Recensione di Alessandra Granito – 7/3/2011
Parole-chiave: fenomenologia, soggetto, soggettività (enigma e paradosso della), linguaggio, metafora, epoché, Husserl, Heidegger, cogito, Descartes, fenomeno (enigma del), ritorno, identità, passività.
In “Contagio”, prefazione all’edizione italiana del romanzo Frost (Gelo) di Thomas Bernhard, a proposito della “strana follia” del protagonista, il pittore Strauch, Rovatti scrive: “Strana? E se fosse la scoperta di un modo di vedere le cose e abitarle? Se fosse l’inizio di un congedo dalle nostre abitudini, incistate, spesso infette e marce, loro sì sintomo di una malattia da cui ogni giorno ci facciamo tranquillamente guidare? L’inizio di un congedo da “un’altra follia”, quella che ci paralizza nelle nostre scatole che portano l’etichetta normalità?” (Thomas Bernhard, Gelo, Einaudi, Torino 2008, p. XIII).
Nel celebre romanzo dello scrittore austriaco, la realtà ostile e brutale, cruda e glaciale di Weng, il cupo e isolato paese di montagna in cui Strauch ha deciso di vivere, cattura e travolge non solo la voce narrante del libro, ma anche lo stesso lettore; lo “contagia” tanto da far scemare l’orizzonte unidimensionale e delimitato dai suoi contorni usuali; lo lascia in un silenzio sinistro e suggestivo interrotto solo da un latrato di sottofondo, insopportabile, lacerante e incessante che, in Bernhard, non solo è la metafora del declino e della disfatta di un certo tipo di sapere, ma è soprattutto ciò che scandisce un’esistenza ed un sentire nuovi, alimentati da “dubbi salutari” che sembrano suggerire di mettere tra virgolette il mondo ordinario per vedere da vicino se stessi e la realtà nella loro insondata assurdità e antinomicità.
Colui che, secondo Bernhard, abita un paradosso, una realtà lacerata non è però Strauch, ma il giovane medico che lo segue e che ha il compito di studiare e analizzare quei suoi comportamenti stravaganti e “malati”, quella sua “strana follia”. Perché è costui colui che “abita il paradosso”? Perché, in quel luogo ameno e brutale e in compagnia di quell’uomo (Strauch) dotato di una coscienza lucida, ma controversa e controcorrente (per questo “folle”) egli diviene consapevole, lentamente ma pienamente, dell’impossibilità di un aut-aut definitivo e perentorio, dell’inevitabilità granitica della condizione critica e contraddittoria dell’uomo, della profonda enigmaticità della soggettività. Tutto questo, forse, indica quel latrato di cui parla Bernhard e sulla quale Rovatti invita a riflettere in maniera filosoficamente chiara ed intensa.
Il saggio di Rovatti, La posta in gioco, si presenta proprio come il risultato di una lucida e profonda incursione nella questione filosofica urgente, complessa e paradossale della soggettività; una questione di cui egli parla nei termini emblematici di enjeu. In che modo Rovatti articola e propone il suo scavo dei fondali della soggettività? Come egli affronta e analizza la problematicità fondamentale della questione del soggetto?
Lo scenario entro il quale Rovatti indaga è la filosofia del XX secolo e, in particolare, il pensiero di due suoi grandi protagonisti: Edmund Husserl e Martin Heidegger, proposto in una prospettiva dialogica, in maniera sì dialettica ma non rigidamente oppositiva o detrattiva. Quella del soggetto è una questione che separa radicalmente e nettamente Husserl e Heidegger; ma è proprio a partire dal loro approccio così eterogeneo che Rovatti ri-parte, in maniera del tutto inattesa ma oltremodo efficace, per tessere le trame della complessa questione dell’enigmaticità del soggetto e della paradossalità della soggettività. La fenomenologia husserliana, che è fondamentalmente una filosofia del soggetto, e l’ontologia heideggeriana, che ha combattuto la rivoluzione cartesiana del soggetto facendone addirittura la nozione fondamentale della metafisica moderna, si differenziano, certo, ma al tempo stesso s’intrecciano, formano un fondo mobile decisivo ma ancora da sondare.
Ciò che risalta dal confronto messo in atto da Rovatti è che esso sia uno scambio mai concluso tra i due pensieri sulla base del razionalismo cartesiano: il cogito cartesiano - “occultatore” secondo Heidegger e “scopritore” secondo Husserl – è, infatti, il tema-chiave, il punto di snodo importante, il costante riferimento filosofico, una sorta di spartiacque dell’itinerarium rovattiano attraverso il quale articolare il dialogo tra i due filosofi. Secondo Rovatti, infatti, è il cogito, riconsiderato da Husserl e criticato da Heidegger, che aiuta a segnare quel sentiero in cui ogni garanzia cade, in cui la soggettività entra in collisione con se stessa, in cui l’incessante e rischiosa messa in gioco di sé, da limite, si trasforma nella condizione stessa della soggettività.
Difatti, attraverso un costante confronto con le “peripezie del cogito” di Descartes, e soffermandosi su alcune parole-chiave (il fenomeno, il ritorno, la passività, la metafora), Rovatti affronta la questione della soggettività - sentita oggi come difficile e, forse, imbarazzante (si pensi, ad esempio, al concetto di soggetto scabroso di Slavoj Žižek) - tentando di indicare un possibile chiasmo filosofico, un sentiero che vada oltre Husserl e Heidegger, verso uno spazio incerto dove un pensiero possa incrociare l’altro e in cui possano intervenire anche altri interlocutori rilevanti quali Foucault, Derrida, Levinas. Questo spazio incerto è costituito proprio dalle questioni filosofiche della soggettività e della paradossalità, quelle a cui Rovatti si è costantemente dedicato perché il “soggetto” è e resta un problema. La fenomenologia di Husserl si situa al punto di massima tensione della filosofia del soggetto, mentre il pensiero ontologico heideggeriano si presenta come la radicale distruzione di ogni filosofia/metafisica del soggetto (Destruktion der Metaphysik). La soggettività non può uscire di scena. È questa la posta in gioco. Husserl non appare più in grado da solo di indicarci il fenomeno della soggettività; Heidegger sottolinea l’impossibilità di parlare di soggettività e ne mostra i limiti: la negatività, la non pienezza, la dipendenza.
E allora il “gioco” diventa più ampio, la “posta in gioco” (la soggettività) è più alta e supera sia i limiti della fenomenologia – e quindi una padronanza possibile (?) della soggettività – sia l’ipotesi heideggeriana di poter prescindere da una tale questione (della soggettività).
Talune scienze e filosofie relativistiche, universalistiche, olistiche e oscurantistiche, e gli approcci del decostruzionismo post-moderno hanno senz’altro contribuito ad una rivoluzione del modo di concepire il soggetto. Quello di “soggetto” è un concetto da cui non è possibile prescindere ma, al tempo stesso, sembra sfuggire di mano poiché ha perso le caratteristiche con cui la tradizione filosofica lo ha consegnato e tramandato: attività, sicurezza, compiutezza e pienezza.
L’intento che emerge dalla lettura de La posta in gioco suona come un monito, un invito a non disfarsi (anche perché non sarebbe possibile) della questione del soggetto e della soggettività, ma a lavorare nei suoi interstizi, trovarne gli elementi di paradossalità e d’interesse critico perché è e rimane un problema filosofico aperto, da sviluppare e da portare avanti perché è centrale.
Rovatti attua uno scavo teorico-teoretico della questione della paradossalità del soggetto proponendosi sostanzialmente quattro obiettivi: (1) squalificare il Soggetto forte e pieno della metafisica moderna e individuare, per contro, la debolezza virtuosa e ormai irrinunciabile di una supposta passività; (2) rilanciare la fenomenologia come risposta teorico-teoretica ancora produttiva; (3) mettere in evidenza il problema del rapporto tra linguaggio e filosofia, ovvero, la questione di una discorsività in grado di descrivere quella soggettività sfuggente, caricando di senso la questione della metafora.
Ed è proprio alla luce di quest’ultimo intento che Rovatti va oltre un approccio meramente speculativo: egli non procede solo in ordine ad uno scavo teorico-teoretico, ma intende impostare la questione filosofica del soggetto e della soggettività anche entrando nel merito della scrittura filosofica o, meglio, del rapporto tra filosofia e scrittura. Questo è un punto che nel libro viene annunciato molto esplicitamente nelle pagine finali, allorquando l’autore convoca Maurice Blanchot il quale, in Follia del giorno (pubblicato originariamente nel 1949 con il titolo Un racconto), sostiene che il discorso filosofico dev’essere sì un racconto, ma che però deve porre un’attenzione peculiare alle operazione di “descrizione” e di “rendicontazione”. Parlare e scrivere di filosofia vuol dire fare un computo, porsi in equilibrio tra questi due momenti e, non da ultimo, mettere a tema il proprio cambiamento, conseguente al rapporto tra pensiero e vita.
Attorno a questo nucleo tematico s’innesta la seconda parte del saggio: Rovatti s’interroga su ambiti quali l’enigma del fenomeno e la passività del soggetto con lo sguardo costantemente rivolto all’impossibile rigore del linguaggio. Quale linguaggio adottare per descrivere il “nuovo” soggetto, enigmatico, paradossale e passivo? Quale linguaggio deve adottare la filosofia per potersi spingere in prossimità del fenomeno della soggettività ed esprimerlo, così, in tutta la sua radicale complessità? O forse il concetto di “soggetto” è ormai vetusto?
Alla luce dell’indebolimento e dell’erosione dell’identità, il risultato dell’analisi di Rovatti è che la fisionomia problematica e articolata della domanda della soggettività può essere tracciata ed espressa soltanto se il linguaggio della filosofia adotta una curvatura metaforica. La metafora è la sola che sia in grado di cogliere pienamente e di rendere chiaramente il carattere, non soltanto e non principalmente conoscitivo, di quel che si cerca, di avvicinarsi senza forzature o distorsioni all’incognita che vi si azzarda. Avvicinarsi al fenomeno del soggetto in virtù di una descrizione narrativa significa decidere di spogliarsi di un improduttivo rigore e declinare il linguaggio verso una chiarezza che sembra “paradossale” e “rischiosa”: “paradossale” perché implica l’accompagnarsi all’indeterminatezza della metafora, “rischiosa” perché per approssimarci al fenomeno del soggetto, la “peripezia mentale” dovrà accompagnarsi al “rischio del linguaggio”.
Nell’epoca della crisi del soggetto (da Nietzsche attraverso Freud fino alla crisi del marxismo e delle impasses epistemologiche che stiamo vivendo), la perdita di legittimazione delle concrezioni sociali e delle identificazioni intersoggettive, la solidificazione diffusa di quel cliché di vita che Heidegger chiamava “innanzitutto e per lo più”, mette di nuovo in gioco l’identità di ciascuno. “L’identità non coincide con la semplice presenza né, di conseguenza, con la nozione sostanzialistica del soggetto; ha sì a che fare con essa, ma è precisamente qualcosa d’altro: l’identità è qualcosa per cui, nel suo stesso essere, è in gioco l’identità stessa”. (p. 19). In questo contesto Rovatti rintraccia nella metafora un valore non soltanto letterario, ma eminentemente filosofico: essa ha una funzione narrativa che, per la filosofia, significa qualcosa di molto diverso da un ausilio stilistico o da un ricorso provvisorio perché si trasforma in una pratica di linguaggio in cui la filosofia viene messa radicalmente alla prova.
Svelato, infine, qual è il problema essenziale su cui Rovatti sospinge e sofferma la sua attenzione e la sua intuizione filosofica: il fenomeno della soggettività e il tentativo di descriverlo nel suo movimento, nel suo inevitabile cambiamento. Il recupero da parte di Rovatti del significato e del valore ecumenico della metafora nella filosofia contemporanea ha come obiettivo preminente quello di smascherare l’oggettivismo, di “parlare e dire diversamente per ascoltare e comprendere diversamente” (p. 116). L’intreccio di metafora e narrazione è un modo per avvicinarsi alla realtà e che non significa affatto affidarsi all’incerto, al vago, all’approssimato, ma vuol dire piuttosto “comprendere”, “descrivere”, “rendicontare” con elasticità interpretativa. Questo, in altri termini, è il tentativo di avvicinarsi al “senso” della soggettività senza farsi catturare da una nuova padronanza.
Il messaggio chiaro e deciso de La posta in gioco è di rimanere fedeli alla questione fenomenologica del soggetto; distogliere lo sguardo dal cogito autosufficiente e impenetrabile per rivolgerlo al soggetto decentrato, nuovo e diverso; emancipare il soggetto da un processo progressivo di riduzione alla perentorietà della definizione. L’itinerario di ricerca rovattiano si presenta come un percorso non-dogmatico: attraverso fessure, contraddizioni e inciampi, l’autore cerca di portare alla luce un soggetto plasmabile che non si debba più concepire come sostanza, ma come autocostruzione in atto, non più come un in-sé da liberare, ma come un luogo molteplice e contraddittorio. Ancora una volta, in quest’ultimo lavoro emerge l’attenzione fenomenologica di Rovatti per le zone d’ombra e i margini di una soggettività nuova, da sottrarre alla sua inevitabile (?) riconsegna a tutte le metafisiche dell’Io, alla padronanza e alla volontà di potenza, ovvero all’impotenza del delirio umano che accompagna disastrosamente la nostra cosiddetta modernità.
Indice
Premessa alla nuova edizione (2010)
Premessa
Avvertenza
Parte Prima: Peripezie del “cogito” cartesiano
Par. I. Il problema
Par. II. Husserl: “Sulla cresta di una ripida roccia…”
Par. III. Heidegger: “Un fatale pregiudizio”
Par. IV. Descartes: “A meno che, forse, non mi paragoni a quegli insensati..”
Par. V. Descartes: “Perché, come potrei conoscere che dubito e che desidero…?”
Par. VI. La domanda
Parte Seconda: Il soggetto in questione
Par. I. L’enigma del fenomeno
Par. II. Un ritorno?
Par. III. Passività
Par. IV. Un problema: la metafora
Indice dei nomi
L'autore
Pier Aldo Rovatti (Modena, 1942) insegna filosofia teoretica all’Università di Trieste. Formatosi alla scuola fenomenologica di Enzo Paci, ha collaborato con la rivista filosofica “aut aut” di cui è direttore responsabile dal 1974. Ha scritto monografie su Sartre, Whitehead, Marx, Lévinas, Heidegger, Derrida e Foucault. Collabora con i quotidiani “Il Piccolo” (su cui scrive una rubrica settimanale dal titolo Etica minima) e “ la Repubblica”; coordina il Laboratorio di filosofia contemporanea e l’Osservatorio sulle pratiche filosofiche a Trieste. Trai i suoi libri: Il pensiero debole (a cura di P. A. Rovatti e G. Vattimo, Milano 11983), Il paiolo bucato. La nostra condizione paradossale (Milano 1998), La follia, in poche parole (Milano, 2000), La filosofia può curare? (Milano 2006), Abitare la distanza (Milano 2007), Etica minima (Milano 2010).
Links
Nel 2010 è stato pubblicato il primo volume dedicato interamente all’approfondimento critico del pensiero filosofico di Rovatti: R. Scheu, Il soggetto debole. Sul pensiero di Pier Aldo Rovatti, Mimesis, Milano 2010.
http://www.recensionifilosofiche.it/crono/2010-09/scheu.htmPer un riferimento alle iniziative culturali curate da Pier Aldo Rovatti si propone il seguente link:
http://www.filolab.it/
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