mercoledì 27 aprile 2011

Friedrich D. E. Schleiermacher, Monologhi, a cura di Ferruccio Andolfi,

Reggio Emila, Diabasis, 2011, pp. 126, € 12,00, ISBN 978-88-8103-751-3.

Recensione di Giuseppe Pulina - 27 aprile 2011

Etica, libertà, felicità, individualismo

Forse non rappresenteranno la summa ufficiale del pensiero etico del Romanticismo, ma i Monologhi di Schleiermacher, dati alle stampe dalla casa editrice Diabasis, possono essere considerati a buon titolo una delle opere più significative della riflessione che molti filosofi postkantiani tedeschi, spronati in ciò anche dagli scritti fichtiani, dedicarono ai temi della morale. In effetti, i Monologhi di Schleiermacher presentano uno spaccato più che attendibile degli interessi dei romantici per la riflessione morale, buono per scandagliare il mondo dei valori dei contemporanei di Goethe e Schiller, ma anche per penetrare nella vicenda biografica e intellettuale dello stesso autore che, da raffinato scrittore, fa un uso intrigante del registro diaristico e degli strumenti dell’analisi introspettiva, proponendo se stesso come cavia delle proprie osservazioni.
L’inserimento del testo schleiermacheriano, dato originariamente alle stampe nel 1800, in una collana (“La ginestra”) che si propone di diffondere la conoscenza di un individualismo di stampo solidaristico è scelta quanto mai opportuna. Schleiermacher affronta nei suoi Monologhi i classici temi della riflessione etica (libertà, felicità, amore, amicizia, le relazioni interpersonali, la prospettiva della senilità, la morte, il matrimonio e altri ancora), ma, come avverte Andolfi nel suo saggio introduttivo: «Il carattere di novità del punto di vista etico ma anche ontologico introdotto da Schleiermacher può essere apprezzato a pieno solo se lo si inserisce nella storia dell’individualismo moderno» (p. 27). Di un individualismo, verrebbe da dire, che va oltre la rivendicazione romantica e fichtiana di un primato assoluto dell’Io e che tiene ben presente, a suo modo superandola o correggendola, la dura lezione morale di Kant. La lettura dei Monologhi dà anzi l’idea che la distanza di Schleiermacher da Fichte sia quasi direttamente proporzionale alle affinità che legano il secondo all’autore della Critica della ragion pratica. E in un certo senso, adottando una ben precisa chiave di lettura, si può affermare che una delle costanti dei Monologhi sia proprio il confronto con Kant, teorico dell’universalità della legge morale e di un modello di perfezione umana che a Schleiermacher sembrava non rendere conto della complessità del soggetto, fatto di corpo, ma anche di spirito, e portato a cercare il giusto equilibrio tra l’uno e l’altro. 
Da un rapporto equivoco di queste due componenti possono derivare concezioni errate e nocive della giovinezza e della vecchiaia (tema dell’ultimo dei cinque monologhi), ingenuamente considerate alla stregua di due incompatibili età della vita, che vede il corpo in primo piano negli anni della giovinezza e lo spirito in pieno risalto quando il vigore del corpo inizia a venire gradualmente meno. Suona così come un monito estremamente efficace la nota di Schleiermacher sulla vecchiaia, concepita come «un vuoto pregiudizio, il misero frutto della sciocca illusione che lo spirito dipenda dal corpo» (p. 99). La prestanza del fisico non è sempre indice fedele di un’accettabile condizione morale: «Per contemplare l’umanità – si chiede, infatti, Schleiermacher – ho forse bisogno degli occhi, i cui nervi si deteriorano già a metà della vita?» Domanda che, sulla falsariga di quanto si può leggere nelle pagine precedenti dei Monologhi, ne può suggerire un’altra di questo tipo e che noi così formuliamo: “quanto può dirsi ben fondata la relazione etica di un Io che crede di poter prosperare in un mondo dove all’umanità si attribuisce solo una funzione gregaria e ornamentale?” Ovviamente, questa non è la posizione di Schleiermacher, che crede in un progressivo, seppur sofferto, affinamento morale dell’uomo (p. 76). 
C’è, tuttavia, un passaggio dei Monologhi che, meglio di quelli già citati, sembra riuscire a condensare con più forza concettuale e chiarezza il credo morale del nostro filosofo. Lo si trova in quelle pagine del secondo dei cinque monologhi (“Sondaggi”) in cui l’autore giunge ad esaminare il rapporto tra azione e contemplazione, strettoia impervia per la filosofia morale di tutti i tempi. «Solo se nell’atto presente l’uomo è cosciente della propria individualità, può esser sicuro di non lederla nel suo prossimo atto; e solo se esige fermamente da se stesso di contemplare l’umanità intera, o di contrapporre la propria realizzazione di essa a ogni altra, può conservare la coscienza della propria peculiare natura: ogni singolarità infatti viene conosciuta solo per contrapposizione. La condizione suprema del proprio perfezionamento in una cerchia determinata è una sensibilità universale» (p. 58). È in questo orizzonte relazionale che l’individualismo schleiermacheriano guadagna pregnanza etica, gettando le basi di un agire morale che abbia la sua sorgente in un processo spirituale di graduale elevazione. «Non mi resta né il tempo né la voglia di far domande: devo perfezionare ancora, se possibile, nella mia breve vita, il mio proprio essere, a partire dal punto in cui mi trovo, mediante nuovi pensieri ed azioni. Animo ben poco artistico, odio già il fatto di ripetere due volte la stessa cosa. Per questo preferisco fare tutto in compagnia di altri: quando medito, oppure contemplo, o assimilo qualcosa di estraneo, ho bisogno della presenza di qualche essere amato, di modo che all’agire interiore faccia subito seguito la comunicazione, e possa accordarmi senza difficoltà con il mondo grazie al dolce e gradevole dono dell’amicizia» (p. 57). La ricerca interiore, la coerente traduzione nella prassi, le calde relazioni umane, sono questi, in estrema sintesi, gli ingredienti di base della ricetta morale di Schleiermacher.

Indice

Il manifesto dell’etica romantica (Ferruccio Andolfi)

Offerta
I. Riflessione
II. Sondaggi
III. Mondo
IV. Prospettiva
V. Gioventù e vecchiaia
VI. Note

L'autore

Friedrich D. E. Schleiermacher (1768-1834) è una delle figure più rappresentative del movimento romantico tedesco. Pastore e teologo luterano, frequentò i circoli romantici e si legò in amicizia con i fratelli Schlegel, collaborando con la rivista “Athenaeum”. Nei suoi scritti, non numerosissimi, si occupò di religione, arte e morale. Delle sue opere si ricordano i Discorsi sulla religione (1799), pubblicati un anno prima dei Monologhi, e la Dottrina della fede (1821-22).

mercoledì 20 aprile 2011

Giuseppe Gagliano, Potere e antagonismo in Michel Foucault e Michel Onfray,

Trento, Editrice UNI Service, 2010, pp. 44, € 10,00, ISBN 9788861786189.

Recensione di: Alessandro Giannuzzi – 20/04/2011

Filosofia politica, Geopolitica

Il volume di Giuseppe Gagliano su Michel Foucault e Michel Onfray è focalizzato sull’analisi di specifici nodi tematici variamente presenti nell’opera dei due filosofi francesi: il  ruolo dell’intellettuale, il suo rapporto con movimenti di ribellione (quali il maggio francese) ed infine la valutazione delle pratiche da perseguire per opporsi con efficacia al sistema di potere dominante. 
Lo scopo di tale lettura sembrerebbe essere quello di valutare l’eventuale efficacia operativa delle riflessioni dei due pensatori all’interno di un contesto movimentista e antagonista contemporaneo simile a quello sessantottino. Tale ipotesi interpretativa del lavoro analizzato trova conferma nelle parole con cui l’autore chiude l’introduzione del volume: «in altri termini le loro riflessioni sul potere, sul ruolo dell’intellettuale costituiscono una sorta di breviario rivoluzionario non dissimile da quelli tradizionali quali Il Manifesto o Stato e anarchia e devono quindi trovare attenzione nel contesto di una intelligence preventiva» (p. 9). 
La bibliografia proposta nel volume conferma tale scelta: ivi si rileva che le opere di Foucault e quelle storiografiche prese in esame sono accostate ad un numero rilevante di studi concernenti l’analisi della conflittualità non convenzionale e della guerra psicologica. 
Il volume si apre con una minuziosa descrizione delle tecniche della conflittualità non convenzionale o a bassa intensità (termini utlizzati dall’autore dello studio), vale a dire delle modalità attraverso cui le forze dell’antagonismo cercherebbero di conseguire le proprie finalità eversive: l’agitazione sovversiva, l’insorgenza, la costituzione di reti, la disinformazione e la propaganda. 
In questo scenario analitico è inserita la disamina del pensiero di Michel Foucault, per mezzo di una lettura non strettamente filologica, ma più prettamente ermeneutica, che cerca di ricondurre le finalità della riflessione del filosofo francese nell’alveo del pensiero antagonista e rivoluzionario. L’autore valuta in poche pagine la valenza teorica e pratica delle riflessioni del filosofo, su temi quali il ruolo dell’intellettuale, l’analisi del potere (dalla genealogia del potere all’analisi del suo carattere di omnidirezionalità, pervasività, pastoralità, razionalità, etc.), il ruolo del diritto nel processo di affermazione del potere, o ancora il totalitarismo e il liberismo, il ruolo giocato dal corpo nell’assoggettamento al potere o nella ribellione allo stesso. 
Anche se può apparire superfluo rilevare la oggettiva difficoltà di fornire in meno di venti pagine una descrizione, anche parziale, dei risultati della poliedrica produzione filosofica di Foucault, sembra tuttavia opportuno evidenziare come tale problema sia stato eluso dall’autore proponendo nel volume una lettura che appare sostanzialmente univoca ed uniforme: in altre parole, priva della complessità che la valutazione della filosofia foucaultiana richiederebbe. Questo è il limite che scaturisce dalla scelta, non del tutto condivisibile da un punto di visto storiografico, di procedere alla disamina dei nodi tematici esaminati come se questi fossero il frutto di un unicum teorico-speculativo. L’autore ha circoscritto la ricerca all’analisi di alcune opere della seconda metà degli anni settanta, non valutando la genesi di tali riflessioni, non contestualizzando i volumi analizzati, non considerando gli approfondimenti teorici scaturiti da tali lavori, proponendo cioè i risultati speculativi illustrati come se questi fossero l’unico ed ultimo punto di attracco della filosofia foucaultiana. Anche se l’autore asserisce che lo scopo della sua ricerca non è quello di «presentare al lettore una esposizione esaustiva del pensiero di Foucault e di Onfray», ciò non elimina il problema, poiché tale orizzonte interpretativo conduce Gagliano a compiere una serie di scelte assimilabili ad un’ermeneutica figlia del filosofare col martello. L’aver preso le mosse dell’analisi partendo dal lavoro storico-biografico di Didier Eribon, per poi accostarlo al volume di James Miller, non tenendo nel dovuto conto lo scarto metodologico delle due opere – storiografico il primo, quasi scandalistico il secondo –, appare una ulteriore conferma di questa ermeneutica spinta. 
Residuale nel complesso del lavoro è la parte del libro dedicata al pensiero di Michel Onfray. Questa si limita ad una più che sintetica presentazione (tre pagine) della posizione espressa dal filosofo francese nel volume La politica del ribelle, riguardante il ruolo dell’intellettuale nella società, del suo dover essere lo strumento mediante il quale stanare il potere, circoscriverlo e aggirarlo al fine di ottenere lo spazio necessario per proporre una valida alternativa al capitalismo. 
In conclusione il lavoro in oggetto appare privo dell’approfondimento, sia teorico sia storiografico, necessario all’analisi del tema proposto; non solo esso non chiarisce in modo esaustivo le problematiche analizzate, ma non offre altresì interrogativi utili ad aprire la via a nuovi spunti di riflessione. 

Introduzione

Conflittualità non convenzionale e guerra psicologica
Michel Foucault
Il ruolo dell’intellettuale di fronte al potere attraverso le interpretazioni biografiche di Eribon e Miller
Potere
Microfisica del potere
Diritto e potere
Corpo e assoggettamento
Totalitarismo e liberalismo
Intellettuale
Il Group D’information Sur Les Prigione: L’antagonismo in atto
Michel Onfray
Il ruolo dell’intellettuale radicale
Bibliografia

L'autore

Giuseppe Gagliano è nato a Como e si è laureato in filosofia presso l’Università Statale di Milano. Ha conseguito il master in Studi strategici e Intelligence e quello in Diritto internazionale e conflitti armati. È stato codirettore della ISF ed è attualmente coordinatore dello Strategicgroup. Per UNI Service Giuseppe Gagliano ha pubblicato: Sicurezza internazionale e controllo degli armamenti; Il potere marittimo negli scenari multipolari; Studi strategici. Introduzione alla conflittualità non convenzionale, vol. I; Studi strategici. Il ruolo della conflittualità non convenzionale nel contesto delle ideologie antagoniste del novecento, vol. II. 

Links

http://strategicgroup.splinder.com

mercoledì 13 aprile 2011

Francesco Ghia, Ascesi e gabbia d'acciaio. La teologia politica di Max Weber,

Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 2010, pp. 336, €20.00, ISBN 978-88-498-2806-1.

Recensione di Antonella Ferraris - 13/04/2011

Filosofia della Politica

Il titolo di questo lavoro, assai suggestivo, ci riporta ad un concetto, quello di teologia politica, mai espressamente menzionato da Max Weber; oltre a Kelsen, secondo Francesco Ghia, anche  Carl Schmitt, pur considerandosi più propriamente un giurista, ha  utilizzato e sistematizzato questa categoria della politica e in uno scritto del 1976, una lettera mai spedita a Heinz Friedrich,  l’ha  riferita esplicitamente a Max Weber definendolo “lo storico che porta avanti la teologia politica” (la circostanza è ricordata da P. Tomissen, Bausteine zu einer wissenschaftlichen Biographie (Periode:1888-1933), in H. Quaritsch (hrsg.) Complexio Oppositorum.Über Carl Schmitt, Berlin, Duncker & Humblot,1988,  pp.78-79).  L'uso di questa espressione appare dunque giustificato e l'autore intraprende il compito di ricostruirla sulla base, nella Sociologia della religione, della secolarizzazione di concetti e temi provenienti dalla religione per comprendere fenomeni storici, economici e sociali.
Il punto di partenza dell'autore, nella ricostruzione del concetto, è l'evidenziazione dell'idea di ricerca della salvezza, tipica del contesto religioso, nella costruzione dell'agire politico e sociale. Il ruolo dell'ascesi attiva o passiva a seconda delle epoche storiche (passiva come semplice contemplazione mistica di Dio, attiva come agire voluto da Dio) si configura come fuga dal mondo o creazione intramondana di valori tanto individuali quanto collettivi. I valori della vita claustrale, di organizzazione della vita personale e collettiva, di determinazione degli spazi e dei tempi di vita, di purificazione personale, si sono trasformati nella secolarizzazione moderna in una "gabbia d'acciaio" destinata a meccanizzare i comportamenti nella divisione del lavoro e a trasformare l'esistenza in un carcere tanto metaforico quanto reale, come poi suggerirà anche Foucault.
La ricostruzione di Ghia parte dal panorama della teologia liberale tedesca di fine Ottocento, una ambito che Weber ben conosceva e di cui parla spesso anche in scritti autobiografici. Definendosi religiös absolut unmusicalich (assolutamente immusicale dal punto di vista religioso) ossia privo di orecchio per la musicalità della religione, dei dogmi e della liturgia , ma non irreligioso o ateo, definisce il suo punto di vista, espresso in una lettera a Ferdinand Tönnies datata probabilmente 1909, come quello di un luterano attento al confronto con il calvinismo e metodologicamente pronto a chiarire i rapporti tra religione e società, e ad agire e interpretare un contesto razionalizzato e secolarizzato. La partecipazione di Weber al Congresso evangelico - sociale fornisce ulteriore materiale di discussione relativamente alla funzione delle chiese e dei valori religiosi. E' in particolare la discussione con  Sohn e Harnack, secondo  Ghia, a fornire gli spunti più interessanti. Analizzando il cristianesimo primitivo Sohn evidenzia il ruolo unicamente carismatico dell'organizzazione funzionale delle prime comunità; mentre Harnack, nel saggio L'essenza del Cristianesimo (1904) evidenzia la discontinuità tra la comunità primitiva e l’organizzazione burocratico gerarchica  successiva. Tutto il dibattito sulla storia della religione contribuisce a costruire la successiva prospettiva della secolarizzazione e del ruolo della professione (Beruf) come contrappunto laico alla vocazione religiosa: ciò si nota anche nelle ultime conferenze   La politica come professione e La scienza come professione. In particolare proprio queste due conferenze, che all'epoca avevano suscitato molte polemiche,  nella lettera a Heinz Friedrich del 1976 servono a Carl Schmitt, in parte anche per discolparsi dall'essere stato "il filosofo del nazismo", per collocare Weber nell’ambito della teologia politica sulla base del confronto tra il concetto di potere carismatico proprio di Weber e il suo di sovranità (Souveranität - cioè la decisione circa lo stato di eccezione, secondo la definizione della Teologia politica del 1922). Buona parte della critica sostiene la derivazione, se non la dipendenza diretta, del secondo dal primo. E' evidente poi che l’analisi  operata da Weber "rompe" con una tradizione consolidata, che descrive il potere politico secondo la formula "chi governa?" e "come governa?", mentre egli  divide  l’esercizio del potere secondo le dicotomie ordinario/straordinario e personale/impersonale, generando così le ben note tipologie tradizionale, legale – razionale, carismatico.  Proprio quest’ultima  è interessante, poiché si tratta  della capacità di attirare a sé seguaci e discepoli, come frutto di una ispirazione (Eingebung): l'interpretazione che ne è stata data, a posteriori rende comprensibile il fenomeno dei sistemi totalitari come governi carismatici. Anche il concetto di sovranità in Schmitt ha le caratteristiche dell'eccezionalità, anzi, del "miracolo", come l'autore sostiene facendo riferimento esplicito alla terminologia della religione. La sociologia della religione di Weber, in particolare la prevalenza del quotidiano che costituisce la novità del luteranesimo e del calvinismo,  applica perfettamente la teoria dei valori: il sociologo è libero di costruire la propria interpretazione scegliendo un punto di vista specifico, salvo poi essere rigidamente vincolato una volta scelto il procedimento di razionalizzazione. In particolare è importante l’intreccio tra vocazione ascetica e vocazione professionale (Beruf), poiché dal mondo del monastero medievale la vocazione carismatica si trasferisce sul piano delle attività mondane.  E’ in particolare il calvinismo a favorire la sopravvivenza del Protestantesimo, poiché trasferisce l’ascesi” dalle celle dei monaci  nella vita professionale (cfr. M. Weber, Sociologia della religione  [1920-’21], trad. it.   Torino, Utet 1998, p. 331). Proprio questo serve a compattare, in una sorta di eterogenesi dei fini, lo spirito del capitalismo.
Altre questioni affrontate da Weber vengono lette alla luce dell’esperienza religiosa, come l’origine dei diritti umani, che in una celebre pagina di Economia e società vengono collegati al carisma religioso e alla sua ultima affermazione. In effetti è proprio la libertà di coscienza ad essere rivendicata come prima forma di libertà dell’uomo di fronte al potere.
Nell’ultima parte del saggio, Ghia riprende il tema dello spirito del capitalismo e della sua nascita dall’idea di vocazione laica professionale.  Lo studio dell’influenza del  calvinismo sulla formazione dell’idea di Lebenswerk, nell’ambito delle opere successive avrebbe dovuto essere sviluppato secondo alcuni punti che lo stesso Weber si premura di elencare nelle conclusioni della Sociologia della religione: mostrare l’importanza del razionalismo ascetico, analizzare la sua relazione con il razionalismo umanistico e con lo sviluppo dell’empirismo tecnico e scientifico, collocare quel razionalismo nell’ambito del divenire storico, infine evidenziare le relazioni  tra protestantesimo ascetico ed elementi formativi della civiltà moderna. Questi elementi nel periodo successivo non vengono poi organicamente sviluppati in un’unica ricerca, in parte per la pubblicazione del saggio di Troeltsch Soziallehren der christliche Kirchen, ma soprattutto perché  Weber matura la convinzione che gli studi sull’etica protestante vadano collocati nell’ambito di una più generale considerazione della storia della civiltà, secondo la metodologia più propria della sua sociologia comprendente. In tal modo elabora quei concetti come mistica, carisma, magia, ascesi, Chiesa, setta, che rendono possibile considerare le religioni in maniera comparativa, considerando le grandi forme di comunità in relazione con l’economia (gli stessi concetti che secondo Ghia costituiscono la “teologia politica” di Weber).  La stessa definizione di comunità (Gemeinschaft) permette  di instaurare una analogia tra Chiesa cattolica e Stato-nazione come forme di comunità attive organizzate e indipendenti; la Chiesa cattolica inoltre costruisce una sua struttura giuridica razionale e formale che attua in tal modo il suo fondamento  sacramentale e ministeriale. Le sette protestanti e in particolare calviniste hanno invece una caratteristica volontaria che, in relazione alla forte dottrina della predestinazione, chiama l’uomo a dispiegare la sua individualità nell’ambito professionale. Le sette protestanti però hanno anche una fortissima impronta comunitaria, di reciproco controllo morale e religioso, in cui la trasformazione del singolo va di pari passo con quella del gruppo, in una vera e propria ecclesia pura o chiesa dei santi (e non è un caso che da queste ultime sia derivato il principio del contratto sociale).
Nelle sue conclusioni Ghia ritorna sul concetto euristico di teologia politica, sostenendo che si tratta di una ricostruzione plausibile in base alle fonti concettuali della sociologia politica di Max Weber. Inoltre l’autore rivendica di aver voluto andare oltre il senso prettamente politico di questa individuazione, ma di aver voluto dimostrare la persistenza dello spirito religioso nell’intera filosofia di Weber e nel suo stesso cercare individuale, sino ad elevare la decisione etica, la responsabilità a principio, ben prima di Jonas.
L’argomentazione di Francesco Ghia è sottile e ricca di argomentazioni. Tuttavia, trovo  poco convincente, sin dalle origini, l’applicazione fatta da Schmitt della definizione di teologia politica al pensiero di Weber.  E’ certamente vero, e lo è vieppiù dopo l’approfondita analisi delle fonti contenuta in questo libro, che l’ambito religioso - teologico costituisca l’orizzonte definitorio e terminologico di alcune categorie politiche e sociologiche di Weber proprio perché, se si considera l’ambito della storia della cultura, derivano effettivamente da lì (l’esempio più ovvio è quello del potere carismatico).  Secondo me, tuttavia, andrebbe presa sul serio l’affermazione weberiana di essere “religiös unmusicalich”: se applicati al contesto generale della cultura anche i concetti che più evidentemente si rifanno ad una matrice religiosa si allontanano dalla loro origine per servire da leva di comprensione in un orizzonte completamente nuovo.

Indice

Introduzione
Parte Prima "Al di là di ciò che è scienza"?
1.In Limine. Sullo statuto epistemologico della teologia in un ipotetico dialogo tra Weber e Overbeck.
2. La  "musica del mia religione" (Schleiermacher) e un uomo "religiös unmusicalich". La duplicità immediata della religione tra re-legere e re-ligare
3. "Il cristianesimo è il vincolo comune che ci unisce con tutti i popoli". Autonomia della religione e mito nei colloqui con Otto Baumgarten.
4. "Il mondo è diventato nottetempo cristiano - sociale?" Vangelo e politica nel Congresso cristiano -sociale.
5. La "doppia organizzazione della comunità cristiana delle origini e la"scuola del duro ascetismo".Tra Sohn e Harnack.
6. "Identitas in novitate, novitas in identitate". Fondamenti teologico - politici di un tema classico di storia delle istituzioni.

Parte Seconda. L'interruzione del Quotidiano. Carisma, legittimità, potere
1. "Weber è lo storico che porta avanti la teologia politica". Un confronto con Carl Schmitt.
2. Le epoche e Dio. Un excursus su principio di individualità e "religione dello storicismo".
3. Il Beruf e la valorizzazione ascetico - religiosa della quotidianità.
4. Un destino da Geremia? L'originale intreccio tra teoremi ed esperienza vissuta.
5. La "giornata di Antiochia". L'universalismo cristiano, i diritti umani e la libertà religiosa nel confronto con Jellinek.

Parte Terza. Tra teodicea sociale e "fuga mundi". Una concezione tragica?
1.Contestandi magis gratia, qua aliquid ex orazione promoturus…La res de qua agitur nella teologia politica weberiana.
2. Chiesa, setta e mistica. Il potere ierocratico e l'analogia della Chiesa con lo Stato - nazione.
3. La correlazione tra mistica e teodicea. Il contrasto tra il "principio cattolico e il "principio calvinista".
4.Peccato del mondo e redenzione. Elementi di "soteriologia politica"
5. Letture fichtiane. Dell'agire (apparentemente) paradossale.
6. Teodicea della fortuna e teodicea della sofferenza. Lo scandalo del malum mundi e della sofferenza fenomenicamente inutile.
Conclusione.
Indice dei nomi.

L'autore

Francesco Ghia (Asti 1970) svolge attualmente attività di ricerca presso il Dipartimento di Filosofia Storia e Beni culturali dell'Università di Trento, ha pubblicato due saggi dedicati al pensiero di Weber, (L'arte come professione. L'estetica di Max Weber, Alessandria, 2004 e Max Weber und die Kunst. Versuch einer  Rekonstruktion der Weberschen Ästhetik, Hamburg, 2005), nonché la curatela de Il politeismo dei valori per Morcelliana (2010). Attualmente si  occupa della ricostruzione storica del concetto di "liberalismo religioso".

Links

Il sito dell’editore: http://www.rubbettino.it/rubbettino

http://plato.stanford.edu/entries/weber/ Il sito della Stanford  Encyclopedia of Philosophy, una delle migliori risorse online di storia della filosofia. La voce  è di Sung Ho Kim

martedì 12 aprile 2011

Habermas, Jürgen, Il ruolo dell’intellettuale e la causa dell’Europa. Saggi, trad. it. di S. Mainoldi,

Roma-Bari, Laterza, 2011, pp. 168, €. 18,00, ISBN 978-88-420-8892-9.
(Ed. orig., Ach, Europa. Kleine Politische Schriften XI, Suhrkamp, Francoforte, 2008-2010).

Recensione di Francesco Giacomantonio - 12/04/2011

Filosofia contemporanea - Filosofia politica

Nel corso della sua lunga produzione di studi, Jürgen Habermas ha spesso alternato i suoi contributi più rigorosi e accademici con raccolte di saggi legati a questioni di attualità o, comunque, rilevanti nel dibattito pubblico. Questo volume rientra in questa seconda categoria e contiene una serie di interventi dell’intellettuale tedesco, organizzati rispetto a tre aree tematiche: la condizione politica dell’Europa, il ruolo dell’intellettuale e l’evoluzione delle modalità di comunicazione nelle società contemporanee e, infine, alcuni profili di importanti studiosi. 
I saggi sull’Europa ribadiscono, in buona misura, le posizioni teoriche che Habermas ha espresso in diversi suoi volumi di taglio politologico, pubblicati precedentemente. Torna, dunque, accompagnato da riferimenti a recenti vicende politiche, il suo appassionato discorso sull’integrazione come “processo di apprendimento basato sulla reciprocità” (p. 19). Il ruolo dell’Unione Europea, da una parte, va rafforzato dal punto di vista politico: lo scopo sarebbe, sul piano internazionale, quello di bilanciare l’unilateralismo egemonico degli Stati Uniti. Dall’altra, l’Unione europea deve agire dal punto di vista economico: qui, invece, il nodo chiave è quello della idea, resasi ancora più evidente dopo le recenti crisi finanziarie, di un “governo dell’economia europea”(p. 49), ovvero di un piano di competenze sulla cui base si potrebbero coordinare efficacemente le politiche economiche degli stati membri.

La seconda sezione del testo è quella che probabilmente è di maggiore interesse dal punto di vista della sociologia e delle scienze della comunicazione. Qui sono sviluppate, infatti, le argomentazioni sul ruolo degli intellettuali e la comunicazione nelle società complesse, che sottendono un altro tema più generale, tipico del pensiero habermasiano, ossia il ruolo della sfera pubblica sotto il profilo politico.  In tal senso, Habermas difende il ruolo della “stampa di qualità” (p. 60), ossia capace di fare opinione, in grado di veicolare un’informazione affidabile e ricca di commenti accurati, senza la quale la sfera pubblica non potrebbe dare il suo contributo alla legittimità democratica dell’azione dello Stato. Il rischio, se ciò non accadesse, sarebbe quello di una liquefazione della politica nella comunicazione (p. 78), in particolar modo nei meccanismi della comunicazione di massa. A tal proposito, Habermas parla, appunto, di “patologie della comunicazione politica di massa” (p. 97), i cui esempi più macroscopici sono le influenze di imperi mediatici e economici in campo politico. In questo contesto, la posizione dell’intellettuale viene fortemente scalfita, poiché, nella migliore delle ipotesi, questi viene consultato solo come “esperto” e non è più portato a prendere posizioni su questioni normative e a delineare prospettive piene di spunti nuovi. 
Solo attraverso il corretto funzionamento della sfera pubblica è, dunque, possibile la realizzazione di quel modello democratico deliberativo da anni cardine della filosofia politica e della sociologia politica habermasiane; solo così si può, cioè, garantire la “dimensione epistemica della democrazia” (p. 63).

Nella terza parte del volume, trovano collocazione alcuni interventi di Habermas dedicati al pensiero di importanti protagonisti della cultura contemporanea. Si tratta, come egli stesso li definisce, di “profili politico-filosofici di occasione”(p. V). In queste pagine vengono ricordati Adendroth, Rorty, Derrida e Dworkin. 
Di Adendroth, giurista e politologo, Habermas rimarca l’interpretazione della determinazione costituzionale dello Stato democratico di diritto, in cui lo Stato sociale aveva un ruolo cruciale: Adentroth come intellettuale della classe operaia, ha richiamato l’attenzione sugli importanti dibattiti concernenti lo Stato di diritto nell’epoca di Weimar e si è posto “come anti-anticomunista, in netta contraddizione con il pesante clima della guerra fredda” (p. 113). A Rorty è riconosciuto l’importante merito, attraverso il suo pragmatismo, di aver sempre saldato la filosofia alla discussione pubblica e alla democrazia, rifuggendo la metafisica, distinguendosi al tempo stesso come filosofo eminente (uno dei pochi intellettuali americani “la cui voce è ascoltata nell’intero continente”[p. 120], dice esplicitamente Habermas); scrittore con uno stile brillante, intellettuale politicamente impegnato e patriota. Il profilo di Derrida è, invece, incentrato sul tema del suo rapporto con Heidegger, studioso, quest’ultimo guardato sempre in modo fortemente critico da Habermas.  L’opera derridiana, per Habermas, acquisisce il tardo Heidegger, poggiandosi su “fondamenti piuttosto teologici che presocratici, più ebraici che greci” (p. 151), senza tradire nel neopaganesimo gli inizi mosaici del pensiero heideggeriano. L’ultimo profilo presentato è quello di Dworkin, rispetto al quale sono delineati anche interessanti paralleli con Luhmann e Rawls: il giurista americano poneva il problema delle convinzioni morali di un giudice nell’ambito dell’attività giuridica e prospettava  una teoria socio-liberale della giustizia distributiva. Tutti i ritratti teorici di questa parte sono sempre accompagnati da alcune impressioni di Habermas sul modo di essere di questi studiosi, sulla base dei momenti in cui egli ha avuto modo di frequentarli, trasmettendo così al lettore quasi un tratto di familiarità e intimità.

Habermas è famoso nel panorama intellettuale come epistemologo, filosofo della politica, del linguaggio, della morale, sociologo, ma, probabilmente, in testi come questo, emerge un’altra sua dimensione, forse meno appariscente, sicuramente attribuitagli solitamente in minor misura: quella di sociologo della conoscenza, o, come si preferisce dire oggi, di sociologo dei processi culturali. Queste trattazioni sull’idea di Europa, sugli intellettuali, sulla comunicazione politica, in effetti, più che un discorso filosofico, etico, politico, che pure naturalmente è presente, costituiscono una riflessione sul nesso fra contesti sociali, politici e storici e dimensioni culturali, ultimo bagliore di quella teoria critica della società in cui Habermas si è formato.

Indice

Premessa
Parte prima
Ah, Europa!
1. Il ruolo dell’intellettuale e la causa dell’Europa
2. L’Europa e i suoi immigranti
3. La politica europea in un vicolo cieco. Arringa per una politica di integrazione graduale
4. Abbiamo bisogno dell’Europa! La nuova intransigenza: siamo ormai indifferenti al destino comune?
Parte seconda
Per la ragione della sfera pubblica
5. Media, mercati e consumatori. La stampa seria come spina dorsale della sfera pubblica politica
6. La democrazia ha anche una dimensione epistemica? Ricerca empirica e teoria normativa
Parte terza
Ritratti
7. L’Hermann Heller degli inizi della Repubblica Federale.Wolfgang Abendroth nel suo centesimo compleanno
8. Richard Rorty e il gusto per lo shock da deflazione
9. «...and to define America, her athletic democracy». In memoria di Richard Rorty
10. Come rispondere alla questione etica:Derrida e la religione
11. L’efficacia rischiaratrice di Derrida. Un ultimo saluto
12. Ronald Dworkin, un solitario nella cerchia degli studiosi di diritto

Fonti dei saggi

L'autore

Jurgen Habermas, è tra maggiori filosofi e  sociologi contemporanei. Tra le sue numerose opere si segnalano: Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Bari, 1977, Teoria dell’agire comunicativo, 2 voll., Il Mulino, Bologna, 1986;1997, Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Bari, 1987;2003, Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Guerini e Associati, Milano, 1996, L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, Feltrinelli, Milano, 1998, La costellazione postnazionale, Feltrinelli, Milano, 1999, Tra scienza e fede, Laterza, Roma-Bari 2006.

sabato 9 aprile 2011

Sarra Claudio, Lo Scudo di Dioniso. Contributo allo studio della metafora giuridica,

Milano, Franco Angeli, Collana Diritto Moderno e Interpretazione classica, 2010, 1° edizione, pp. 216, 25 euro , ISBN 978-88-568-3117-7.

Scheda di Giovanni Nicodemo - 9-04-2011

metafora, retorica, significato, senso, determinazione, conoscenza, volizione.

Il tema della metafora è sicuramente uno dei più affascinanti e studiati di ogni tempo. In questo lavoro l'Autore, da un lato provando a sperimentare alcune novità per questo tipo di indagine, dall'altro sforzandosi di rimanere concentrato sulla metafora retorica, prova a rileggere i tradizionali riferimenti associati alla nozione, reinquadrandoli e ricoordinandoli tra loro alla luce di una nozione arricchita di metafora.

 Partendo dalle ricerche di Richards, Claudio Sarra fa opera di ristrutturazione della metafora studiando le capacità comunicative del linguaggio e soprattutto abbandonando il dogma del “significato fisso”. In questa nuova retorica, la comunicazione diviene attività che “determina” significati puntuali mediante l'interazione (frase e discorso) tra parole la cui combinazione produce sempre intersezioni tra plurimi contesti semantici. Ciò consente il fondamentale dinamismo tra le parole che interagiscono tra loro nella frase in maniera non aprioristicamente determinata, ma che collaborano alla costruzione del significato.

 Il principio metaforico diviene, allora, costruzione del senso, resa possibile dal continuo gioco di intersezioni semantiche e di evocazione di contesti che le parole consentono, sicché in ogni momento sono aperte numerose possibilità entro le quali si muovono le intenzioni comunicative del parlante e del suo uditorio: in altri termini, comprendere un significato implica non solo un immediato atto originario di contemplazione, ma soprattutto un atto di volizione deliberativa. L'Autore, inoltre, ritiene insufficienti ed incompleti gli impianti delle due principali impostazioni nel rapporto linguaggio-logica-mondo. Egli considera l'impostazione degli “oggetti semplici” di Wittgenstein come una direzione univoca che implica la fissità del significato, nonché l'appiattimento del significato sul suo contenuto. D'altro canto, l'impostazione che prevede solo il confronto tra proposizioni (e non tra proposizioni e realtà) conduce allo svuotamento del secondo termine del rapporto linguaggio-mondo, e attribuisce ad una volontà soggettiva del tutto particolare il poter decidere che cosa sia significante e cosa no.

 Il completamento di entrambe le impostazioni oggettiva e soggettiva sta nell'elemento deliberativo, cioè nel fatto che occorre volere ciò che le premesse non garantiscono, perché si dia connessione tra esse e le conclusioni. La stessa volontà delle conclusioni è la volontà di ritrovare il continuum tra ciò che appare altrimenti inesorabilmente frammentato: comprendere è volere.

In particolare sul terreno giuridico, la metafora ha portata cognitiva, nel senso che può efficacemente intervenire dove nella comunicazione retorica si manifesta un più alto rischio di frattura, di discontinuità.

Indice

Prefazione;
1. La riscoperta del problema della metafora nel Novecento(Introduzione; Dal problema del significato alla metafora; La discussione sul problema del significato e La filosofia della Retorica; Un punto di vista pragmatico; Significato, regole e metafore; Comprendere è volere);
2.Teorie della metafora (Introduzione; Teorie della metafora; Max Black: dal nome al sistema di luoghi comuni associati; Metafora e vita quotidiana; Altre prospettive; Temi e problemi delle teorie sulla metafora nel Novecento; La metafora nel diritto)

3. La metafora retorica ( Introduzione; Il ruolo della similitudine nella rappresentazione della portata cognitiva della metafora. Prime considerazioni su similitudine ed analogia; "Essere simile" e "essere identico"; Ancora su somiglianza ed identità; Analogia e rapporti proporzionali; La proporzione come necessità di istituzione di una regola; La metafora per analogia; Conclusioni);                                          
4. La metafora nel discorso giuridico (Introduzione; Il discorso giuridico: una nozione d'uso; L'uso della metafora nella legge: metafore disposizionali; Brevi conclusioni sulla funzione retorica delle metafore disposizionali; Alcuni esempi di metafora sistemica; L'uso della metafora nella dottrina: brevi conclusioni sulla valenza retorica delle metafore sistemiche; La metafora nella sentenza: metafore dispositive; Brevi conclusioni sulla funzione retorica delle metafore dispositive; L'uso della metafora nell'argomentazione processuale: metafore argomentative)
5. Conclusioni; Bibliografia; Indice dei nomi.

L'autore

Claudio Sarra è ricercatore di Filosofia del Diritto nell'Università degli Studi di Padova, nonché membro del Centro di Ricerche sulla Metodologia Giuridica (CERMEG).

domenica 3 aprile 2011

Tuzet, Giovanni, Dover decidere. Diritto, incertezza e ragionamento,

Roma, Carocci, 2010, pp. 275,  € 25,00, ISBN 978-88-430-5456-5

Recensione di: Michela D’Alessandro – 03/04/2011

Nella presente raccolta di saggi Giovanni Tuzet discute, attraverso un approccio analitico di tipo pragmatista, la natura incerta del ragionamento giudiziale e dell’applicazione del diritto, sostenendo allo stesso tempo la possibilità di misurare la loro correttezza attraverso standard inferenziali. Come sottolinea l’Autore, il ragionamento giudiziale ci appare oggi confuso, incerto, ampiamente discrezionale e, pertanto, innegabilmente distante dal modello illuminista del sillogismo. Ciò nonostante una riduzione di questo iato sarebbe possibile attraverso l’individuazione di criteri atti a disciplinare l’esercizio del ragionamento, essendo questa l’unica via ritenuta praticabile per poter comunque giustificare l’abduzione e la scelta discrezionale. 

Nella prima parte, dedicata al ragionamento giudiziale, viene esaminata l’inferenza, «una condotta mentale, una pratica che può essere migliorata o peggiorata secondo la volontà, gli interessi e il senso morale di chi la conduce (p. 10)», e in particolare quella abduttiva, cioè incerta e ipotetica perché esercitata in condizioni di informazione incompleta. Tuzet specifica quattro diversi usi giuridici dell’abduzione: l’inferenza da fatti a norme, l’inferenza da norme a principi, l’inferenza da fatti a fatti e l’inferenza da caratteri a concetti. Sebbene l’abduzione costituisca la prima parte del processo logico che porta al giudizio, quest’ultimo presenta anche una componente deduttiva. 
In accordo con il metodo scientifico di Peirce, l’Autore sottolinea che quaestio facti e quaestio juris possono essere interpretate come fasi processuali in cui vale l’articolazione di abduzione, deduzione e induzione. Secondo questo modello, infatti, i fatti rilevanti e le norme ad essi relative sono determinati da un’abduzione che viene prima sviluppata deduttivamente e, successivamente, testata induttivamente (cfr. pp. 25-26). L’equilibrio interno alla triplice articolazione inferenziale rispetterebbe comunque la tradizionale distinzione tra fase fattuale e fase normativa ma, diversamente da altri modelli, avrebbe il merito di garantire conclusioni più affidabili.
Pur nel suo essere incerta, l’inferenza abduttiva può essere messa alla prova grazie a test, criteri e inferenze più stringenti che ne attestino la validità. Questo tipo di esame viene affrontato per il ragionamento probatorio, nella qualificazione giuridica dei fatti, nell’individuazione dei principi e nel ragionamento analogico. Tre sono le tesi fondamentali a monte della ricognizione dell’abduzione nel ragionamento probatorio: «l’accertamento della verità è il fine principale dell’abduzione, anche nelle sue forme giuridiche; […] il concetto di prova implica il concetto di verità; […] il concetto di prova implica inoltre il concetto di inferenza (p. 42)» in esso implicato in quanto «non può esserci prova che non sia prova del vero (p. 49)».
Uno dei problemi del ragionamento giudiziario consiste nel qualificare giuridicamente i fatti. Il modello ermeneutico ha evidenziato che è il caso concreto a guidare l’individuazione delle norme, le quali selezionano ciò che è rilevante tra gli aspetti fattuali. Invero, l’Autore ammette che una distinzione più analitica è possibile attraverso l’uso di abduzioni classificatorie, ovvero di «ipotesi basate su concetti e rappresentabili tramite una logica dei predicati (p. 53)». I comportamenti osservati non sono sufficienti per inferire una regola che, tuttavia, può essere conosciuta a partire dalle inferenze articolate. Accanto a questa problematica di ordine cognitivo, Tuzet pone anche due questioni normative: quale regola bisogna seguire in circostanze generali e quale in circostanze particolari? Nel primo caso «si deve cercare di abdurre la regola da seguire e si deve cercare di testare l’ipotesi, considerando pure il fatto che sapere quale regola è stata seguita offre spesso degli indizi preziosi sulla regola da seguire (p. 68)». Nel secondo caso non può, invece, valere la stessa metodologia perché, piuttosto che affidarsi alla responsabilità della comunità interpretante (community view), deve valere il principio della responsabilità personale. Il giudizio individuale non deve, però, essere inteso come totalmente “privato” o “intuizionista” poiché la deliberazione ha pur sempre una natura “pubblica” e ciò in virtù del fatto che, per dirla con Mead, il Sé nasce sempre dal confronto con l’altro da sé (cfr. pp. 67-68).
Circa l’abduzione dei principi e la loro applicazione si pone il seguente quesito: se i principi presentano tra loro una certa incoerenza, si può parlare di conflitto o incongruenza? Conflitto e congruenza sono tra loro inversamente proporzionali; tuttavia, anche se è impossibile quantificare le relazioni tra questi elementi, occorre tener presente che «la congruenza non è un test decisivo della giustificatezza dell’abduzione di un principio, ma un test atto a rafforzare o indebolire le ipotesi […] che dovrebbe far escludere le ipotesi poco congruenti senza d’altro canto richiedere una congruenza massima ai fini della loro giustificatezza (p. 89)».
Un ulteriore problema teorico e pratico concerne i criteri di valutazione delle conclusioni analogiche del giudizio. Come per l’abduzione, l’analogia, intesa come inferenza complessa, basilare e creativa utilizzata nel ragionamento ordinario e pratico, non produce conclusioni certe, che devono comunque essere testate perché, a detta dell’Autore, ciò «non costituisce inferenzialmente uno scacco […] piuttosto un principio di responsabilità inferenziale (p. 105)». 

La seconda parte del volume è dedicata alle norme giuridiche e al giudizio. Dopo aver distinto norme morali e norme giuridiche, Tuzet si focalizza su un requisito di queste ultime: la novità. Egli distingue la novità delle norme generali (legislative) da quella delle norme individuali (giudiziali), sostenendo che sia sul piano ontologico, sia sul piano concettuale la prima forma di novità si configura come assoluta, mentre la seconda come relativa. Questa distinzione ha conseguenze in termini di responsabilità di scelta perché presuppone che, dinnanzi a norme nuove e non inferibili, la responsabilità dell’autorità normativa dipenda proprio dalla novità delle norme, e non viceversa (cfr. pp. 109-132).
Altro requisito delle norme giuridiche sono le relazioni pragmatiche in cui sono coinvolte; relazioni che richiamano il problema dell’indeterminatezza del diritto, ovvero la difficoltà di discernere in modo preciso i casi che rientrano nella denotazione di un concetto giuridico da quelli che non vi rientrano. Tale indeterminatezza trova, qui, risposta sul piano pragmatico della comunicazione e dell’interazione tra soggetti e in quello semantico del principio di significazione (cfr. pp. 131-158).
L’applicazione delle norme giuridiche non si riduce all’essere un’operazione meccanica perché, dal momento che il diritto, la giustizia e i cittadini non sono delle macchine, richiede una sensibilità morale e un’agire responsabile che sappia dar conto delle conseguenze (cfr. 159-177).
Ciò è testimoniato dalla dimensione pubblica e processuale del giudizio, di cui Tuzet enuncia tre tesi: la tesi ontologica, che riguarda il contenuto di un atto di giudizio; la tesi aletica, che considera il giudizio come attribuzione di un valore di verità ad una proposizione; la tesi genetica, che rende conto della dimensione temporale e riflessiva del giudizio, concepito come processo il cui risultato è l’attribuzione di un valore di verità (cfr. pp. 179-195).

La terza parte del volume affronta il tema della conoscenza e della varietà dell’esperienza giuridica, colta nella sua dimensione proposizionale, valoriale, pratica e interpretata in senso ampio come conoscenza del, nel e dal diritto (cfr. pp. 199-222). 
Tuzet, inoltre, non manca di interrogarsi sulla legittimità di una filosofia cognitiva del diritto, il cui compito sarebbe quello di indagare i processi mentali per mezzo dei quali i giuristi organizzano le informazioni ed elaborano il diritto. A tal fine egli distingue quattro ambiti d’indagine, pur nella convinzione che essi non esauriscono lo spettro dei possibili campi di ricerca: la cognizione del processo, delle norme, per la produzione e la revisione di norme e, infine, per la costruzione di artefatti mentali. Secondo l’Autore, questo nuovo approccio cognitivo permetterebbe una migliore comprensione dei processi cognitivi che presiedono al giudizio e, dunque, non solo della dimensione pubblica della giustificazione, ma anche della sfera privata e psicologica del decisore (cfr. pp. 223-236).
Il volume si chiude con un approfondimento della nozione di esperienza giuridica, pragmaticamente recepita nella sua varietà e ricchezza, nonché nei suoi quattro sensi fondamentali: singolare, pratico, ermeneutico ed empirico. Attraverso una chiarificazione delle componenti pratiche e conoscitive dell’esperienza e dei vantaggi operativi cui porterebbe la sua adozione, Tuzet scorge la possibilità di riconsiderare il sillogismo come un modello prescrittivo della decisione giudiziale. Rispondendo alla critica di Holmes al sillogismo come modello descrittivo dell’attività giudiziale o legislativa, egli argomenta che, oltre ad appiattire il sillogismo ad un modello meramente descrittivo, il punto in questione non è tanto stabilire se i giudici debbano limitarsi a premesse “già preconfezionate”, ma se possano attingere a premesse tratte dalla morale o da altre discipline. Così facendo, però, si finirebbe col sostituire le premesse giuridiche con premesse di altra natura (cfr. pp. 237-249).

Sullo sfondo di questa interessante ricognizione del ruolo dell’incertezza nelle decisioni giudiziali  emerge la proposta dell’Autore di rendere più giusta possibile la «dolorosa» pratica del dover decidere, un compito a cui tutti dovrebbero contribuire in vista del bene comune.

Indice

Introduzione

Parte prima: Sul ragionamento giudiziale
Abduzione: quattro usi giuridici
Le prove dell’abduzione
Come inferire la regola da seguire
L’abduzione dei principi
L’analogia come inferenza complessa

Parte seconda: Sulle norme e il giudizio
Norme e novità
Pragmatica dell’indeterminato
Il diritto non è una macchina
Tre tesi sul giudizio

Parte terza: Sulla conoscenza giuridica
La conoscenza giuridica
Una filosofia cognitiva del diritto?
Le varietà dell’esperienza

L'autore

Giovanni Tuzet è dottore di ricerca in Filosofia del diritto presso l’università di Torino e in Filosofia della conoscenza e ontologia presso l’Università di Paris XII. Oltre a numerosi articoli su riviste nazionali e internazionali, ha pubblicato il libro La prima inferenza. L’abduzione di C. S. Peirce fra scienza e diritto (Giappichelli 2006) e ha curato i volumi I pragmatisti italiani. Tra alleati e nemici (Albo Versorio 2007, con G. Maddalena) e The Rules of Inference. Inferentialism in Law and Philosophy (Egea 2009, con D. Canale). Ha trascorso periodi di ricerca nelle università di Losanna, Navarra, Yale, Oxford. Insegna Filosofia del diritto presso l’Università Bocconi di Milano. 

Links
Pagina dell’Università Bocconi di Milano
http://didattica.unibocconi.it/docenti/cv.php?rif=49852&cognome=TUZET&nome=GIOVANNI

sabato 2 aprile 2011

Urbinati Nadia, Liberi e uguali,

Roma-Bari, Laterza, 2011, pp. 175, €. 16,00, ISBN 978-88-420-9540-8.

Recensione di Carla Fronteddu - 02/04/2011

Filosofia politica, individualismo, democrazia, libertà

L'individualismo denota la fine della politica? Questo è l'interrogativo che attraversa l'ultimo saggio di Nadia Urbinati.

“L'identificazione dell'individualismo con una visione della vita che si rispecchia nella massima «me ne frego» è quasi un luogo comune nel nostro paese. Ma si tratta di un'identificazione sbagliata benché straordinariamente popolare” (p. IX). Individualismo, infatti, non è sinonimo né di egoismo antisociale, né di indifferenza verso gli altri e la politica, ma, al contrario, è il fondamento politico e ideale della democrazia.

L'individualismo di cui parla Urbinati è un individualismo politico, del tutto differente dall'individualismo “possessivo e conformista, litigioso e docile, facilmente disposto a manipolare le norme e subire il dominio dispotico della legge consumistica” (p. XI), che si è affermato in questi ultimi anni e che si intreccia con l’immagine di una società priva di un baricentro di forze etiche, quali il rispetto, l’empatia e la solidarietà. Questa torsione degenere dell'individualismo testimonia un'incrinatura del legame tra eguaglianza e libertà: “è lo specchio di una profonda trasformazione della cultura etica e dei sentimenti che ha facilitato la torsione dell'individualismo democratico in individualismo antisociale  e tirannico, oppure apatico e indifferente verso i destini della comunità umana più larga, nazionale o universale”(p. XII).

Il saggio di Urbinati si offre come un prezioso aiuto, per comprendere criticamente questo fenomeno di ridefinizione del legame tra eguaglianza e libertà. L'argomentazione sostenuta dalla filosofa prende le mosse dall'opera di Alexis de Tocqueville, il quale proponeva di trattare l'individualismo come una categoria politica e non morale: “di qui occorre partire quando lo si voglia analizzare criticamente [...] perché avendo chiaro il carattere dell'individualismo democratico è possibile sottoporre l'individualismo ad un'analisi critica coerente; e in secondo luogo per impedire che la critica dell'ideologia individualista si traduca in soluzioni antindividualiste, esterne o contrarie all'ordine democratico” (p. XIII).

Il testo si apre, dunque, con la definizione di individualismo democratico, elaborata a partire da una breve, ma lucida, esposizione degli aspetti peculiari della democrazia e del suo rapporto  con l'individualismo. La democrazia, sostiene Urbinati, “è l'ordine che meglio è disposto e predisposto a trattare gli individui come liberi ed eguali” (p. 5), essa, infatti, non è semplicemente una forma di governo, ma incarna, soprattutto, una ricca cultura dell'individualità. L'individuo democratico è “una persona che ha un senso morale della propria indipendenza e dignità e agisce mossa da passioni ed emozioni altrettanto forti delle ragioni e degli interessi; che non è soltanto concentrata sulle proprie realizzazioni, ma anche emotivamente disposta verso gli altri per le ragioni più diverse, come l'empatia, la curiosità, la volontà imitativa, il piacere di sperimentare” (p. 16). Ciò non significa che l'individuo democratico debba essere necessariamente un individuo virtuoso, nel senso inteso, ad esempio, dal repubblicanesimo. Quest'ultimo, infatti, manca della curiosità che spinge a ricercare l’altro, mentre l'individuo democratico dispone di qualità che lo rendono naturalmente disposto verso gli altri, capace di identificarsi empaticamente con chi è nel bisogno, di agire razionalmente, ma anche per piacere.

Le qualità dell'individuo democratico, tuttavia, possono dar vita anche a spiacevoli fenomeni e, a tal proposito, “la destra populista e quella comunitaria hanno dimostrato di essere capaci di usare a loro vantaggio i caratteri dell'individualismo, mettendo in luce la sua faccia più volgare, massificante e apatica”(p. 16). Quest'ultima non è altro che una distorsione dell'individualismo ed Urbinati mette bene in luce le torsioni e le aberrazioni che può generare l'ideologia individualista, dedicando densi capitoli alla descrizione dell'individualismo atomistico e antipolitico e di quello apatico e gregario. L'uno e l'altro sono le estreme conseguenze di una società antipolitica, che immagina la libertà, come libertà dalla politica.

Urbinati propone di considerare l'individualismo antipolitico “come il possibile nutrimento della tirannia dei moderni” (p. 79). Mentre nell'antichità, il rischio della tirannide proveniva dalla volontà sovrana, nelle società moderne la minaccia della tirannide proviene dall'interno della stessa società civile. A tal proposito, la filosofa ricorda l'ammonimento di Bobbio: “il potere degli interessi economici unito al declino dell'educazione politica o civica dei cittadini può dar vita a una miscela fatale per la democrazia rappresentativa” (p. 82).

L'altra torsione negativa dell'individualismo, presa in considerazione da Urbinati, è quella dell'indifferenza verso la società e la cosa pubblica. “Dall'individuo tiranno si passa all'individuo invisibile e apatico, un attore totalmente privato non perché vorrebbe asservire il pubblico ai suoi interessi, ma invece perché evita la partecipazione alla vita pubblica per cercare rifugio fuori della politica e restare ai margini della polis” (p. 97). Attraverso la lezione di Tocqueville, Urbinati illustra la differenza tra l'individualismo democratico e quest'individualismo che cerca rifugio nelle relazioni comunitarie, fuori della politica, fuori dal pubblico. Dal confronto tra i due termini emerge con chiarezza il grande paradosso dell'individualismo democratico: l'apatia e l'indifferenza sono già inscritte nelle qualità che denotano la democrazia. Anche dietro a questa manifestazione, spersonalizzata e apatica, dell'individualismo, è presente la nozione di libertà come libertà dalla politica che era già stata individuata alle spalle dell'individuo possessivo e tiranno: “il ciclo dell'individualismo si chiude quando l'individualismo perde ogni sembianza politica e torna da dove era partito: quella nozione di libertà individuale come libertà dalla politica che da Constant era stata identificata come la condizione propria della felicità dei moderni” (pp. 107-8).

In entrambe le manifestazioni patologiche dell'individualismo, il legame tra libertà ed eguaglianza si incrina ; nel primo caso la libertà viene ridefinita secondo la logica del possesso, nel secondo la democrazia  finisce per essere un mero regime della maggioranza.

Tocqueville, ricorda Urbinati, sosteneva che l'individualismo democratico fosse antipolitico, un fattore di avvilimento della politica, “o perché ne faceva uno strumento per la realizzazione degli interessi privati; o perché l'assoggettava al giudizio individuale quale che esso fosse”, ma, se la politica democratica produce disinteresse per la politica stessa, come potrà sorreggersi “senza trasformarsi in un dispotismo degli apparati con un pubblico di apatici e conformisti?” (p. 155)

Il saggio di Urbinati risponde a questa obiezione, ribadendo che non è l'individualismo a decretare la fine della politica, ma le sue rappresentazioni grottesche, antipolitiche ed apatiche. L'individualismo democratico, fondato sui pilastri di libertà ed eguaglianza, al contrario, non può che rappresentare la cura per la democrazia.

La brillante analisi critica condotta da Urbinati ha il pregio, non solo di valorizzare il significato di individualismo democratico, ma, soprattutto, di mettere in luce le estreme, ma non improbabili, torsioni degeneri di quest'ultimo, offrendosi come un importante monito ai cittadini delle democrazie contemporanee: “tanto la libertà quanto l'eguaglianza sono condizioni artificiali, non si danno in natura.... questa artificialità giustificativa è una prova del fatto che tanto questi valori quanto la democrazia sono conquiste mai assicurate o al riparo da rischi” (pp. 5-6).

Indice

Prologo
I.    Individualismo democratico
II.    Felicità privata
III.    Un “ismo” da usare con cautela
IV.    Una breve storia
V.    L'individuo contro la politica
VI.    La tirannia dei moderni
VII.    Apatia e solitudine
VIII.    Identità gregarie
IX.    Rigenerazione
X.    Giudizio e dissenso
    Indice dei nomi

L'autrice

Nadia Urbinati insegna Teoria politica alla Columbia University. Tra le sue pubblicazioni più recenti Ai confini della democrazia. Opportunità e rischi dell'universalismo democratico (2007), Lo scettro senza il re (2009) e Individualismo democratico. Emerson, Dewey e la cultura politica americana (2009).