Recensione di Daniela Bandiera – 20/06/2010
Storia della filosofia (fenomenologia)
"A quali condizioni siamo disposti a parlare di soggetto? In che modo un mondo si può manifestare al soggetto e, manifestandosi può produrlo e generarlo in quanto soggetto incarnato, aperto al possibile, al mondo e agli altri?" (p. 11).
Questi gli interrogativi con i quali si apre l'ultimo saggio di Vincenzo Costa il quale, continuando la riflessione sull'attualità e la fecondità della fenomenologia, propone di ripensare lo studio della soggettività a partire dall'esperienza, rivedendo le classiche antinomie di natura e cultura, mente e corpo.
Il percorso che Costa delinea all'interno della fenomenologia inizia con il concetto naturale di mondo di Jan Patočka, ripreso dalla tradizione di Husserl, Heidegger e Fink, e presentato come strumento per discutere i concetti di totalità di relazioni causali e di nichilismo. Come avverrà per lo Husserl della Crisi delle scienze europee, Patočka recepisce l'esigenza di reincarnare il soggetto nell'esperienza, al fine di riscoprirne l'origine nel mondo naturale pre-scientifico, in un mondo non ridotto a sole cause, dove la nozione di libertà e il concetto stesso di filosofia non risultano svuotati di senso e vi è ancora spazio per comprendere che il principio di ragione si articola in modalità diverse e che, quindi, l'essere umano non è mai semplicemente sottoposto a stimoli, cause, ma è sempre anche motivato, aperto al mondo della volontà e della libertà.
Proprio come Husserl, Patočka riflette sulla differenza tra i concetti di causalità e di motivazione, mettendo in luce come l'uomo esprima sempre una storia irripetibile. L'uomo è costitutivamente esposto all'azione del tempo perché non è mai identico, ma sempre soggetto al mutamento, non solo fisico (crescita, deperimento, morte), ma anche, e soprattutto, mutamento che egli stesso determina attraverso le proprie scelte e azioni. Divenendo fattuali attraverso la motivazione, le azioni si declinano come possibilità di esistenza perché agendo determinano chi sono, mentre la motivazione trova il proprio fulcro trascendentale nella temporalità. La possibilità dell'azione e quindi della libertà viene così ricondotta all'apertura al tempo, alla totalità e, in primo luogo, a una nozione di mondo come totalità delle nostre possibilità d'azione.
Questo concetto di mondo è caratterizzato nel senso dell'apertura heideggeriana, di quella passività fondamentale alla base della costituzione dei diversi mondi temporali, in quanto orizzonte trascendentale di qualsiasi possibile manifestazione, totalità di rimandi in virtù dei quali la realtà appare come un tutto unificato e coerente. Il mondo è l'insieme delle possibilità d'azione, le quali interpellano la mia libertà, cosicché io mi vengo a definire come un ente che nell’azione deve dare senso al proprio essere, a se stesso in quanto tempo.
Su questa base l'uomo stesso diviene essenziale apertura al tempo, il quale si identifica con il mondo inteso come apertura trascendentale, come legge generale del movimento dell’essere, come ultimo vero assoluto; il mondo è così pensato non come totalità satura, ma come dinamismo instabile, generatore di ogni possibilità d'apparire: solo il tempo temporalizzandosi può rendere possibile l'apparire.
In Patočka emergono quindi essenzialmente due idee di mondo: da un lato il mondo come apertura che permette il manifestarsi delle cose, dall’altro esso è mancanza, ciò che non può mai giungere a fenomenizzarsi. Esistono quindi diversi mondi storici, diverse determinazioni dell'essere, ma tutti trovano origine in un mondo sempre fungente e mai normativo, il quale rappresenta una verità non ancora giunta a manifestazione. I mondi storici si vengono così a caratterizzare come tendenze al vero, in un processo di differimento infinito che genera l'umano e la storia, mostrando il carattere "mancante" di ogni determinata apertura.
Queste riflessioni sul pensiero di Patočka conducono Costa al confronto con i temi della formazione trascendentale del mondo, della differenza ontologica e del rapporto di quest'ultima con quella antropologica, affrontati nel secondo capitolo, L'istintualità e il formarsi del mondo.
Come possono gli enti apparire nell'orizzonte mondano? È la questione della differenza ontologica, proposta attraverso le risposte di Heidegger e di Patočka, entrambe concordi nel sostenere che l’uomo non può formare il senso del mondo, che il mondo non può mai essere oggetto, in quanto esiste una passività fondamentale per la quale l’uomo stesso non può che darsi all'interno di un'apertura, di una totalità di rimandi poiché questo mondo è sempre alle sue spalle, è ciò che costituisce le cose e la soggettività, non ciò che viene costituito.
Ma se non è prodotta dall'uomo, da dove si origina la differenza ontologica? Heidegger è esplicito nel sostenere che non vi è mai una genesi trascendentale del mondo, non vi è un prodursi del sistema differenziale, ma l'accadere della differenza; ciò però ancora non chiarisce da dove derivi un mondo in quanto struttura differenziale dei significati, questione che Heidegger cerca di risolvere attraverso la nozione di progetto, cioè di un sistema regolato di differenze che rende possibile sia il differenziarsi dei differenti che il progettare umano, definendo la totalità delle mie possibilità d’azione e, dunque, il mio mondo.
Tale progetto è nell'uomo ciò che l’istinto è nell'animale ed è per tal motivo che nel pensiero heideggeriano tra il soggetto umano e l’animale non può esserci alcun passaggio perché pensare una continuità significherebbe ammettere che la differenza ontologica abbia una genesi, che vi sia un generarsi della forma.
Alla domanda se gli animali possano o non possano avere un oggetto intenzionale e di che tipo di oggetto intenzionale si tratterebbe, sia Husserl che Patočka rispondono invece che ciò dipende dal rapporto che l'animale istituisce con il mondo circostante poiché solo un essere in grado di orientarsi nello spazio tramite processi di identificazione e riconoscimento, cioè in grado di riconoscere un oggetto come il medesimo, può avere un oggetto intenzionale. Tra uomo e animale non c'è quindi contrapposizione, anche se bisogna tener presente che solo la presenza della struttura intenzionale rende possibile un rapporto libero con l’ambiente, un’azione in senso proprio, ovvero ciò che caratterizza l’uomo in quanto soggetto di volontà e libertà. Come sottolinea Husserl, il fatto che gli animali non abbiano alcuna ipseità personale non significa che essi siano sprovvisti di ogni forma di ipseità, ma permane valida la considerazione che nessun animale mostra quella capacità di comprendere caratteristica di un ente che intende se stesso come una totalità temporale finita.
Esplicitata la fondamentale considerazione husserliana per cui solo un essere aperto alla dimensione della temporalità è in grado di avere un rapporto libero con il mondo, diventa necessario affrontare, come fa Costa nel terzo capitolo "Ipseità, corporeità e motilità", il problema di ciò che prima di ogni altra cosa permette di avere un rapporto con il mondo circostante, cioè il corpo vivo.
È subito messo in risalto come il soggetto non possa avere un rapporto con il mondo se non in quanto ente corporeo, e come vi sia una motilità che regola la vita del corpo, una tendenza al Sé: da quest’immagine del soggetto husserliano come essere vivente radicato nel mondo della vita e della sensibilità, prima ancora che soggetto di auto-riflessione, prende avvio l'innovativo percorso dell'interprete attraverso la fenomenologia della corporeità, il quale prende come punto di partenza il corpo, con la sua peculiare caratteristica di essere allo stesso tempo sentito e senziente e quindi in grado di rispondere all'ambiente, fatto unico rispetto a tutte le cosalità circostanti; il corpo ha infatti la capacità doppiamente trascendentale di essere allo stesso tempo costituito e costituente, di porsi come un centro che permette l'apparire delle cose e anche di essere capace di auto-costituzione, divenendo la condizione di possibilità dell'esperienza.
Ma come si caratterizza il sentire del corpo vivo? È forse un sentire statico? La risposta negativa giunge immediatamente: il corpo vivo, il suo sentire sono ontologicamente movimento, differimento, tendenza, in quanto caratterizzati dalla temporalità, inseriti in un sistema di tracce, ritenzioni e attese nel quale non può esistere impressione atomistica.
È un'evidenza che esista un'ipseità originaria come Sé corporeo, che il Leib abbia già una direzionalità prima di essere ego in senso proprio e che esso sia fondamentalmente memoria, ciò che rimane identico al mutare degli Erlebnisse, l'elemento permanente di ogni rappresentazione, la condizione di possibilità dell'identità personale; in questo modo "a partire dalla nozione di corpo vivo, si apre forse lo spazio per pensare al di là del dualismo io-corpo" (p. 88), per comprendere che esiste una sintesi originaria dalla quale emergono sia il Sé che il Leib, i quali risultano quindi in totale continuità di sviluppo.
Essenziale aspetto del Leib è anche il suo strutturale aspetto relazionale: lo sviluppo del soggetto fenomenologico non è mai solipsistico, ma rinvia sempre all'alter ego.
Nel capitolo quarto "Empatia e relazione", Costa si addentra nella fenomenologia dell'intersoggettività, assumendo come punto di partenza che il soggetto non si rapporta mai solo alle cose, ma anche, e in modo ancor più originario, ad altri esseri umani, i quali in primis si presentano come corpi vivi uniti analogicamente al mio proprio corpo vivo. Il Sé è originariamente intersoggettivo, sia a livello corporeo che a un livello più attivo, in quanto il mio agire coinvolge sempre gli altri soggetti: senza l’esperienza dell’altro non c’è esperienza di sé come soggetto auto-cosciente, come uomo, non c’è trasformazione del comportamento in azione.
L'esperienza dell'altro, per poter essere realmente tale e davvero formativa, deve essere in grado di presentificarmi un soggetto autenticamente dotato di un'originaria alterità. È su questa base che Husserl non può che rifiutare le teorie dell'empatia di Theodor Lipps e di Max Scheler; se infatti il rapporto con l'alter dev'essere un’originaria dialettica tra identità e differenza che non annulli l’alterità, allora non potrà essere né una proiezione della mia vita di coscienza sull'altro (Lipps) né un'esperienza implicita alla mia stessa coscienza, slegata dall'esperienza percettiva (Scheler).
Ma da dove proviene il carattere di alterità dell'alter? Dal semplice fatto che non condividiamo lo stesso corpo vivo? La risposta a questa domanda rinvia alla costituzione stessa del Leib, il quale non può mai essere considerato come una mera "cosa", perché unito in modo originario con una psiche; è così possibile intendere come l'alterità dimori sì nella separazione dei corpi vivi, ma in quanto tale separazione coinvolge non solo i corpi fisici, ma anche le diverse psichicità a essi connesse. Io e l'altro siamo diversi perché i nostri corpi vivi racchiudono due diversi flussi temporali, i quali possono confrontarsi, sfiorarsi, ma mai venire a coincidere, in quanto unici ed irripetibili proprio a causa delle diverse forme di costituzione temporale, e quindi motivazionale, che li sostengono. Proprio come avevamo sottolineato per Patočka, così anche in Husserl il concetto di motivazione deve sempre essere distinto e mai assimilato a quello di causalità, al fine di sottolineare il ruolo centrale che esso viene a svolgere per l'intera costituzione della vita soggettiva di coscienza. Infatti solo dal pieno riconoscimento dell'unicità del flusso temporale e motivazionale dell'alter può generarsi quel "raddoppiamento del sentire" che l'avvicinamento corporeo dell'altro crea, altrimenti quest'alter sarebbe solo un momento del mio stesso cogito e non potrebbe dar vita a nessuna forma di conoscenza, né di me stesso né dell'altro. Nel momento in cui, invece, la relazione è davvero esercizio della distanza, equilibrio tra il rispetto delle differenze e il lasciarsi modificare da queste differenze stesse, allora l'empatia diviene anche un potente strumento di auto-conoscenza, una tappa fondamentale nel cammino della conoscenza di se stessi.
È allora comprensibile perché nel quinto e ultimo capitolo, intitolato "Le emozioni: dal fondamento cognitivo all'apertura intenzionale", Costa si soffermi sullo sviluppo dell'analisi fenomenologica delle emozioni, essenziale in quanto qualcosa è per noi una possibilità d’azione solo se le emozioni la fanno apparire come tale.
Costa pone a confronto, essenzialmente, tre diverse teorie dell'emozione: quella cognitiva di Carl Stumpf, quella fisiologica di Lange-James e quella intenzionale di Husserl.
Dopo aver analizzato l'ipotesi riduzionista, per la quale un'emozione è semplicemente una complicazione di stati sensoriali elementari, l'attenzione dell'interprete si sofferma più in particolare sul confronto tra la posizione di Stumpf e quella di Husserl, dal quale emerge che se in una teoria cognitiva le emozioni si giustificano attraverso ragioni e credenze, in una teoria intenzionale le emozioni sono invece atti intenzionali che fanno vedere qualcosa di nuovo, aspetti peculiari dell’essere, rispetto a cui l’elemento intellettuale e cognitivo è cieco.
Nella teoria cognitiva di Stumpf le emozioni vengono intese come atti psichici fondati su un oggetto intenzionale, in quanto è vitale, nella costruzione di una psicologia scientifica, dimostrare come condizione di possibilità delle emozioni non siano i meri dati sensoriali, ma dei veri e propri atti intenzionali, elementi cognitivi come rappresentazioni, credenze, giudizi o convinzioni. Questa posizione nasce in dichiarato contrasto con teorie di tipo riduzionistico come quelle di Ribot, per il quale le emozioni sono solo una variazione e una complicazione dei sentimenti di piacere e di dolore, o di Lange-James, che sostiene come l'origine delle emozioni vada ricercata nella stimolazione subita da certi organi o dalla muscolatura. Stumpf sostiene invece un rifiuto di queste teorie, non solo perché devono costantemente fare uso d'ipotesi, ma soprattutto perché se ogni emozione potesse essere ridotta a sensazioni organiche, allora ogni sensazione organica dovrebbe essere un'emozione, mentre è evidente che una tale generalizzazione non è affatto legittima.
Punto essenziale del discorso di Stumpf risulta quindi essere che le emozioni nascono da come gli esseri umani si rivolgono al mondo e dal fatto che quest'ultimo appaia loro come significativo.
Nella teoria delle emozioni husserliana le emozioni sono invece una classe di atti di coscienza autonomi, rappresentano una specifica modalità di esperienza, la quale permette di accedere a oggetti peculiari, dando un contributo essenziale alla costruzione del mondo circostante. Questi oggetti peculiari che emergono attraverso la sfera emotiva sono quelli di valore, anzi quelli nei quali si realizza la più originaria costituzione del valore, il quale viene, in primis, sentito emozionalmente e solo successivamente ripensato in un atteggiamento teoretico.
La differenza tra le due correnti emerge in modo ancora più marcato nel dibattito sullo statuto delle tonalità emotive, al quale Costa dedica ampio spazio. In una teoria cognitiva delle emozioni, le tonalità emotive devono essere considerate casi border-line perché altrimenti, non essendo il risultato immediato di una rappresentazione, rischierebbero di porre in discussione il primato del momento intellettuale rispetto a quello emotivo. Le cose stanno invece in modo diverso in Husserl, il quale, non dovendo necessariamente supportare un primato assoluto della conoscenza teoretica su quella estetica, non solo può ammettere l'esistenza di un oggetto peculiare della sfera del Gemüt (il valore), ma anche che le tonalità emotive possano essere rivelatrici dell'essere del mondo, dell'orizzonte degli oggetti. Le tonalità emotive, così, non svolgono più una funzione secondaria, ma divengono caratteristiche del modo di stare al mondo dell’uomo, il quale, prima di operare teoreticamente sul mondo, vive nel mondo, è avvolto dall'esperienza emotiva della propria Lebenswelt.
In conclusione l'ultima opera di Vincenzo Costa è da segnalare non solo per l'ampia padronanza storica e testuale del pensiero fenomenologico, ma anche per la magistrale chiarezza ed efficacia con cui sono esposte le problematiche affrontate, in un continuo rinvio a esempi, valido strumento di comprensione anche nei casi di maggior difficoltà.
Con la sua consueta incisività, quindi, Costa non solo riesce a offrirci un'ampia panoramica delle fondamentali posizioni fenomenologiche, ma anche a proporci una visione innovativa del pensiero husserliano; nel confronto con il pensiero di Patočka ed Heidegger, l'interprete sembra infatti volerci suggerire una lettura dell'opera husserliana in un'ottica meno idealistica, che punti l'attenzione non solo sul soggetto, ma sulla correlazione fenomenologica e sul versante non-soggettivistico di questa stessa relazione.
Su queste basi il soggetto husserliano si disvela come un essere caratterizzato anche nel senso della passività, dove con quest'ultima si deve intendere l'intero ambito del Fühlen, attraverso il quale il soggetto recepisce il mondo, ne viene affetto, prima di metterlo in forma attraverso i propri atti.
Un testo da leggere per riscoprire tutta la vitalità e l'attualità della tradizione fenomenologica attraverso quest'innovativo punto di vista della sensibilità: il corpo vivo, l'istinto, le pulsioni, le emozioni, il rapporto con l'altro sono infatti tutte declinazioni del sentimento, del fatto che la fenomenologia ci propone di "passare dal pensare al sentire" (p. 76), per scoprire che l'indubitabilità dell'essere risiede proprio in questo sentire, che in ultima analisi "vivere è sentire" (p. 76).
Indice
Introduzione
Capitolo primo: Il mondo dell'agire e il Sé
Capitolo secondo: L'istintualità e il formarsi del mondo
Capitolo terzo: Ipseità, corporeità e motilità
Capitolo quarto: Empatia e relazione
Capitolo quinto: Le emozioni: dal fondamento cognitivo all'apertura intenzionale
L'autore
Vincenzo Costa (1964) insegna filosofia teoretica presso l'Università del Molise. Studioso del pensiero filosofico contemporaneo, si è occupato a lungo della tradizione fenomenologica, ed in particolare di Husserl, Heidegger e Derrida. Del primo ha tradotto le Lezioni sulla sintesi passiva (Milano 1992), le Idee per una fenomenologia pura (Torino 2002) e I problemi fondamentali della fenomenologia (Macerata 2008). Ad Husserl ha dedicato numerosi studi, tra cui La generazione della forma. La fenomenologia e il problema della genesi in Husserl e in Derrida (Milano 1996) e L'estetica trascendentale fenomenologica. Sensibilità e razionalità nella filosofia di Husserl (Milano 1999). Tra i suoi ultimi lavori (con P. Spinicci e E. Franzini) La fenomenologia (Torino 2002), La verità del mondo. Giudizio e teoria del significato in Heidegger (Milano 2003), Esperire e parlare. Interpretazione di Heidegger (Milano 2006), Il cerchio e l'ellisse. Husserl e il darsi delle cose (Cosenza 2007) e Husserl (Roma, 2009).
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