Recensione di Francescomaria Tedesco – 23/06/2010
Postcolonialismo, Postmodernismo, Occidente, Subalternità
Il libro di Jean-Loup Amselle, antropologo francese di origini ebraiche, ruota attorno alla questione fondamentale della ‘provincializzazione’ dell’Occidente, ovvero all’obiettivo teorico di quell’ormai imponente corpus di ricerche composto dai Subaltern, Cultural e Postcolonial Studies e che ha a che fare, in varia misura, con la decostruzione, il postmodernismo, l’ibridità, il meticciato, la marginalità, il dominio, l’ideologia, la violenza, il testo, l’orientalismo, e una miriade di altre parole-chiave del dibattito culturale degli ultimi decenni.
Provincializzare l’Occidente significherebbe renderlo un posto come gli altri, smontarne la pretesa superiorità, mettere in discussione il paradigma alterizzante che conduce a costruire delle opposizioni binarie (Oriente/Occidente, modernità/arretratezza, civiltà/barbarie, etc.) tutte sbilanciate a favore di una valutazione assiologicamente positiva dell’Occidente come il luogo del progresso e della modernità e, più di recente, dei diritti e della democrazia. E significherebbe anche ‘spacchettarlo’ (per riprendere il titolo di una mostra di cui Amselle ha parlato nel suo L’arte africana contemporanea: Unpacking Europe), sottrarlo alla convinzione che esso sia un blocco monolitico e compatto.
La tesi centrale del libro di Amselle è che questa idea, assieme all’idea di dar voce ai subalterni, di ‘rappresentare’ le istanze dei popoli post-coloniali ‘senza voce’, di cercare un punto di vista alternativo a quello occidentale, di scrivere un’altra storia possibile dei paesi un tempo sottoposti alla dominazione coloniale, si sviluppa pressoché interamente proprio nel contesto dell’Occidente per mano di autori che tutto sommato – come il dandy Raymond Roussel che percorse il Marocco in limousine e con le tendine completamente abbassate – non avevano molto a cuore altro che il punto di vista interno all’Occidente stesso. In altri termini, per Amselle il pensiero postcoloniale non sarebbe altro che il frutto di una sorta di modernità riflessiva tutta interna alla cultura occidentale (in particolare alla cultura francese così come è stata reinterpretata dall’accademia statunitense: la French Theory) e pronto a demolirne gli stessi presupposti sulla scia di Heidegger e di Derrida, ‘decostruendone’ l’impianto metafisico e logocentrico. Non è un caso, sostiene Amselle, che i ricercatori più importanti dei Subaltern Studies siano membri dell’élite bengalese di stanza nelle più prestigiose università occidentali (soprattutto statunitensi) e che le loro ricerche siano in costante dialogo con Hegel, Marx, Nietzsche, Gramsci e il Pantheon della cultura europea.
Non è difficile sentirsi in accordo con Amselle. Anzi, è piuttosto condivisibile l’idea che gli intellettuali europei e le élite postcoloniali si siano arrogati il diritto di parlare a nome degli oppressi, talvolta rendendo loro dei veri e propri omaggi rituali che paradossalmente servivano soltanto a corroborare – con proposte politiche piuttosto modeste a fronte di uno stile roboante e ‘millenaristico’ – la logica culturale del tardo capitalismo. Il risultato è stato spesso il ventriloquio. Insomma, sostiene Amselle, la storia del mondo continua anche nell’epoca del postcolonialismo: le élite colte dei paesi usciti dal dominio coloniale, in accordo con l’accademia occidentale, ci parlano della rivoluzione dalle loro comode aule universitarie di New York o Chicago.
Tuttavia occorre dire che questa critica – pure puntuale e legittima – è ispirata a una sorta di ‘esclusivismo possessivo’, per dirla con Said, per cui solo le donne sarebbero legittimate a parlare per le donne, e solo i neri a parlare per i neri, e così via; inoltre, essa si fonda su un’idea di purezza di grado superiore. In altre parole, se da un lato Amselle critica la tendenza del postcolonialismo all’ipostatizzazione delle culture che esso stesso si era proposto di decostruire, dall’altro egli riammette dalla finestra quell’idea dell’esistenza culture ‘chiuse’ e dai confini ben definiti che intendeva criticare: se solo i ‘subalterni’ parlano a nome dei subalterni, ciò significa che tra essi non ci sono ibridazioni, meticciati, porosità. Del resto è lo stesso Amselle a mettere in luce le contraddizioni dell’indigenismo, che ad esempio nella Bolivia di Morales richiede un costante esercizio auto-etnografico, un’auto-definizione in termini di purezza indigena come lasciapassare per poter partecipare al dibattito politico (su questo e altri temi si vedano le interviste di Amselle segnalate nella sezione link).
In realtà, ciò che con tutti i suoi limiti ha insegnato il pensiero della subalternità (e naturalmente i suoi ascendenti francesi e occidentali) è proprio la costante messa in questione di ogni idée reçue, assegnando all’intellettuale una importante funzione epistemologica. Ed è proprio nell’ambito del postcolonialismo che si sono sviluppate le più importanti critiche verso se stesso. Non è un caso che la messa in questione del tema della ‘rappresentanza dei senza voce’ sia venuta proprio dalla traduttrice in inglese della Grammatologia di Derrida, un’autrice che – tornando al 18 Brumaio – ha criticato fortemente la pretesa degli intellettuali ‘agiati’ (tra questi anche Deleuze e Foucault) di parlare a nome dei subalterni. È stata proprio Gayatri Spivak a mettere energicamente in luce alcuni paradossi dei Subaltern Studies. Così come è piuttosto significativo che nell’ambito della ‘costellazione post-coloniale’ sia stata elaborata (o comunque ripresa e ridiscussa) l’idea della ‘transculturazione’ come concetto che dà conto della porosità di ciò che convenzionalmente chiamiamo – perfettamente consci dell’insufficienza e obsolescenza euristica del termine – ‘culture’ e del gioco di specchi (per dirla con Carlo Ginzburg) che ha sempre caratterizzato i rapporti tra dominanti e subalterni.
Ritengo dunque che il postcolonialismo, che forse – come dice Amselle – negli Stati Uniti vive oggi un momento di stasi, offra un contributo interessante per la decostruzione di quelle idee che esso stesso aveva contribuito a veicolare da qualche decennio a questa parte, e che il proprio apporto sia ormai imprescindibile per chi intenda occuparsi di scienze sociali tendendo l’orecchio a ciò che si dice e si scrive fuori da un contesto nazionale talvolta davvero angusto.
A questo fine il bel libro dell’antropologo francese – pubblicato da un editore da tempo impegnato a diffondere in Italia queste tematiche e che ora non attraversa, con gran dispiacere degli studiosi, un buon momento – è molto utile, poiché consente al lettore di guardare al postcolonialismo con uno sguardo meno infatuato e con una maggiore consapevolezza critica.
Indice
Introduzione
1.French Theory o French Paradox?
2.I meccanismi di una decostruzione dell’Occidente
3.Il distacco degli ebrei
4.Alla ricerca di un paradigma africano
5.Scenari intellettuali
6.La voce dei “senza voce”
7.Dall’India alle Americhe indigene
8.Gramsci: un soggetto postcoloniale?
9.La fattura postcoloniale
Conclusione
Appendice 1. L’India
Appendice 2. La Bolivia
Bibliografia
Indice dei nomi propri
L'autore
Antropologo, Jean-Loup Amselle è direttore di studi all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi (EHESS). Redattore capo dei «Cahiers d’études africaines», è autore di numerosi volumi, tra i quali, tradotti in italiano, Logiche meticce. Antropologia dell’identità in Africa e altrove (1999), Connessioni (2001), L’arte africana contemporanea (2007). Ha inoltre curato, con Elikia M’Bokolo, L’invenzione dell’etnia (2008).
Link
Interviste dell’autore ad alcuni ricercatori del Centre for Studies in Social Sciences di Kolkata e ai membri del Taller de Historia Oral Andina:
6 commenti:
Il recensore Francescomaria Tedesco prescinde da scopi particolari di pubblicazione recensita e considerandone indistintamente generalità oltrepassa àmbito filosofico, quest'ultimo recuperabile del tutto solo a condizione che il lettore lo estrapoli in mezzo a quant'altro di non filosofico.
Senza dubbio estrapolando i soli contenuti filosofici della recensione (ed ovviamente con le altre conoscenze necessarie o minimamente tali) risulta evidentemente 'il nulla di fatto' di una critica dell'anticolonialismo al postcolonialismo ed 'un risultato insperato' dell'autocritica coloniale-postcoloniale in Francia ed Europa.
Ma a causa di parzialità il recensore non offre chiarezza circa la storicità e varietà della realtà coloniale - postcoloniale. In anni 2009-2010 tale parzialità era in ambienti del postmarxismo definita "politically correct", perché non ancora ricostruita realtà politica post-ex-sovietica e la prudenza diplomatica era talvolta preferibile anche in filosofia e specialmente in luoghi ove i movimenti comunisti filosovietici erano stati assai forti, quali Francia ed Italia; tuttavia le affermazioni di esclusione del pensiero etnico erano solamente tollerate dagli intellettuali che si occupavano di 'Occidente, non Occidente e giustizia' e non quali affermazioni ma quali espressioni utili per capire qualcosa di preciso sulla violenza subculturale nella cultura da taluni valutate per dare opportuni indizi degli ambienti civili più gravemente etnofobici, affinché non tutto accadesse occultamente né improvvisamente e per apprestare difese etniche.
Infatti la filosofia politica non può prescindere dal ritenere le difese etniche quel che sono, una strategia vitale non mortale e necessaria della natura umana (!), sia nella forma della indeterminazione etnografica, che rappresenta la prospettiva di autore Jean-Loup Amselle senza esserne rappresentata giacché contenente prospetto distinto eminente di antropologia, sia nella forma della determinazione etnologica: ma quest'ultima da recensione risulta negata da contraddetto che risulterebbe razionale solo per medesimo arbitrio recensivo ma non filosoficamente anzi antifilosoficamente! Per quanto tale arbitrio possa essere ascritto a cautela, di fatto dopo anno 2012 ed in anno 2019 non è accoglibile da politica filosofica e la filosofia politica nell'occuparsene non ha altra scelta che descriverne passiva inanità od attiva disastrosità.
(...)
MAURO PASTORE
L'autore fa riferimento ad ebraismo che di fatto risulta postmoderno, postcoloniale, postafricano, etnicamente non integrante o dis-integrante, a differenza di giudaismo medioevale arabeggiante che occasionava formazioni etniche europee e diversamente dell'ebraismo moderno orientaleggiante che dava opportunità di mutazioni etniche occidentali.
Tale indeterminatezza-indeterminazione, in relazione con etnicità africana extracoloniale e non coloniale del tutto fuori da possibile interazione con etnicità non fortemente definita — che diventa "invenzione" stigmatizzabile allorché intenda proporsi alla forte indeterminazione ma precisabilità etnica-africana — in quanto scelta o continuazione minoritaria in Europa non ha interesse a favorire il meticciato generalizzato e generalizzante, interesse perseguito invece da chi tenta di usare la stessa realtà civile e religiosa ma per scopi ad essa estranei, etnofobici se non etnocidi, che si rivelano i sèguiti delle intenzioni etnocide ed etnofobiche dello stalinismo — con tal termine non indico effettivo movimento antitotalitario rappresentato in Unione Sovietica e post Sovietica nella citta ribattezzata Stalingrado e poi secondariamente ri-nomata tale, infatti indico con esso sopruso e crimine politico totalitario-comunista ed antileninista, in una fase di sua attività a causa di non autoammissione di tutti i disastri da se stesso generati vòlto ad estinguere configurazioni etniche di intero mondo, anche di Russia ed altri Paesi sovietici, con l'accusa di esser economicamente separate cioè sotto l'accusa, appunto mossa contro di esse... di esistere! Ma non si può umanamente esistere senza varietà e libertà etniche!!
(...)
MAURO PASTORE
In messaggio precedente 'citta' sta per:
città .
Reinvierò intero testo con correzione.
MAURO PASTORE
+
L'autore fa riferimento ad ebraismo che di fatto risulta postmoderno, postcoloniale, postafricano, etnicamente non integrante o dis-integrante, a differenza di giudaismo medioevale arabeggiante che occasionava formazioni etniche europee e diversamente dell'ebraismo moderno orientaleggiante che dava opportunità di mutazioni etniche occidentali.
Tale indeterminatezza-indeterminazione, in relazione con etnicità africana extracoloniale e non coloniale del tutto fuori da possibile interazione con etnicità non fortemente definita — che diventa "invenzione" stigmatizzabile allorché intenda proporsi alla forte indeterminazione ma precisabilità etnica-africana — in quanto scelta o continuazione minoritaria in Europa non ha interesse a favorire il meticciato generalizzato e generalizzante, interesse perseguito invece da chi tenta di usare la stessa realtà civile e religiosa ma per scopi ad essa estranei, etnofobici se non etnocidi, che si rivelano i sèguiti delle intenzioni etnocide ed etnofobiche dello stalinismo — con tal termine non indico effettivo movimento antitotalitario rappresentato in Unione Sovietica e post Sovietica nella città ribattezzata Stalingrado e poi secondariamente ri-nomata tale, infatti indico con esso sopruso e crimine politico totalitario-comunista ed antileninista, in una fase di sua attività a causa di non autoammissione di tutti i disastri da se stesso generati vòlto ad estinguere configurazioni etniche di intero mondo, anche di Russia ed altri Paesi sovietici, con l'accusa di esser economicamente separate cioè sotto l'accusa, appunto mossa contro di esse... di esistere! Ma non si può umanamente esistere senza varietà e libertà etniche!!
(...)
MAURO PASTORE
(...)
Il pensiero dell'autore si attua entro intuizione interna a forte internazionalismo, più forte di quello cui improntati giudaismo-ebraismo precedenti ed incompatibile con simultanea multinazionalità, perché senza rapporti coi mondi selvaggi postcoloniali e perché in rapporto privilegiato con civilizzazione africana stabile e civiltà africaneggiante per le quali la nozione filosofica di etnia non è verbalità anche spontanea ma può essere etnograficamente non appositamente espressa. Per tale particolarità la scienza etnologica non ha mai utilità diretta ed invece ne ha di possibile la scienza antropologica, che anche in versione etnoantropologica etnologia non è; e fuori da tale particolarità non ha senso trarre conclusioni culturali di stessa particolarità!
Qui in Italia tal nonsenso risulta più grave che in Francia perché qui parallelamente del tutto impossibili le interazioni civili tra integrità africane ed europee dato carattere fortemente intrinsecamente greco, grecale o grecanico di parte della passata civilizzazione italiana e oramai pure di più ampia parte di questa ed in futuro di tutta — anche perché l'Europa è rimasto un Continente naturalmente, etnicamente definito e la antropizzazione filo-occidentale non filo-europea non ha potuto impedire maggiore diversificazione climatica della Europa, da alcuni anni meteorologicamente in nuova Era climatica glaciale mentre climatologicamente altrove tale evento denotato inversamente da caldo maggiormente protettivo in ambienti del Meridione del mondo...
Mi sono avvalso anche di pensiero meteorologico, nonché di pensiero climatologico, già noto scientificamente ma ermeneuticamente-filosoficamente non ancora esplicitato in cultura filosofica ufficiale che d'altronde non è ecologicamente impreparata ad accogliere importanza di riflessioni su climi e meteo; e lo ho fatto perché è necessario che la preponderanza civile-culturale sia meglio riconosciuta in Europa per non caratteristica o non caratterizzante dei luoghi stessi, nei quali lo è invece preponderanza culturale-civile; e ciò va notato o non obliato affinché duri attraverso cultura occidentale europea una civiltà occidentale europea, giacché continua perdurante etnofobia, in special modo di ambienti delle sinistre politiche e delle alternative politiche in Occidente e proprio col riferimento a civiltà evolutissime ma eccessive per la sola occidentalità che non garantirebbero sufficiente civilizzazione (non ci riuscirebbero neppure per i bambini nati in ambienti civilissimi!) oppure che toglierebbero il posto alle culture tipiche occidentali-europee annientandone pure la civiltà in quanto tale e non permettendone neanche vero 'abitare', neanche nuovo ma solo risiedere... perché di fatto la esclusività civile cioè la civilizzazione non culturale è in Occidente secondaria (in Africa nord-occidentale) od estranea (in America Settentrionale) o impossibile (in Europa).
MAURO PASTORE
Sono spiacente per inconveniente di scrittura accaduto (ancora una volta causato da minacce e noie contro mia e non solo mia libertà, fattemi udire dai miei pressi mentre componevo ed inviavo messaggi, alle quali ho dovuto prestare attenzione e per le quali ho dovuto anche dispormi a mentali difese).
Siccome Internet non è una libreria, aver dovuto procedere a reinvio non è pregiudicante né pregiudizievole.
MAURO PASTORE
Posta un commento