Recensione di Umberto Imbriano – 04/10/2010
Filosofia politica, Etica
“Questo libro non ha grandi pretese. Non apre piste mai battute, non dà visioni d’insieme, non trascrive la liturgia di un convegno” (p. 1). La forza di questa premessa occorre a sgravare il testo dagli oneri della ricostruzione fattuale della storia e degli avvenimenti, vale ad esentarlo da ogni pretensività eziologica volta alla ricognizione perentoria delle idee; eppure non gli sottrae la straordinaria lucidità di un’analisi mediata, dialogata, dal contributo di saperi e biografie differenti. Antisemitismo e razzismo sono posti al centro di una ricerca polifonica che riunisce i luoghi laceri di una memoria comune, e racconta lo smarrimento di ogni tensione morale. Ciascun contributo mira “a mostrare come alcuni esiti tragici siano il precipitato di percorsi normali, lenti e sapienti. Percorsi in cui gradualmente i saperi – dalla demografia, alla biologia, alla psichiatria, al diritto – nell’apparente e rassicurante oggettività ed equidistanza dalle loro formulazioni, hanno scavato il terreno su cui sono radicate le più rigorose e violente forme di esclusione sociale” (p. 6).
Il saggio di Roberto Finelli scorge lungo l’asse della filosofia occidentale, il dipanarsi della vicenda della mediazione tra l’essere ed il non essere, nel percorso di consolidamento delle identità individuali e delle relazioni attore-mondo. Identità, negazione ed alterità, dislocate sul terreno bifronte della contrapposizione e della interiorizzazione reciproca, divengono coefficienti di una percezione di sé e dell’altro che declina il processo controverso dell’organizzazione dell’umano. Il diaframma delle identità è via via aperto, seppure indefinitivamente, attraverso l’apporto della filosofia dialettica, sino a rivolgere la consapevolezza filosofica dell’essere, di là dai confini dell’autosufficienza, alla sua natura intimamente relazionale. Il rispecchiamento di Sé nell’altro da Sé diviene, a diversa ragione, catalizzatore del superamento dell’autarchia del soggetto ed elemento qualificante il ruolo delle dinamiche di riconoscimento/misconoscimento nell’ambito della riflessione filosofica e psicoanalitica. Da questa prospettiva, certo, ben si comprende come un’identità patologicamente bloccata, deprivata del rapporto con la propria base emozionale, “possa volgere tale struttura interiore di terrore e dominio in un terrorismo esterno, avendo proiettato e collocato nell’altro il fondo negativo della propria identità”.
Diego Quaglioni elabora, nelle more dell’incipiente giuridicizzazione della società occidentale, il senso e la misura di un percorso mai domo di implementazione culturale, di incubazione progressiva e discontinua di mito e ragione. L’antisemitismo odierno, innervato a ridosso dell’antiebraismo premoderno del secolo XVIII, raccoglie la vernacolare eredità dell’antiebraismo cristiano dell’età intermedia, poi precipitato negli interstizi della contesa, giuridica ma non soltanto giuridica, tra diritto-naturale e legge civile. La tensione tra canonisti e civilisti, che flette l’ambivalenza del diritto medioevale, ipostatizza l’iterazione, assai spesso deteriore, di superstizione e ragione, cittadinanza libera e coatto assoggettamento nell’orizzonte del diritto, svelando così il timore di una perniciosa penetrazione del pregiudizio nei luoghi della ragione.
“Sono identificabili il razzismo e l’antisemitismo?” (p. 47). È questo l’interrogativo che Francesco Germinario si cura di acclarare, indagando tra i refusi della letteratura europea di matrice razzista ed antisemita. Emergono un duplice intendimento ed una diversificata nefasta progettualità, quand’anche intrise della medesima cifra di intolleranza e disprezzo dell’alterità. Un’interversione di centro e periferia connota l’approdo borghese del primo ed antiliberale del secondo, guadagnando una politicità di segno opposto che traduce il razzismo nel gergo del conservatorismo liberale e l’antisemitismo nell’appello disperato alla sovversione di una modernità già preda del cospirazionismo sionista.
Il lavoro di Barnaba Maj ripercorre l’itinerario della lucida follia antisemita, trascorrendo i luoghi delle Origini del totalitarismo di Hannah Arendt. Emerge il grado dell’affrancazione della Arendt dalla miopia del doppio trauma, carsicamente penetrato nella consapevolezza degli immigrati intellettuali tedeschi nel periodo nazista, ed il conseguente disvelamento della co-originarietà intrinseca di antisemitismo e totalitarismo. L’evocata assimilazione del giudaismo alle vicende degli stati nazionali e la mancata emancipazione sociale sottesa alla proclamata eguaglianza dei diritti renderà, nel corso di intricate vicende storiche (affaire Dreyfus) e nell’affermarsi di complesse biografie individuali (quella del premier britannico Benjamin Disraeli), la straordinaria inesperienza politica del popolo ebraico, cagione di una cruenta discriminazione sociale, epifania tragica e comune del totalitarismo e dell’antisemitismo.
David Bidussa analizza l’incidenza esercitata dal modello di sviluppo rispetto alla vicenda definitoria dell’identità nazionale. Idea di popolazione e concetto di sviluppo divengono referenti di una avveduta narrazione nazionale che incrocia, sebbene non algebricamente, i sedimenti della dottrina razzista sino quasi a determinarli. L’ideologia della popolazione, con il suo background rurale e familistico, entra a disciplinare i crismi di una demografia orientata alla sovraesposizione numerica e all’antropizzazione esogena. Se dunque, “quello della popolazione costituisce l’archeologia del discorso politico sulle identità nazionali … Il razzismo degli anni ’30 è parte di quel discorso e ancor di più lo è l’antisemitismo” (p. 91). Il fascismo, avrà gioco facile nel riorganizzare la semantica demografica del secolo precedente, impiantandola in una più roboante gergalità natalista che anela alla forza del numero ed alla prolificità della nazione.
L’opposizione agli addentellati bio-medici che preannunziano la profilassi conservatrice e la teoria della razza, costituiscono le ragioni del merito politico, e non soltanto, che Mauro Bertani, sulla scorta di Foucault, tributa alla psicanalisi freudiana. Nel mentre la psichiatria si accingeva a consacrare i luoghi della “diatesi” e dell’ereditarietà dell’isteria e della nevrastenia, che diranno della sintomatologia clinica della razza ebraica, per contro, la politica della psicoanalisi estrometteva dall’eziologia delle nevrosi “il fattore della predisposizione ereditaria” che di lì a poco predominerà la scena delle teorie eugenetiche e razziste dell’Ottocento e Novecento.
“Nei primi anni trenta spirava in Europa un’aria maligna” (p. 125). Tra i mormorii e la penombra di una lunga incubazione, Francesco Migliorino riepiloga il meta-racconto della coscienza scientifica europea che, “con il suo interminabile corteo di eugenisti, zoologi, biologi, demografi, penalisti, criminologi, alienisti” (p. 127), vivificherà gli intendimenti dei sottoscrittori del “Manifesto della razza”. Non sorprende, dunque, la profusione di spesa che il capitale eugenista della biopolitica riversa nelle profilassi e nella bonifica del corpo sociale; l’implementazione dei controlli, l’allestimento di congegni di disinfezione, la pratica della detenzione manicomiale, adempiono in tutto alla ricusazione della degenerazione e decadenza della razza cui, presto e bene, occorre offrire rimedio.
Il calendario del 1938 è una partitura assai tragica della tronfia lirica antisemita. Dopo le avvisaglie dei primi giorni di febbraio, si consolida la triste consuetudine di circolari e provvedimenti governativi che già presagiscono l’orrore dei mesi seguenti. Il triste autunno di quell’anno celebra l’inizio di una persecuzione che alla fine della guerra conterà l’allontanamento, la deportazione e lo sterminio di circa un quarto degli ebrei italiani. Antonio Guerraggio e Pietro Nastasi, riflettono sull’assordante silenzio della comunità scientifica che accompagnò la politica di estromissione dalle scuole e dalle università italiane di studenti, professori ordinari e liberi docenti ebrei. Dinanzi alla capitolazione della ragione ed alla epurazione di buona parte dell’accademia italiana, “si resta di ghiaccio a vedere come la comunità matematica si fosse preoccupata più delle cattedre restate vacanti e del pericolo di espansione di altri gruppi disciplinari” (p. 11).
Le pagine di Ernesto De Cristofaro scandagliano le collusioni della scienza giuridica tedesca ed italiana con i propositi segregazionisti delle politiche razziali. Emergono differenze, anche non soltanto accennate, tra il contegno eugenista delle leggi di Norimberga e quello morale o spirituale sotteso alle leggi del ’38. Nuove dogane definitorie riscriveranno il tracciato dei lemmi prepolitici del diritto costituzionale tedesco, innervandoli a ridosso della concezione schmittiana dell’unità biologica del popolo; di contro, nella dogmatica italiana si affermerà, seppure con maggiore ritrosia, una declinazione razziale di tipo spirituale o culturale, ma non anche fisico-organica. Neppure il diritto civile e penale andranno esenti dalle suggestioni indotte dagli entusiasmi razziali, al punto che le stesse categorie della capacità giuridica e della imputabilità del reo, subiranno una fortissima dequotazione in luogo della priorità accordata alle determinazioni di comunità di sangue e pericolosità sociale.
L’indignazione profonda di Ernesta Bittanti, vedova di Cesare Battisti, impressa nelle pagine di Israel-Antisrael - diario dell’ammutinamento della coscienza civile e della civiltà giuridica negli anni del fascismo - è il referente narrato dal saggio che Beatrice Primerano dedica al coraggio di una minuta e fragile donna, che seppe ergersi a monumento della libertà di coscienza e della umana fratellanza. “Animata dagli ideali del Risorgimento, la Bittanti giudicò il fascismo come l’Antirisorgimento, un ritorno, uno dei tanti aspetti della reazione fascista ai principi della rivoluzione francese” (p. 195).
I negazionisti disconoscono l’esistenza di un piano di sterminio per eliminare gli ebrei, contestano siano mai esistite camere a gas o forni crematori, ritenendo, per contro, la Shoah una sorta di neo-religione, creata al solo scopo di garantire immunità assoluta allo Stato israeliano ed a perpetrare il senso di colpa del mondo nei confronti degli ebrei. Francesco Rotondi mette a nudo la scientificità soltanto ostentata dal negazionismo, la pratica retorica utilizzata dalla propaganda antisionista per coartare le meno avvedute coscienze, non ricusando sciovinisticamente il contraddittorio ma esortando a non lasciarsi ammaliare dalle sirene del pensiero alternativo.
Indice
Introduzione di Roberto Finelli
Riflessioni sparse su identità, negazione, alterità di Diego Quaglioni
Nell’autobiografia dell’uomo europeo di Francesco Germinario
Razzismo, antisemitismo, modernità liberale di Barnaba Maj
Rileggendo Hannah Arendt: il nesso logico-storico fra antisemitismo e totalitarismo di David Bidussa
La forza del numero e l’ideologia italiana dello sviluppo di Francesco Migliorino
“Il sacro egoismo della razza”: la clinica dell’uomo nuovo di Angelo Guerraggio e Pietro Nastasi
La questione razziale nella comunità scientifica italiana di Ernesto De Cristofaro
Politica razziale e scienza giuridica in Germania e Italia di Beatrice Primerano
Ernesta Bittanti e le leggi razziali del 1938 di Francesco Rotondi
Il curatore
Francesco Migliorino è professore ordinario di Storia del diritto medievale e moderno nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Catania. Tra i suoi saggi monografici: Fama e infamia (Giannotta, Catania 1985); In terris Ecclesiae (Il Cigno Galileo Galilei, Roma 1992); Mysteria concursus (Giuffrè, Milano 1999). È anche autore di un cortometraggio dal titolo Aria. Voci scritture immagini dal manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto.
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