[Ed. or. Justice in Robes, Belknap Press, Cambridge (Mass.), 2006].
Recensione di Carolina Gasparoli – 03/11/2010
Filosofia del diritto, Filosofia politica, Etica
1. La giustizia in toga è una raccolta di saggi pubblicati tra il 1991 e il 2004 (solo il saggio I concetti di diritto è inedito), in cui Ronald Dworkin mette a punto e ribadisce alcuni aspetti delle riflessioni sul diritto che egli ha sviluppato nel corso di quasi quarant’anni. La raccolta è caratterizzata dal fatto di riunire saggi che potremmo definire più teorici, nel senso che si concentrano su questioni di filosofia del diritto e di jurisprudence in senso stretto, e saggi che, partendo da un caso di attualità, analizzano problemi di teoria giuridica. Questi ultimi sono senza dubbio molto legati anche agli articoli pubblicati da Dworkin presso la New York Review of Books, sulle cui pagine interviene da anni per discutere questioni di attualità politica statunitense.
Com’è noto, sin dalla pubblicazione di Taking Rights Seriously nel 1977, l’interesse di Dworkin ruota attorno alla critica del positivismo giuridico, che egli considera non convincente sia come teoria del diritto sia come teoria dell’interpretazione giuridica. Anche se in La giustizia in toga prende in considerazione le tesi di esponenti del positivismo giuridico come Jules Coleman (nel saggio Trent’anni dopo) e Joseph Raz (nel saggio I concetti di diritto), il bersaglio polemico per eccellenza dell’autore, anche a distanza di più di tre decenni, rimane quella che egli presenta come la versione del positivismo di H.L.A. Hart in The Concept of Law (1961) e nel Postscript, apparso postumo nel 1994.
Alla critica al positivismo si affianca, in particolare nei saggi Pragmatismo e diritto e Il nuovo mastino di Darwin, anche la critica al pragmatismo giuridico che, a partire dall’elaborazione del pragmatismo filosofico di Rorty, Peirce e Dewey, trova nel giudice Richard Posner e, più in generale, negli appartenenti alla Chicago Law School, i suoi esponenti di spicco. Semplificando molto, si può dire che ciò che caratterizza la posizione di Posner e dei pragmatisti è di ritenere che il ragionamento giuridico e, in particolare, la decisione giudiziaria, debbano guardare alle conseguenze, in modo da prendere la decisione che, nel complesso, avrà i migliori risultati e le migliori conseguenze per la società.
Attraverso il confronto critico con il positivismo giuridico e il pragmatismo, Dworkin fa emergere la propria posizione, come nel saggio A lode della teoria, pubblicato per la prima volta nel 1997. In realtà, tale saggio rappresenta un compendio della teoria interpretativa del diritto, che Dworkin ha elaborato nel corso degli anni, a partire dalla pubblicazione di A Matter of Principle nel 1985 e di Law’s Empire nel 1986. Secondo Dworkin, il punto di vista privilegiato da cui guardare il diritto è quello del giudice, che deve presentare il diritto nella sua luce migliore (law in its best light). In generale, comprendere una pratica significa individuare il valore o i valori intorno ai quali tale pratica si è costituita, ed è possibile comprendere le regole della pratica solo attraverso l’individuazione di tale valore. Se è vero che il diritto è una pratica complessa, in cui i valori in gioco sono molti, si tratta di elaborare un’interpretazione che permetta di legare i diversi valori per dare senso alla pratica. Questa è l’idea che emerge a partire da Law’s Empire, in cui trova un’elaborazione compiuta la tesi del diritto come integrità (law as integrity).
2. «Che relazione dovrebbe esserci fra le convinzioni morali di un giudice e i suoi giudizi su cosa è il diritto?» (p. 3). Questa è la domanda che costituisce il filo conduttore delle riflessioni attorno alle quali ruotano i saggi di questa raccolta. In altre parole, se è rilevante il modo in cui i giudici decidono rispetto ai casi che si trovano a giudicare, secondo Dworkin è altrettanto rilevante capire come i giudici identifichino il diritto e, in caso di disaccordo su cosa sia diritto, a proposito di cosa siano in disaccordo.
Dworkin afferma di essere interessato principalmente a quello che definisce il “concetto dottrinale” di diritto, al quale ricorriamo quando diciamo, ad esempio, che secondo il diritto di Rhode Island non è valido un contratto sottoscritto da chi ha meno di dodici anni. Ora, la sentenza di un giudice dipende dal fatto che proposizioni di questo tipo siano vere o meno; in questo caso, se sia vero o meno che, in base al diritto di Rhode Island, un contratto sottoscritto da chi ha meno di dodici anni non può essere considerato valido. Secondo Dworkin, «le proposizioni del diritto giocano un ruolo importante in una complessa rete di presupposti e credenze di questo genere e ricevono il loro senso da tale ruolo. Ovviamente è una questione di fondamentale importanza pratica il fatto se fra i test che i giudici e gli altri dovrebbero effettuare per decidere quando tali proposizioni sono vere rientrino anche quelli di tipo morale, che chiedono, ad esempio, se sia una politica giusta e saggia non consentire ai bambini disabili di fare contratti» (p. 4). In altre parole, il concetto dottrinale serve a individuare cosa è diritto in una data comunità politica.
Dunque, «che cosa nel mondo rende vera o falsa un’affermazione su cosa è il diritto in relazione a qualche questione? […] Qual è il modo appropriato di ragionare o argomentare sulla verità di affermazioni del diritto?» (p. 56). Dworkin ritiene che si possa affrontare il problema a partire da due diversi approcci: l’approccio compenetrato di teoria (theory-embedded approach) e l’approccio pratico (practical approach). Secondo il primo, «ragionare giuridicamente significa mettere in relazione problemi giuridici discreti e specifici con una vasta rete di principi di derivazione giuridica o di morale politica. In pratica, non potete pensare alla risposta corretta ai problemi del diritto senza aver riflettuto attentamente, o essere pronti a riflettere attentamente, su un grande sistema teorico generale di principi complessi, come ad esempio quello riguardo alla natura della legislazione sulla colpa civile, o al carattere della libertà di parola in una democrazia, o alla migliore interpretazione del diritto alla libertà di coscienza» (p. 56). In base al secondo approccio, invece, ogni decisione giudiziale è una decisione politica, e chiunque rifletta sul diritto deve avere il fine di migliorare le cose. Dworkin ritiene che l’approccio compenetrato di teoria costituisca la risposta migliore alla domanda posta all’inizio e, proprio in base a questo approccio, l’asserzione secondo la quale un contratto sottoscritto da chi ha meno di dodici anni non può essere considerato valido è un’asserzione interpretativa: in altri termini, «giustifichiamo affermazioni giuridiche mostrando che i principi a loro sostegno offrono anche la migliore giustificazione della prassi giuridica più generale nell’area dottrinale in cui sorge il caso» (p. 58).
3. Nell’articolo “Protestant” Interpretation and Social Practices, pubblicato nel 1987 sulla rivista Law and Philosophy, Gerald Postema ha sostenuto che, nel pensiero di Dworkin, la nozione di “interpretazione” interviene a due livelli. Infatti, da una parte, per individuare il diritto è necessario fornire un’interpretazione della pratica giuridica stessa; dall’altra, la migliore interpretazione è quella che mette in risalto il ruolo svolto dall’interpretazione nella pratica giuridica. Nel saggio Il «Poscritto» di Hart e il senso della filosofia politica, e in quello dedicato al pensiero di Isaiah Berlin Pluralismo morale, Dworkin si occupa di questo secondo livello. Questi due saggi sono forse i più interessanti della raccolta, perché definiscono l’orizzonte metateorico entro il quale Dworkin sviluppa le proprie riflessioni sul diritto e sulla jurisprudence. Benché faccia sorgere non pochi dubbi il modo in cui il filosofo americano ricostruisce il pensiero di Hart e Berlin, dei quali per certi versi ci restituisce un’immagine decisamente non corretta, è tuttavia interessante capire in che senso la riflessione su questi due filosofi contribuisca all’elaborazione dei concetti chiave del suo pensiero.
Dworkin attribuisce a Hart e Berlin una concezione metodologica “archimedea”, vale a dire una concezione che, nel riflettere intorno a una pratica sociale, pretende di mantenere distinti due livelli di discorso: il discorso di primo livello della prassi che studiano e la piattaforma di secondo livello di meta-discorso «in cui i concetti di primo ordine sono definiti e indagati, e tesi di primo ordine sono classificate e assegnate a categorie filosofiche» (p. 154). Ciò che Dworkin mette in discussione è la praticabilità di un’operazione teorica di questo genere: è necessario riconoscere che qualsiasi teoria filosofica di secondo livello non può essere neutrale, filosofica e non impegnata. In altre parole, nel cercare di capire che cosa siano l’uguaglianza, la libertà, la democrazia, non possiamo fare a meno di fornire un’interpretazione “integrata” di questi concetti (p. 171).
Lo stesso discorso vale per il diritto e per la sua identificazione: «l’argomentazione giuridica è un’argomentazione tipicamente e pervasivamente morale. I giuristi devono decidere quale insieme di principi in competizione fornisca la giustificazione migliore – moralmente più vincolante – della prassi giuridica nel suo complesso» (p. 158). Dunque, non solo da parte di Dworkin c’è un disaccordo con Hart su come individuare il diritto in casi particolari, ma anche (e soprattutto) su che tipo di teoria costituisca una risposta generale al modo in cui individuare il diritto: «io credo che tale teoria sia un’interpretazione della prassi giuridica che formula tesi morali ed etiche, e si basa su di esse» (p. 158).
Dalla critica del conflitto tra valori di Berlin si comprende poi meglio cosa intenda Dworkin quando afferma che i nostri concetti politici e giuridici sono concetti interpretativi: le teorie sulla natura dei concetti di libertà, uguaglianza e democrazia non sono semplicemente descrittive e neutrali per natura, ma sono esse stesse normative e impegnate rispetto ai valori: il fatto che i nostri concetti politici e giuridici siano interpretativi implica che non sia possibile distinguere un aspetto descrittivo e un aspetto normativo del concetto, e che anche le teorie filosofiche di secondo livello siano in realtà teorie normative.
Da ultimo, è interessante far notare che la riflessione di Dworkin sul metodo archimedeo è anche una riflessione sul compito e sul metodo della filosofia politica in generale, della quale la jurisprudence è una componente. Detto in altri termini, la jurisprudence non può essere considerata autonoma rispetto alla filosofia politica, che fornisce il quadro teorico generale entro il quale devono essere prese le decisioni in ambito giuridico. In questo senso, allora, torniamo alla domanda iniziale della raccolta, al filo rosso che lega i diversi saggi, vale a dire alla relazione che lega le convinzioni morali di un giudice e i suoi giudizi su cosa è il diritto. Secondo Dworkin, «se dobbiamo capire meglio i valori integrati non strumentali dell’etica, dobbiamo tentare di capirli in maniera olistica e interpretativa, ognuno alla luce degli altri, organizzati non in maniera gerarchica ma come una stazione geodesica. Dobbiamo tentare di decidere cosa sia l’amicizia, l’integrità o lo stile, e quanto siano importanti tali valori, vedendo quale concezione di ognuno di essi e quale conferimento di importanza si accordi meglio col nostro senso delle altre dimensioni del vivere bene, o dell’avere successo nella sfida del vivere. […] Finché non possiamo vedere come i nostri valori si leghino insieme in tal maniera, così che uno qualunque di essi può essere messo alla prova di fronte alla concezione provvisoria degli altri, non ne comprendiamo nessuno» (p. 175).
Indice
Introduzione. Diritto e morale
1. Pragmatismo e diritto
2. A lode della teoria
3. Il nuovo mastino di Darwin
4. Pluralismo morale
5. Originalismo e fedeltà
6. Il «Poscritto» di Hart e il senso della filosofia politica
7. Trent’anni dopo
8. I concetti del diritto
9. Rawls e il diritto
Note
Fonti
Indice analitico
L'autore
Ronald Dworkin è Sommer Professor of Law and Philosophy presso la New York University e Jeremy Bentham Professor of Jurisprudence presso l’University College London. È uno dei maggiori filosofi del diritto contemporanei, ed è noto anche per i suoi contributi nell’ambito della filosofia politica e morale. Tra le sue pubblicazioni: Taking Rights Seriously (1977), A Matter of Principle (1985), Law’s Empire (1986), Freedom’s Law. The Moral Reading of the American Constitution (1996), Sovereign Virtue. The Theory and Practice of Equality (2000), Is Democracy Possible Here? Principles for a New Political Debate (2006).
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