiero di un naturalismo etico non oggettivistico, in cui tutto si gioca sul senso da dare a natura.
Dal punto di vista della teoria morale, se l’azione è essenzialmente rivelazione del sé, come viene osservato sulla scorta di Hannah Arendt, l’etica è lo spazio della realizzazione del sé, della propria vita buona: l’azione è ciò che qualifica l’ethos (p. 255). Detto diversamente, vi è un nesso tra azione e totalità soggettiva: l’azione è un “fattore” di totalizzazione del senso (p. 258). Ogni azione in questo senso ha uno spessore morale (p. 259). L’alternativa (dominante) a questa prospettiva classica, è costituita dai vari modi delle etiche metasoggettive, incentrate sull’adesione al cosmo o natura, allo stato, al calcolo delle conseguenze, alla forma categorica, etc. (p. 274). Ora, la riproposta di un’etica della vita buona si incentra sulla visione antropologica sopra delineata. Solo se si afferma la visione disgiunta di affettività e logicità (l’estraneazione del cognitivo dallo spazio di base del legame antropologico, che come abbiamo visto è l’obiettivo critico di Botturi) l’impegno etico-politico può consistere meramente nella costruzione di uno spazio agibile per soggetti ontologicamente asociali e alogici (p. 278): in questo modo diviene impossibile una vera formazione umanizzante. A ciò viene contrapposta la visione teleologica di un Tommaso (cfr. ad es. p. 297), ove il bene è l’affermazione (autentica) di sé.
In qualche modo di tratta di proporre, come si diceva, un’etica naturalistica: ma il concetto di natura non va inteso in senso statico; esso può essere solo metastorico, non astorico. La physis è sviluppo, ovvero natura come principio genetico-dinamico (pp. 310, 328). Al tempo stesso vale anche il richiamo ad una permanenza nella propria natura per rendere ragione del mutamento che avviene a uno stesso; come il soggetto che, come abbiamo visto, non si identifica con le sue operazioni, che pure lo rivelano (pp. 311-312). La “natura” così intesa non si presta ad una oggettivazione, non è esauribile a sua volta. La prospettiva qui in gioco mi pare quella di una entelechia inesauribile, che si accompagna ad una forte naturalizzazione del bene nel senso della sua teleologicità, come bene dell’essere che si afferma in quanto organismo (p. 314): permanenza ed attività sono la vita, dunque essere e bene. Dopo di che, accanto alla natura, in una delle più classiche dicotomie dell’Occidente sta la cultura: anche in essa è in gioco l’universale umano espresso nelle oggettivazioni della verità o dell’essere; trascurare questo lato produce necessariamente una versione relativistica dell’ermeneutica (p. 345).
Le osservazioni sulla legge morale in senso più stretto sono, infine, molto congruenti con le prospettive complessive finora evidenziate. L’interazione tra cognitivo ed appetitivo viene, così, ritrovata in classici come Aristotele o Tommaso (p. 358), che si rivelano ispiratori fondamentali di Botturi, in maniera tanto più significativa in quanto non si tratta propriamente di un libro di esegesi nei confronti di questi autori. Al tempo stesso emerge un contrasto, non del tutto sorprendente ma neanche scontato, con l’oggettivismo naturalistico di Philippa Foot (p. 368): la natura deve prima venire osservata alla luce della virtù propriamente umana, dunque dalla ragione, che è poi la natura umana stessa (p. 380: qui vengono richiamati Rhonheimer o Finance). Come già si diceva, occorre una concezione dinamica e non statica di natura. Per dirlo in una formula, la ragione trasforma il naturale in assiologico (p. 386); solo così si dà legge naturale. In questo senso la ragione individua i beni che attivano la soggettività.
3. In sede di bilancio desidero partire proprio da quest’ultimo punto, particolarmente importante perché la questione di un’etica naturalistica è tanto rilevante quanto controversa. Anche senza intraprendere, come non pochi aristotelici o neotomisti hanno fatto, un percorso critico nei confronti della cosiddetta legge di Hume e delle sue conseguenze, probabilmente alcune delle critiche abituali alla prospettiva di un’etica naturalistica possono venire abolite se si ammette l’accezione di natura che propone Botturi. Un senso non ingenuo di natura è opportuno: qui non si tratta affatto di un mero prendere atto del “naturale”, se non altro perché dal punto di vista dell’accertamento empirico è “naturale” anche il patologico (detto meglio: l’accertamento puramente empirico non è in grado, in quanto tale, di discriminare tra patologia e normalità), bensì di determinare il naturale nel senso finalistico e della fioritura che esso consente; operazione che non può non partire da una serie di premesse teoretiche assolutamente cruciali. In questa luce, tuttavia, si può anche affermare che il problema è solo spostato: solo se si ammette in generale una nozione di natura e la sua normatività sarà possibile riconoscerne la valenza ai fini del discorso morale. In una parola, tanto la prospettiva di un’etica naturalistica che la sua negazione partono da premesse teoretiche radicali ed incommensurabili; ciò non vuol dire che non sia possibile mostrare la plausibilità del naturalismo raffinato di fronte alle critiche più semplicistiche.
Una maniera diversa di esprimere la stessa intuizione è: riconoscere un ordine latamente teleologico è operazione schiettamente teoretica che rende possibile la vita morale. L’intreccio di logos ed ethos si rivela da questo punto di vista una manovra straordinariamente fruttuosa in termini di possibilità di indicazioni.
In questa stessa prospettiva, ma, mi pare, ad un livello ancora ulteriore di profondità, si colloca l’intravista possibilità di una fondazione metafisica dell’etica a partire dal bisogno d’essere (l’amore, principio d’azione, è coessenziale all’essere). L’essere, nella prospettiva latamente aristotelica di Botturi, come abbiamo già visto implica sempre fine, compimento proprio, dunque bene. La logica del desiderio va valorizzata in ciò che contiene in quanto tensione al bene-beatitudine, ovvero l’autentico amore di sé.
E infine, e ancora più in generale, emerge la costante e puntuale, pur se non sempre esplicita, insistenza sulla semplice irriducibilità dell’uomo alle sue operazioni attuali; così come irriducibilità del Bene ai beni. E tuttavia, Botturi crede che si possa parlare, sotto determinate condizioni, di un desiderio colmato pur se non esaurito, analogamente a come l’amore per qualcuno persiste pur nel suo compimento. Il punto è doppiamente rilevante: da un lato, il desiderio può proporsi la propria compiutezza di contro a Schwärmerein neoromantiche; dall’altro, se il desiderio definisce l’uomo nella sua inoggettivabilità, sembrerebbe aporetico porne un vero e proprio esaurimento.
In conclusione, il volume esprime, con meditato approfondimento e copiosa articolazione, un momento importante della riflessione etica del suo autore e più in generale all’interno del panorama del pensiero italiano contemporaneo,. Le posizioni di Botturi assumono un ruolo di punto di riferimento per coloro che approvano, in linea preliminare, l’esigenza di una fondazione antropologica dell’etica. Tale fondazione sembra indispensabile al sottoscritto, per numerosi e convergenti motivi che non è possibile riassumere in questa occasione; in ogni caso la lettura del libro del filosofo milanese consente di apprezzare a pieno la fruttuosità e le buone ragioni di questo approccio.

Indice

Prefazione
PARTE PRIMA
Pensiero e unità dell’esperienza. Introduzione
Giudizio ed esperienza
Verità ermeneutica
Desiderio trascendentale
L’organismo dialettico della libertà
Identità e riconoscimento
Il corpo degli affetti
PARTE SECONDA
La prospettiva della morale
Bene e appetizione in Tommaso d’Aquino
Natura e cultura
Legge morale fondamentale
Indice dei nomi


L'autrice

Francesco Botturi è ordinario di Filosofia morale presso l’Università Cattolica di Milano; si è occupato di antropologia e di filosofia della storia. Ha scritto tra l’altro: Struttura e soggettività. Saggio su Bachelard e Althusser, Milano 1976; Desiderio e verità. Per un’antropologia cristiana nell’epoca della secolarizzazione, Milano 1986; Per una filosofia dell’esperienza storica, Milano 1987; La sapienza della storia. G.B. Vico e la filosofia pratica, Milano 1991.

lunedì 5 aprile 2010

Sisto, Davide, Lo specchio e il talismano. Schelling e la malinconia della natura.

Milano, Edizioni AlboVersorio, 2009, pp. 216, € 20,00, ISBN 9788889130735.

Recensione di Tiziana Gabrielli - 05/04/2010

Storia della filosofia (idealismo tedesco), Filosofia teoretica (ontologia, metafisica), Filosofia morale (filosofia della religione, antropologia filosofica)

Giampiero Moretti, nella prefazione al volume di Davide Sisto, rileva che la cifra elettiva del contributo del giovane studioso vada individuata nel “gioco serissimo” tra lucidità, coraggio e ossessione che attraversa e orienta l’intero percorso di ricerca. Sisto, infatti, propone, per la prima volta in lingua italiana, un’accurata e stimolante riflessione intorno ad uno dei temi centrali, se non addirittura il tema, del pensiero di Schelling: la malinconia, intesa come “chiave per accedere alle profondità dell’anima come legame tra natura e spirito” (p. 15). Moretti, inoltre, osserva che “la malinconia si presenta non come una Stimmung soggettiva (...), ma come lo spazio-tempo ontologico in cui il soggetto umano si rovescia nella natura, e, in tal modo, in Dio” (p. 16).
La ricerca di Sisto ha il merito di ripensare le declinazioni del rapporto tra malinconia e natura nelle opere schellinghiane del cosiddetto “periodo intermedio”: dalle Philosophische Untersuchungen über das Wesen der menschlichen Freiheit (1809), alle due versioni delle Stuttgarter Privatvorlesungen (1810), al dialogo Clara oder über den Zusammenhang der Natur mit der Geisterwelt (1810-11), all’Über das Wesen deutscher Wissenschaft (1811) e alle tre incompiute edizioni dei Weltalter (1811-1815), compresa l’appendice sulle Gottheiten von Samothrake (1815).
Consapevole dell’attualità del tema in questione, Sisto non elude né trascura la pregnanza del concetto di malinconia in campo mitologico, artistico e psicopatologico, in modo da far emergere “l’importanza inoppugnabile che la notte, l’inconscio e il ctonico assumono nel pensiero di Schelling, senza per questo condurre il filosofo tedesco verso gli sconvenienti lidi di un cieco e visionario irrazionalismo” (p. 24).
Nel saggio viene riservata una particolare attenzione al dialogo incompiuto Clara, la cui rilevanza speculativa è stata, a torto e in modo ingiustificato, spesso sottovalutata o addirittura ignorata dalla Schelling-Forschung.
Il passaggio dal “manifesto e dal tangibile all’iconico e all’allegorico”, topos distintivo della transizione dall’Identitätssystem alla filosofia intermedia di Schelling, consente di cogliere, secondo Sisto, il senso del “legame ontologico tra natura e malinconia” (p. 39). Con il trasferimento di Schelling a Monaco di Baviera, infatti, le placide atmosfere dell’epoca jenese, nella quale il panteismo naturalistico goethiano culmina nella Ineinsbildung creativa del nisus formativus, e nella Einbildung “dell’idealità infinita del reale” (p. 37), lasciano il posto ad una Weltsicht tragica che reinterpreta la natura nel quadro di un’ermeneutica cristiana del mito, tipica della Weltanschauung romantica.
Uno dei limiti della Forschung schellinghiana, secondo Sisto, è quello di non essere riuscita, finora, a riconoscere “il significato cosmoteandrico che permea la dottrina del peccato originale negli scritti intermedi”, e quindi che la teoria del Sündefall non va interpretata soltanto come “porta d’ingresso” alla Geschichtsphilosophie, ma anche e soprattutto, per dirla con Fuhrmans, come “chiave e accesso alle potenze demoniache della terra” (p. 50). Se non si accoglie questa linea ermeneutica, avverte Sisto, “si rischia di fraintendere le riflessioni schellinghiane sulla natura e di spezzare il vincolo simbolico che lega il reale all’ideale”, cadendo quindi nel pregiudizio storiografico che tende a “incastonare schematicamente il sistema speculativo di Schelling tra il soggettivismo fichtiano e il razionalismo metafisico hegeliano” (ibidem).
Fin dagli scritti giovanili e nella prima Naturphilosophie l’unità di natura e spirito non si configura né come una “connessione estrinseca” (Zusammenhang), né come una pura “identità” (Identität), bensì come un “legame” (Band), un’unità organica, vivente e reale, tra (zwischen) natura e spirito (cfr. p. 62). Se nei primi scritti di Schelling il Band mette in luce la “funzione mediatrice dell’Anima del mondo, così come veniva tratteggiata dal Timeo platonico” (pp. 62-63), nelle opere intermedie esso, rappresentando un’unità che “non teme la contraddizione, ma addirittura la produce”, costituisce piuttosto - sottolinea Frank - una sorta di “‘identità reduplicata’ (...) che nella sua simbolica invisibilità visibile lega (in)dissolubilmente natura e spirito” (p. 64). L’unico medium tra i due principi opposti è l’amore, come emerge dalla Freiheitsschrift e dalle Stuttgarter Privatvorlesungen (ibidem).
Nello studio di Sisto la dottrina simbolica del Band è propedeutica all’indagine sul ruolo della morte e del peccato (Sünde) nell’escatologia schellinghiana, fondata sulla nozione ossimorica di “corpo spirituale” (geistlicher Leib), fulcro teoretico anche nelle tarde lezioni della Philosophie der Offenbarung, e “sulla teoria - apparentemente inusuale - della Geisterwelt”. La riflessione sul significato della morte contribuisce poi a chiarire anche la “dialettica di Grund ed Existenz così come si sviluppa nella fase premondana di Dio” (p. 65).
In questo contesto Sisto rivendica, contro ogni “obnubilamento” del fenomeno tanatologico, di matrice razionalistica, l’”esemplarità” e il “valore pedagogico” (ibidem) della morte negli scritti intermedi di Schelling: “Ora, (...) ci ritroviamo ad analizzare l’altra parte della teoria tanatologico-escatologica, quella in cui la morte, da elemento disgregante, diviene il punto di massima libertà e vita per le creature di questo mondo” (p. 84). Ben si adatta, quindi, all’escatologia dello Schelling intermedio il principio romantico dell’”antropocosmomorfismo” (termine coniato da Gusdorf), perché, secondo Griffero, “conforme alla missione insieme ermeneutica e redentrice dell’uomo nei confronti della natura” (p. 86). “Forza spietata” (unbarmherzige Gewalt) è la morte, ma anche “trionfale”, perché “ci apre più profondamente gli occhi” - scrive Schelling a Georgii nel 1811 - “su quell’unità di naturale e divino”, che, dopo l’Incarnazione, risulta essere “il punto più alto dell’intero Cristianesimo” (ibidem).
Sulla scia di Novalis che, nei Fragmente und Studien 1799-1800, afferma: “La morte è – la vita +. Attraverso la morte si rafforza la vita” (p. 202, n. 203), anche Schelling, in Clara, intende la morte come “il passaggio positivo a uno stato spirituale”; “la liberazione della forma interiore della vita dalla forma esteriore che l’opprime”, per cui la volontà di Dio si compirà quando l’uomo disporrà di “un’unica vita indistruttibile”, nella quale “l’interiore avrà interamente penetrato l’esteriore e l’esteriore sarà completamente trasfigurato in interiore” (p. 89); e il fine della natura, a sua volta, si realizzerà pienamente, “nel momento in cui essa verrà completamente trasfigurata, di modo che, sopraggiunta l’armonia tra l’esterno e l’interno e attuatasi la subordinazione del fisico allo spirituale, il corpo finalmente assumerà la natura di un corpo spirituale e lo specchio tornerà a essere fulgido” (pp. 89-90).
Nella nozione schellinghiana di Geistleiblichkeit è palese l’influenza sia dell’escatologia paolina della Prima Lettera ai Corinzi, sia della tradizione mistico-teosofica di Böhme e Oetinger.
In Clara, infatti, il carattere palingenetico della morte, da un lato, viene “paragonato alla solubilità dei metalli negli acidi” e, dall’altro lato, “equiparato al perdurare del profumo dei fiori”, tanto che Clara si chiede quale sia ‘la spiritualità degli effluvii dei corpi profumati che durano per anni senza svanire’” (p. 95).
L’ascendenza teosofico-cabbalistica di Oetinger, in particolare, si manifesta con chiarezza nella versione inedita delle Stuttgarter Privatvorlesungen, in cui il fenomeno tanatologico viene definito con il concetto di “essentificazione” (Essentification), attraverso il famoso “Melissenexperiment”, ripreso nei Weltalter e nella tarda Philosophie der Offenbarung: “Il processo che ha luogo nella morte è simile a quello per cui nella natura si estrae da una pianta la sua essenza, per esempio dalla melissa lo spirito della melissa. La morte perciò non è separazione, ma essentificazione dei principi” (ibidem). Scindendo quindi l’essere dall’essenza, la morte rivela che lo scopo ultimo della creazione è, secondo Schelling, che “ogni cosa abbia una figura e riceva una forma corporea visibile” (p. 96), poiché il corpo, quando è penetrato dall’anima (Seele), “è la pienezza della perfezione” (ibidem).
La compenetrazione tra “l’elemento spirituale del fisico e quello fisico dello spirituale” è “il demonico” (das Dämonische), che indica la “condizione postmortale delle creature” (p. 97). Il demonico è la chiave per entrare nella Geisterwelt (Mondo degli Spiriti), armonicamente speculare alla Naturwelt (Mondo della Natura). La Geisterwelt è “la poesia di Dio”, mentre la natura ne è “l’arte plastica” e la storia umana, nel suo ruolo intermedio, “un dramma visibile” (p. 103). La connessione tra i “due” mondi è, nota Moretti nella prefazione alla traduzione italiana degli Aforismen (1806), “uno degli aspetti meno ‘frequentati’ del pensiero di Schelling” (p. 98). Tuttavia, dal momento che, nel sistema schellinghiano, spirito e anima non coincidono, la Geisterwelt o, meglio, la “vita dopo la morte” - si legge in una lezione del 1830 - “non è in alcun modo da considerarsi come la beata” (p. 108); ed anzi “si traduce in una bramosa Sehnsucht per la natura perduta” (ibidem).
Dopo aver preso in esame il rapporto tra natura e malinconia post peccatum (con opportuni richiami all’Antico Testamento, alla lettera paolina ai Romani, oltre che alla teosofia di Böhme, Oetinger e Saint-Martin), Sisto ripercorre “a ritroso” il cammino che dalla malinconia come “effetto storico” porta alla malinconia come “causa ontologica del peccato originale” (p. 123). Con Vetö si può affermare che la natura schellinghiana, in quanto “un invisibile-visibile”, è “il regno stesso dell’ambiguità” (p. 120), ambiguità che, nel rapporto tra malinconia della natura e peccato, si esplica in modo analogo alla dialettica circolare di causa-effetto che Benjamin, in Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen (1916), applica “nel rapporto post-Abfall tra la tristezza e il silenzio degli esseri naturali” (p. 119). Per un verso, quindi, “la natura è malinconica perché è corrotta”, giacché, a causa di Adamo, “nella cui coscienza “talismanica” aveva rimesso tutte le sue speranze (...), ha smarrito la via della sua definitiva trasfigurazione in spirito (...), regredendo - storicamente - a uno stato anteriore di indigenza”. Per altro verso, però, “è la malinconia della natura che la rende corrotta”, poiché è lo stesso stato anteriore di indigenza e di chiusura in sé - stato che risale tanto all’unità indifferenziata premondana (Ungrund), quanto all’abisso (Grund) da cui originano le creature - , che “la espone - ontologicamente - al costante pericolo della corruzione e al tormento di un ininterrotto e involontario moto regressivo, verso un passato notturno e amorfo mai in toto superato” (p. 120).
La malinconia, come “la forza di gravità interiore dell’animo” (die innere Schwerkraft des Gemüts) (p. 137), è “la nostalgia (Sehnsucht) nella sua manifestazione più profonda” (p. 138). “La Schwermut, in quanto nostalgia (il Grund del Gemüt) che vince l’appetito (il Geist del Gemüt), facendo smarrire all’uomo la via del sentimento (la Seele del Gemüt), è, dunque, la ‘malattia dell’animo’ (...) kat’exochen, l’espressione abissale del Grund dello spirito umano, che sottomette il Geist e la Seele alle esigenze morbose del Gemüt” (pp. 138-139). Se il Geist è “la potenza personale e luminosa” attraverso cui l’uomo può innalzarsi alla Seele “quale massima trasfigurazione in Dio”, il Gemüt, invece, è “il principio oscuro dello spirito”, “l’elemento che impedisce allo spirito di dissociarsi dalla natura” (p. 136).
Lo Schelling intermedio scopre dunque nella malinconia il proprio “pharmakon” esistenziale, inteso nel senso ancipite di “rimedio che guarisce” e “veleno che intorpidisce”, come scrive Derrida a proposito del Fedro di Platone (cfr. pp. 181-182).
Nelle considerazioni finali Sisto ritorna su questa ambivalenza che costituisce, dalla Naturphilosophie alla tarda Philosophie der Mythologie, “il perno teoretico attorno a cui ruota ogni singolo settore della vita umana e naturale, come dimostra l’intreccio ontologico-concettuale tra l’animo, la malinconia e la notte, che si articola sullo sfondo di una concezione - per così dire - eonica della temporalità” (p. 182). Questo intreccio ci permette di comprendere il passaggio dalla “Notte primordiale”, in cui i due principi (bene e male, luce e oscurità) sono “compossibili e cooriginari” (ibidem), alla “Notte d’Oriente”, che “partorisce il giorno e completa il suo processo fecondante con la formazione della coscienza umana” (pp. 182-183), e infine alla “Notte d’Occidente”, in cui, come si legge nei Weltalter, la morte converge con la vita giunta al suo tramonto, e al contempo è, come in Clara, “il primo passo verso la nascita del giorno notturno venturo ed eterno (...), in cui giorno e notte raggiungeranno la loro realtà assoluta e il loro armonioso sodalizio in Dio” (p. 183).
Soltanto in taluni brevi momenti della sua vita - “il primo sonno, l’innamoramento, la notte di luna piena” - l’uomo “è in grado di cogliere quasi in maniera intuitiva il senso ultimo del Band divino (...); lo coglie ‘come un lampo d’eternità che squarcia le tenebre del mondo; nel momento stesso della sua realizzazione, però l’oscurità di nuovo la inghiotte’. E questo, in fondo, è il Leitmotiv (e il destino) della filosofia intermedia di Schelling” (p. 184).
La densità magmatica dell’argomentazione di Sisto, - del resto così evocativa e rivelatrice dei grovigli semantici e teoretici propri, a dire il vero, non soltanto dello Schelling intermedio e della tradizione speculativa a cui egli si richiama in una costante Auseinandersetzung -, meriterebbe tuttavia un respiro ermeneutico più ampio, incisivo e strutturato, tale da prospettare una feconda rivisitazione in chiave ontologica, antropologica e religiosa dei concetti di natura, arte e malinconia e delle loro interrelazioni nel quadro di un efficace ed inedito raccordo delle fasi cruciali del pensiero schellinghiano.

Indice

Elenco delle sigle usate
Ringraziamenti
Prefazione
Introduzione. Natura e peccato
I. La malinconia della natura come effetto storico del peccato originale
II. Verso la trasfigurazione. Morte e Geisterwelt
III. La malinconia della natura come causa ontologica del peccato originale
Conclusioni. Il farmaco e il giorno notturno


L'autore

Davide Sisto (Torino, 1978) è dottore di ricerca in Filosofia presso l’Università degli Studi di Verona e cultore della materia in Filosofia Teoretica presso l’Università degli Studi di Torino. Ha pubblicato diversi articoli su Pareyson, Goethe e Schelling. Nel 2007 e nel 2008 è stato ospite della Schelling-Kommission a Monaco di Baviera.